- In questo caso, sempre solidali! Acconsentiremo insieme!
- D’accordo! E ora, via!
A questo nuovo dialogo, Cosimo si morse un dito dalla rabbia d’aver tentato d’evitare il compimento della vendetta. «Che si compia, dunque!» e si ritrasse tra le fronde. I due ufficiali balzavano in arcioni.
«Ora gridano», pensò Cosimo, e gli venne da tapparsi le orecchie.
Risuonò un duplice urlo. I due luogotenenti s’erano seduti su due porcospini nascosti sotto la gualdrappa delle selle.
- Tradimento! - e volarono a terra, in un’esplosione di salti e grida e giri su se stessi, e pareva che volessero prendersela con la Marchesa.
Ma Donna Viola, più indignata di loro, gridò verso l’alto: -
Scimmione maligno e mostruoso! - e s’avventò per il tronco del castagno d’India, così rapidamente scomparendo alla vista dei due ufficiali che la credettero inghiottita dalla terra.
Tra i rami Viola si trovò di fronte Cosimo. Si guardavano con occhi
fiammeggianti, e quest’ira dava loro una specie di purezza, come arcangeli. Pareva stessero per sbranarsi, quando la donna: -O mio caro! - esclamò. - Così, così ti voglio: geloso, implacabile! - Già gli aveva gettato le braccia al collo, e s’abbracciavano, e Cosimo non si ricordava già più nulla.
Lei gli ondeggiò tra le braccia, staccò il viso dal suo, come riflettendo, e poi: - Però, anche loro due, quanto m’amano, hai visto?
Sono pronti a dividermi tra loro...
Cosimo parve gettarsi contro di lei, poi si sollevò II barone rampante 211
tra i rami, morse le fronde, picchiò il capo contro il tronco: - Sono due vermiii...!
Viola s’era allontanata da lui col suo viso di statua. - Hai molto da imparare da loro -. Si voltò, scese veloce dall’albero.
I due corteggiatori, dimentichi delle passate contese, non avevano trovato altro partito che quello di incominciare con pazienza a cercarsi a vicenda le spine. Donna Viola li interruppe. - Presto! Venite sulla mia carrozza! - Scomparvero dietro il padiglione. La carrozza partì.
Cosimo, sul castagno d’India, nascondeva il viso tra le mani.
Cominciò un tempo di tormenti per Cosimo, ma anche per i due ex
rivali. E per Viola, poteva forse dirsi un tempo di gioia? Io credo che la Marchesa tormentasse gli altri solo perché voleva tormentarsi. I due nobili ufficiali erano sempre tra i piedi, inseparabili, sotto le finestre di Viola, o invitati nel suo salotto, o in lunghe soste soli all’osteria. Lei li lusingava tutti e due e chiedeva loro in gara sempre nuove prove d’amore, alle quali essi ogni volta si dichiaravano pronti, e già erano disposti ad averla metà per uno, non solo, ma a dividerla anche con altri, e ormai rotolando per la china delle concessioni non potevano fermarsi più, spinti ognuno dal desiderio di riuscire finalmente in questo modo a commuoverla e ad ottenere il mantenimento delle sue promesse, e nello stesso tempo impegnati dal patto di solidarietà col rivale, e insieme divorati dalla gelosia e dalla speranza di soppiantarlo, e ormai anche dal richiamo dell’oscura degradazione in cui si sentivano affondare.
A ogni nuova promessa strappata agli ufficiali di marina. Viola montava a cavallo e andava a dirlo a Cosimo.
- Di’, lo sai che l’inglese è disposto a questo e a questo... E il napoletano pure... - gli gridava, appena lo vedeva tetramente appollaiato su un albero.
Cosimo non rispondeva.
- Questo è amore assoluto, - lei insisteva.
- Vaccate assolute, tutti quanti siete! - urlava Cosimo, e spariva.
Era questo il crudele modo che ora avevano d’amarsi, e non trovavano più la via d’uscirne.
La nave ammiraglia inglese salpava. - Voi restate, è vero? - disse Viola a Sir Osbert. Sir Osbert non si presentò a bordo; fu dichiarato disertore. Per solidarietà ed emulazione. Don Salvatore disertò lui pure.
- Loro hanno disertato! - annunciò trionfalmente Viola a Cosimo. -
Per me! E tu...
- E io??? - urlò Cosimo con uno sguardo così feroce che Viola non disse più parola.
Sir Osbert e Salvatore di San Cataldo, disertori dalla Marina delle rispettive Maestà, passavano le giornate all’osteria, giocando ai dadi, pallidi, inquieti, cercando di sbancarsi a vicenda, mentre Viola era al culmine della scontentezza di sé e di tutto quel che la circondava.
Prese il cavallo, andò verso il bosco. Cosimo era su una quercia. Lei si fermò sotto, in un prato.
- Sono stanca.
- Di quelli?
- Di tutti voi.
-Ah.
- Loro m’hanno dato le più grandi prove d’amore... Cosimo sputò.
- ... Ma non mi bastano. Cosimo alzò gli occhi su di lei. E lei: - Tu non credi che l’amore sia dedizione assoluta, rinuncia di sé... Era lì sul prato, bella come mai, e la freddezza
che induriva appena i suoi lineamenti e l’altero portamento della persona sarebbe bastato un niente a scioglierli, e riaverla tra le braccia... Poteva dire qualcosa, Cosimo, una qualsiasi cosa per venirle incontro, poteva dirle: - Dimmi che cosa vuoi che faccia, sono pronto... - e sarebbe stata di nuovo la felicità per lui, la felicità insieme senza ombre. Invece disse: - Non ci può essere amore se non si è se stessi con tutte le proprie forze.
Viola ebbe un moto di contrarietà che era anche un moto di stanchezza. Eppure ancora avrebbe potuto capirlo, come difatti lo capiva, anzi aveva sulle labbra le parole da dire: «Tu sei come io ti voglio...» e subito risalire da lui... Si morse un labbro. Disse: - Sii te stesso da solo, allora.
«Ma allora esser me stesso non ha senso...», ecco quello che voleva dire Cosimo. Invece disse: -Se preferisci quei due vermi...