- Non ti permetto di disprezzare i miei amici! -lei gridò, e ancora pensava: «A me importi solo tu, è solo per te che faccio tutto quel che faccio! »
- Solo io posso essere disprezzato...
- Il tuo modo di pensare!
- Sono una cosa sola con esso.
- Allora addio. Parto stasera stessa. Non mi vedrai più.
Corse alla villa, fece i bagagli, partì senza neppure dire niente ai luogotenenti. Fu di parola. Non tornò più a Ombrosa. Andò in Francia e gli avvenimenti storici s’accavallarono alla sua volontà, quand’ella già non desiderava che tornare. Scoppiò la Rivoluzione, poi la guerra; la Marchesa dapprima interessata al nuovo corso degli eventi (era nell’ entourage di Lafayette), emigrò poi nel Belgio e di là in Inghilterra. Nella nebbia di Londra, durante i lunghi anni delle guerre contro Napoleone, sognava gli alberi d’Ombrosa. Poi si risposò con un Lord interessato nella Compagnia delle Indie e si stabilì a Calcutta. Dalla sua terrazza guardava le foreste, gli alberi più strani di quelli del giardino della sua infanzia, e le pareva a ogni momento di vedere Co-simo farsi largo tra le foglie. Ma era l’ombra d’una scimmia, o d’un giaguaro.
Sir Osbert Castlefight e Salvatore di San Cataldo restarono legati per la vita e per la morte, e si diedero alla carriera dell’avventuriero.
Furono visti nelle case di gioco di Venezia, a Gottinga alla facoltà di teologia, a Pietroburgo alla corte di Caterina II, poi se ne persero le tracce.
Cosimo restò per lungo tempo a vagabondare per i boschi, piangendo, lacero, rifiutando il cibo. Piangeva a gran voce, come i neonati, e gli uccelli che una volta fuggivano a stormi all’approssimarsi di quell’infallibile cacciatore, ora gli si facevano vicini, sulle cime degli alberi intorno o volandogli sul capo, e i passeri gridavano, trillavano i cardellini, tubava la tortora, zirlava il tordo, cinguettava il fringuello e il luì; e dalle alte tane uscivano gli scoiattoli, i ghiri, i topi campagnoli, e univano i loro squittii al coro, e così si muoveva mio fratello in mezzo a questa nuvola di pianti.
Poi venne il tempo della violenza distruggitrice: ogni albero, cominciava dalla vetta e, via una foglia via l’altra, rapidissimo lo riduceva bruco come d’inverno, anche se non era d’abito spogliante. Poi risaliva in cima e tutti i ramoscelli li spezzava finché non lasciava che le grosse travature, risaliva ancora, e con un temperino cominciava a staccare la corteccia, e si vedevano le piante
scorticate scoprire il bianco con abbrividente aria ferita.
E in tutto questo rovello, non c’era più risentimento contro Viola, ma soltanto rimorso per averla perduta, per non aver saputo tenerla legata a sé,
per averla ferita con un ingiusto e sciocco orgoglio. Perché, ora lo capiva, lei gli era stata sempre fedele, e se si portava dietro altri due uomini era per significare che stimava solo Cosimo degno d’essere il suo unico amante, e tutte le sue insoddisfazioni e bizze non erano che la smania insaziabile di far crescere il loro innamoramento non ammettendo che toccasse un culmine, e lui lui lui non aveva capito nulla di questo e l’aveva inasprita fino a perderla.
Per alcune settimane si tenne nel bosco, solo come mai era stato; non aveva più neanche Ottimo Massimo, perché se l’era portato via Viola. Quando mio fratello tornò a mostrarsi a Ombrosa, era cambiato.
Neanch’io potevo più farmi illusioni: stavolta Cosimo era proprio diventato matto.
XXIV
Che Cosimo fosse matto, a Ombrosa s’era detto sempre, fin da quando a dodici anni era salito sugli alberi rifiutandosi di scendere.
Ma in seguito, come succede, questa sua follia era stata accettata da tutti, e non parlo solo della fissazione di vivere lassù, ma delle varie stranezze del suo carattere, e nessuno lo considerava altrimenti che un originale. Poi, nella piena stagione del suo amore per Viola ci furono le manifestazioni in idiomi incomprensibili, specialmente quella durante la festa del Patrono, che i più giudicarono sacrilega, interpretando le sue parole come un grido eretico, forse in cartaginese, lingua dei Pelagiani, o una professione di Socinianesimo, in polacco.
Da allora, cominciò a correre la voce: - II Barone è ammattito! - e i benpensanti soggiungevano: - Come può ammattire uno che è stato matto sempre?
In mezzo a questi contrastanti giudizi, Cosimo era diventato matto davvero. Se prima andava vestito di pelli da capo a piedi, ora cominciò ad adornarsi la testa di penne, come gli aborigeni d’America, penne d’upupa o di verdone, dai colori vivaci, ed oltre che in testa ne portava sparse sui vestiti. Finì per farsi delle marsine tutte ricoperte di penne, e ad imitare le abitudini di vari uccelli, come il picchio, traendo dai tronchi lombrichi e larve e vantandoli come gran ricchezza.
Pronunciava anche delle apologie degli uccelli, alla gente che si radunava a sentirlo e a motteggiarlo sotto gli alberi: e da cacciatore si
fece avvocato dei pennuti e si proclamava ora codibugnolo ora barbagianni ora pettirosso, con opportuni camuffamenti, e teneva discorsi d’accusa agli uomini, che non sapevano riconoscere negli uccelli i loro veri amici, discorsi che erano poi d’accusa a tutta la società umana, sotto forma di parabole. Pure gli uccelli s’erano accorti di questo suo mutamento d’idee, e gli venivano vicino, anche se sotto c’era gente ad ascoltarlo. Così egli poteva illustrare il suo discorso con esempi viventi che indicava sui rami intorno.
Per questa sua virtù, molto si parlò tra i cacciatori d’Ombrosa d’usarlo come richiamo, ma nessuno osò mai sparare sugli uccelli che gli si posavano vicino. Perché il Barone anche adesso che era ridotto così fuori di senno continuava a incutere una certa soggezione; lo canzonavano, sì, e aveva spesso sotto i suoi alberi un codazzo di monelli e fannulloni che gli davano la baia, però veniva anche rispetta-to, ed ascoltato sempre con attenzione.
I suoi alberi ora erano addobbati di fogli scritti e anche di cartelli con massime di Seneca e Shaftesbury, e di oggetti: ciuf fi di penne, ceri da chiesa, falciuole, corone, busti da donna, pistole, bilance, legati l’uno all’altro in un certo ordine. La gente d’Ombrosa passava le ore a cercar d’indovinare cosa volevano dire quei rebus: i nobili, il Papa, la
virtù, la guerra, e io credo che certe volte non avessero nessun significato ma servissero solo ad aguzzare l’ingegno e a far capire che anche le idee più fuori del comune potevano essere le giuste.
Cosimo si mise anche a comporre certi scritti, come II verso del Merlo, II Picchio che bussa, I Dialoghi dei Gufi, e a distribuirli pubblicamente. Anzi, fu
proprio in questo periodo di demenza che apprese l’arte della stampa e cominciò a stampare delle specie di libelli o gazzette (tra cui La Gazzetta delle Gazze), poi tutte unificate sotto il titolo: II Monitore dei Bipedi. S’era portato su di un noce un pancone, un telaio, un torchio, una cassetta di caratteri, una damigiana d’inchiostro, e passava le giornate a comporre le sue pagine e a tirare copie. Alle volte tra il telaio e la carta capitavano dei ragni, delle farfalle, e la loro impronta restava stampata sulla pagina;
alle volte un ghiro saltava sul foglio fresco d’inchiostro e imbrattava tutto a colpi di coda; alle volte gli scoiattoli si prendevano una lettera dell’alfabeto e se la portavano nella loro tana credendo fosse da mangiare, come capitò con la lettera Q, che per quella forma rotonda e peduncolata fu presa per un frutto, e Cosimo dovette incominciare certi articoli Cuando e Cuantunque.
Tutte belle cose, però io avevo l’impressione che in quel tempo mio fratello non solo fosse del tutto ammattito, ma andasse anche un poco imbecillendosi, cosa questa più grave e dolorosa, perché la pazzia è una forza della natura, nel male o nel bene, mentre la minchioneria è una debolezza della natura, senza contropartita.
D’inverno infatti egli parve ridursi a una specie di letargo. Stava
appeso a un tronco nel suo sacco imbottito, con solo la testa fuori, come un nidiaceo, ed era tanto se, nelle ore più calde, faceva quattro salti per arrivare all’ontano sul torrente Merdanzo a fare i suoi bisogni.
Se ne stava nel sacco a leggiucchiare (accendendo, a buio, una lucernetta a olio), o a borbottare tra sé, o a canticchiare. Ma il più del tempo lo passava dormendo.
Per mangiare, aveva certe sue misteriose provviste, ma si lasciava offrire piatti di minestrone e di ravioli, quando qualche anima buona veniva a por-larglieli fin su, con una scala. Difatti, era nata come una superstizione nella gente minuta, che a fare un’offerta al Barone portasse fortuna; segno che egli suscitava o timore o benvolere, e io credo il secondo. Questo fatto che l’erede del titolo baronale di Rondò si mettesse a vivere di pubbliche elemosine mi parve disdicevole; e soprattutto pensai alla buonanima di nostro padre, se l’avesse saputo.
Per me, fin allora non avevo da rimproverarmi nulla, perché mio fratello aveva sempre disprezzato le comodità della famiglia, e m’aveva firmato una carta per la quale, dopo avergli versato una piccola rendita (che gli andava quasi tutta in libri) verso di lui non avevo più nessun dovere. Ma adesso, vedendolo incapace di procurarsi
il cibo, provai a far salire da lui su una scala a pioli uno dei nostri lacchè in livrea e parrucca bianca, con un quarto di tacchino e un bicchiere di Borgogna su un vassoio. Credevo-rifiutasse, per una di quelle misteriose ragioni di principio, invece accettò subito molto volentieri, e da allora, ogni volta che ce ne ricordavamo, mandavamo una porzione delle nostre pietanze a lui sull’albero.
Insomma, era una brutta decadenza. Per fortuna ci fu l’invasione dei lupi, e Cosimo ridiede prova delle sue virtù migliori. Era un inverno gelido, la neve era caduta fin sui nostri boschi. Torme di lupi, cacciati dalla fame dalle Alpi, calarono alle nostre riviere. Qualche boscaiolo li incontrò e ne portò la notizia atterrito. Gli Ombrosotti, che dal tempo della guardia contro gli incendi avevano imparato a unirsi nei momenti del pericolo, presero a far turni di sentinella intorno alla città, per impedire ravvicinarsi di quelle fiere affamate. Ma nessuno s’azzardava a uscire dall’abitato, massime la notte.
- Purtroppo il Barone non è più quello d’una volta! - si diceva a Ombrosa.
Quel brutto inverno non era stato senza conseguenze per la salute di Cosimo. Stava lì a penzolare rannicchiato nel suo otre come un baco nel bozzolo, con la goccia al naso, l’aria sorda e gonfia. Ci fu l’allarme
per i lupi e la gente passando là sotto l’apostrofava: - Ah, Barone, una volta saresti stato tu a farci la guardia dai tuoi alberi, e adesso siamo noi che facciamo la guardia a te.
Lui restava con gli occhi semichiusi, come se non capisse o non gli importasse niente. Invece, a un tratto alzò il capo, tirò su dal naso e disse, rauco: -Le pecore. Per cacciare i lupi. Vanno messe delle pecore sugli alberi. Legate.