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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli di filo attorno a un pezzo di fegato o di grasso e a una foglia d’alloro, e mettendole ad abbrustolire sulla fiamma, infilate a uno spiedo: l’odore di carne bruciata e il fumo grigio si spandevano per la casa e per la via, an-nunciatori di una barbara delizia. Nella cucina piú misteriosa dei filtri, Giulia era maestra: le ragazze ricorre-vano a lei per consiglio per preparare i loro intrugli amorosi. Conosceva le erbe e il potere degli oggetti magici. Sapeva curare le malattie con gli incantesimi, e perfino poteva far morire chi volesse, con la sola virtú di terribili formule.

Giulia aveva una sua casa, non lontana dalla mia, piú in basso, verso il Timbone della Madonna degli Angeli.

Ci dormiva, la notte, con il suo ultimo amante, il barbiere, un giovanotto albino, dagli occhi rossi di coniglio.

Batteva al mio uscio la mattina presto, con il suo bambino, andava a prender l’acqua, preparava il fuoco e il pranzo, e se ne ripartiva nel pomeriggio: la sera dovevo cuocermi la cena da solo. Giulia andava, veniva, ricom-pariva a suo piacere: ma non aveva arie da padrona di casa. Aveva capito subito che i tempi non erano piú quelli di una volta, e che io ero un tutt’altro cristiano che il suo antico prete: forse piú misterioso a lei di quello che lei potesse essere per me. Mi supponeva un grande potere, ed era contenta di questo, nella sua passività.

Fredda, impassibile e animalesca, la strega contadina era una serva fedele.

Cosí finí il primo periodo del mio soggiorno gaglianese, passato a Gagliano di Sopra, nella casa della vedova.

Contento della nuova solitudine, stavo sdraiato sulla mia terrazza, e guardavo l’ombra delle nuvole muoversi sulle crete lontane, come una nave sul mare. Udivo, dalle stanze di sotto, il rumore dei passi di Giulia e l’abbaiare del cane. Questi due strani esseri, la strega e Barone, furono, da allora, i compagni abituali della mia vita.

Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli I grandi calori andavano passando, in quel settembre avanzato, e cedevano al primo fresco precursore dell’au-tunno. I venti mutavano direzione, non portavano piú l’arsura bruciante dei deserti, ma un vago sentore marino; e i tramonti allungavano per delle ore le loro strisce di rossi fuochi, sui monti di Calabria, nell’aria piena dei voli delle cornacchie e dei pipistrelli. Sulla mia terrazza il cielo era immenso, pieno di nubi mutevoli: mi pareva di essere sul tetto del mondo, o sulla tolda di una nave, ancorata su un mare pietrificato. A monte, verso levan-te, le casupole di Gagliano di Sotto nascondevano agli sguardi il resto dei paese, che, costruito sulla cresta di un’onda di terra, a saliscendi, non si riesce mai a vedere intero da nessuna parte: dietro i loro tetti giallastri spuntava la costa di un monte, al di sopra dei cimitero, e di là, prima del cielo, si sentiva il vuoto della valle. Sulla mia sinistra, a mezzogiorno, c’era la stessa vista che dal palazzo: la distesa sconfinata delle argille, con le macchie chiare dei paesi, fino ai confini del mare invisibile.

Alla mia destra, a mezzanotte, scendeva la frana sul burrone rinchiuso fra i monti, che mostravano la loro faccia spelacchiata e brulla: in fondo al burrone il sentiero, do-ve vedevo muoversi, non piú grandi di formiche, i contadini che andavano e venivano dai campi. La Giulia si meravigliava che io sapessi distinguere, a una tale distanza, i gaglianesi dai forestieri, i contadini dai mercanti ambulanti: e, per quanto la mia vista fosse buona, non avrei davvero potuto farlo se non per divinazione o per magía. Ma avevo notato il loro diverso modo di camminare: i contadini avanzavano rigidi, senza muovere le braccia. Ogni volta che io vedevo uno di quei puntini neri muoversi oscillando con un dondolío e un’aria quasi di danza, potevo esser certo che era uno di città: presto la tromba del banditore becchino avrebbe annuncia-to il suo arrivo e chiamate le donne all’acquisto delle sue mercanzie.

Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Dinanzi a me, verso occidente, dietro le larghe foglie verdi e grige del fico dell’orto e i tetti delle ultime catapecchie digradanti in pendío, sorgeva il Timbone della Madonna degli Angeli, un monticciuolo di terra tutto incavi e sporgenze, con poca erba rada qua e là nella parte meno dirupata, come un osso di morto, la testa di un femore gigantesco, che portasse ancora attaccati dei brandelli secchi di carne e di pelle. A sinistra del Timbone, per un tratto lunghissimo, fino laggiú in fondo, verso l’Agri, dove il terreno si spianava in un luogo detto il Pantano, era un seguirsi digradante di monticelli, di buche, di coni di erosione rigati dall’acqua, di grotte naturali, di piagge, fossi e collinette di argilla uniformemente bianca, come se la terra intera fosse morta, e ne fosse rimasto al sole il solo scheletro imbiancato e lavato dalle acque. Dietro questo ossame desolato era nascosto, su una piccola altura sul fiume malarico, Gaglianello, e piú lontano si vedeva il greto dell’Agri. Di là dall’Agri, su una prima fila di colline grige, sorgeva bianco Sant’Arcangelo, il paese di Giulia, e dietro, piú azzurre, si levavano altre colline ed altre ancora, schierate piú indietro, con dei paesi vaghi nella distanza, e piú in là ancora i borghi degli albanesi, sulle prime pendici del Pollino, e dei monti di Calabria che chiudevano l’orizzonte. Un po’ a sinistra e piú in alto di Sant’Arcangelo, appariva, a mezza costa di un’altura, il biancore di una chiesa. Qui usavano convenire in pellegrinaggio le genti della valle: era un luogo di molta devozione, sede di una madonna miracolosa. In questa chiesa erano conservate le corna di un drago che infestava, nei tempi antichi, la regione.

Tutti, a Gagliano, le avevano vedute. Io purtroppo non potei mai andarci, come avrei desiderato. Il drago, a quello che mi raccontarono, abitava in una grotta vicino al fiume, e divorava i contadini, riempiva le terre del suo fiato pestifero, rapiva le fanciulle, distruggeva i raccolti.

Non si poteva piú vivere, in quel tempo, a Sant’Arcan-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli gelo. I contadini avevano cercato di difendersi, ma non potevano far nulla contro quella bestiale potenza mo-struosa. Ridotti alla disperazione, costretti a disperdersi come animali su per i monti, pensarono infine di rivolgersi per soccorso al piú potente signore dei luoghi, al principe Colonna di Stigliano.

Il principe venne, tutto armato, sul suo cavallo, andò alla grotta del drago e lo sfidò a battaglia. Ma la forza del mostro, dalla bocca che lanciava fuoco e dalle enormi ali di pipistrello, era immensa, e la spada del principe pareva impotente di fronte a lui. A un certo momento, quel valoroso si sentí tremare il cuore, e stava quasi per darsi alla fuga o per cadere fra gli artigli del drago, quando gli apparve, vestita di azzurro, la Madonna, che gli disse con un sorriso: – Coraggio, principe Colonna! –

e rimase da una parte, appoggiata alla parete di terra della caverna, a guardare la lotta. A questa visione, a queste parole, l’ardimento del principe si centuplicò, e tanto fece che il dragone cadde morto ai suoi piedi. Il principe gli tagliò la testa, ne staccò le corna, e fece edi-ficare la chiesa perché vi fossero per sempre conservate.

Passato il terrore, liberato il paese, i santarcangelesi tornarono alle loro case, e cosí fecero quelli di Noepoli e di Senise e degli altri paesi lí attorno, che, come loro, avevano dovuto fuggire pei monti. Bisognava ora com-pensare il principe per il servizio reso: in quei tempi antichi, i signori, per quanto cavallereschi e amanti di gloria, e protetti personalmente dalla Madonna, non usavano muoversi per nulla. Si radunarono perciò gli abitanti di tutti i paesi fatti sicuri dalla morte del drago, per deliberare. Quelli di Noepoli e di Senise proposero di dare al principe alcune loro terre in signoria feudale: ma quelli di Sant’Arcangelo, che ancora oggi sono repu-tati avari e astuti, e che volevano salvare la terra, fecero una diversa proposta. – Il drago, – dissero, – abitava nel fiume, era una bestia dell’acqua. Il principe si prenda Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli dunque il fiume, diventi il signore della corrente –. Il lo-ro consiglio prevalse: l’Agri fu offerto al Colonna, e quello lo accettò. I contadini di Sant’Arcangelo credeva-no di aver fatto un buon affare, e di aver ingannato il lo-ro salvatore: ma avevano fatto male i loro conti. L’acqua dell’Agri serviva ad irrigare i campi, e da allora bisognò pagarla al principe e ai signori feudali suoi discendenti, per tutti i secoli. Cosí ebbe origine una servitú che si è conservata fino alla seconda metà del secolo scorso.

Non so se esistano ancora oggi dei discendenti diretti di quell’antico paladino, e se vantino ancora i loro diritti sull’acqua. Un mio amico, il direttore d’orchestra Colonna, che discende da un ramo collaterale dei principi di Stigliano e potrebbe portarne il titolo, non sapeva neppure, quando dopo molti anni gliene parlai, dove fosse Stigliano, il suo feudo, e tanto meno sapeva nulla del drago, gloria della sua famiglia. Ma i contadini, che hanno pagato l’acqua per molti secoli, e che vanno ancora in pellegrinaggio a contemplare le corna del mostro, si ricordano del drago e della Madonna, e del principe.

Che ci fossero, da queste parti, dei draghi, nei secoli medioevali (i contadini e la Giulia, che me ne parlavano, dicevano: – In tempi lontani, piú di cent’anni fa, molto prima del tempo dei briganti –) non fa meraviglia: né farebbe meraviglia se ricomparissero ancora, anche oggi, davanti all’occhio atterrito del contadino. Tutto è realmente possibile, quaggiú, dove gli antichi iddii dei pastori, il caprone e l’agnello rituale, ripercorrono, ogni giorno, le note strade, e non vi è alcun limite sicuro a quello che è umano verso il mondo misterioso degli animali e dei mostri. Ci sono a Gagliano molti esseri strani, che partecipano di una doppia natura. Una donna, una contadina di mezza età, maritata e con figli, e che non mostrava, a vederla, nulla di particolare, era figlia di una vacca. Cosí diceva tutto il paese, e lei stessa Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli lo confermava. Tutti i vecchi ricordavano la sua madre vacca, che la seguiva dappertutto quando era bambina, e la chiamava muggendo, e la.leccava con la sua lingua ruvida. Questo non impediva che fosse esistita anche una madre donna, che ora era morta, come da molti an-ni era morta anche la madre vacca. Nessuno trovava, in questa doppia natura e in questa doppia nascita, nessuna contraddizione: e la contadina, che anch’io conoscevo, viveva, placida e tranquilla come le sue madri, con la sua eredità animalesca.

Alcuni assumono questa mescolanza di umano e di bestiale soltanto in particolari occasioni. I sonnambuli diventano lupi, licantropi, dove non si distingue piú l’uomo dalla belva. Ce n’era qualcuno anche a Gagliano, e uscivano nelle notti d’inverno, per trovarsi con i loro fratelli, i lupi veri. – Escono la notte, – mi raccontava la Giulia, – e sono ancora uomini, ma poi diventano lupi e si radunano tutti insieme, con i veri lupi, attorno alla fontana. Bisogna star molto attenti quando ritornano a casa. Quando battono all’uscio la prima volta, la loro moglie non deve aprire. Se aprisse vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già di uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all’uscio per la terza volta, si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l’uomo di prima. Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano battuto tre volte. Bisogna aspettare che si siano mutati, che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo, e anche la memoria di essere stati bestie. Poi, quelli non si ricordano piú di nulla.

La doppia natura è talvolta spaventosa e orrenda, co-me per i licantropi; ma porta con sé, sempre, una attrattiva oscura, e genera il rispetto, come a qualcosa che Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli partecipa della divinità. Qualcosa di questo genere era riconosciuta da tutti, in paese, per il mio cane, che non era riguardato come un cane normale, ma come un essere straordinario, diverso da tutti gli altri cani, e degno di essere particolarmente onorato. Anch’io, del resto, ho sempre pensato che in lui ci fosse un elemento infantil-mente angelico o demoniaco, e che i contadini non avessero torto nel trovargli quella ambiguità che obbliga all’adorazione. Già, la sua origine era misteriosa. Questo cane era stato trovato in treno, sulla linea che da Napoli va a Taranto, con un cartellino appeso al collare che diceva: «Il mio nome è Barone. Chi mi trova abbia cura di me». Non si seppe dunque mai di dove venisse: forse dalla grande città, poteva essere il figlio di un re. Lo presero i ferrovieri, e lo tennero qualche tempo alla stazione di Tricarico; quelli di Tricarico lo regalarono ai ferrovieri della stazione di Grassano. Il podestà di Grassano lo vide, se lo fece dare dai ferrovieri, e lo tenne nella sua casa con i suoi bambini, ma poiché faceva troppo chiasso, ne fece dono a suo fratello, segretario del sindacato dei contadini di Grassano, che lo portava sempre con sé, nei suoi giri per la campagna. Tutti conoscevano Barone, e tutti, a Grassano, lo consideravano un essere straordinario.

Un giorno, nei tempi in cui vivevo solo laggiú, mi avvenne di dire per caso a dei miei amici contadini e artigiani che non mi sarebbe dispiaciuto avere un cane, per la compagnia. La mattina dopo mi portarono subito un cucciolo, uno dei soliti cani gialli da caccia. Lo tenni qualche tempo, ma non mi piaceva: non mi riusciva di allevarlo, sporcava dappertutto, e non mi pareva intelligente: perciò lo restituii a quelli che me l’avevano regalato, e non pensai piú a cani. Ma quando arrivò improvvisamente l’ordine di partire per Gagliano, e quella buona gente che mi si era affezionata ne fu spiacentissi-ma, come di una disgrazia che li avesse ingiustamente Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli colpiti, i contadini vollero lasciarmi un regalo, che mi seguisse e mi rammentasse che a Grassano c’erano dei buoni cristiani che mi volevano bene. Si ricordarono di quel mio vecchio desiderio, che io mi ero ormai dimenticato, e decisero di regalarmi un cane. Ma nessun altro cane era degno di me, se non il famoso Barone; e Barone doveva essere mio. Tanto dissero e tanto fecero, che riu-scirono a farselo dare dal suo padrone, lo pulirono, lo lavarono, gli cercarono un bel collare, una museruola, e un guinzaglio. Antonino Roselli, il giovane barbiere e flautista, che sognava di seguirmi in capo al mondo co-me mio segretario, lo tosò da leoncino, lasciandogli il lungo pelo sul davanti, e rasandolo sul dietro, con un grosso ciuffo in cima alla coda; e ingentilito, bianco, profumato e travestito, Barone, il selvaggio Barone, mi fu offerto in dono, a ricordo eterno della buona città di Grassano, il giorno prima della mia partenza. Cosí truc-cato e abbellito, io stesso non capivo che cane fosse: mi pareva uno strano miscuglio di cane barbone e di cane da pastore. In verità era forse un cane da pastore, ma di una razza o incrocio non comune: non ne ho mai incontrati altri identici. Era di media grandezza, tutto bianco, con una macchia nera sulla punta delle orecchie, che aveva lunghissime e pendenti ai lati. del viso. Questo era molto bello, come quello di un drago cinese, spaventoso nei momenti di furore, o quando mostrava i denti, ma con due occhi rotondi e umani, color nocciola, coi quali mi seguiva senza voltare il capo, pieno volta a volta di dolcezza, di libertà e di una certa infantile misteriosa arguzia. Il pelo era lungo quasi fino a terra, ricciuto, mor-bido e lucente come la seta: la coda, che egli portava arcuata e svolazzante come un pennacchio di guerriero orientale, era grossa come quella di una volpe. Era un essere allegro, libero e selvaggio: si affezionava, ma senza servilità; ubbidiva, ma conservava la sua indipenden-za; una specie di folletto o di spiritello familiare, bona-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli rio, ma, in fondo, irraggiungibile. Piú che camminare, saltava, a grandi balzi, con un ondeggiare delle orecchie e del pelo; inseguiva le farfalle e gli uccelli, spaventava le capre, lottava con i cani e coi gatti, correva da solo pei campi guardando le nuvole, sempre pronto, scattante, in un continuo gioco aereo, come seguisse il filo ondulante di un innocente pensiero inumano, l’elastico incarnarsi di un bizzarro spirito dei boschi.

Fin dal nostro primo arrivo a Gagliano, l’attenzione di tutti si posò su questo mio strano compagno: e i contadini, che vivono immersi nell’incanto animalesco, si accorsero subito della sua natura misteriosa. Non avevano mai visto una bestia simile: in paese ci sono soltanto i segugi bastardi, buoni cacciatori talvolta, ma miseri, umiliati, plebei; e solo di rado passa, dietro i greggi ed i pastori, qualche maremmano feroce, col collare irto di punte di ferro, contro il morso dei lupi. E poi, il mio ca-ne si chiamava Barone. In questi paesi, i nomi significa-no qualcosa: c’è in loro un potere magico: una parola non è mai una convenzione o un fiato di vento, ma una realtà, una cosa che agisce. Egli era dunque, davvero, un barone; un signore, un essere potente, che bisognava rispettare. Se, fin dal primo giorno, io fui guardato dai popolani con simpatia e quasi con ammirazione, lo dovetti certo un poco anche al mio cane. Quando egli passava, pazzamente saltando e abbaiando nella sua folle libertà naturale, i contadini se lo additavano, e i ragazzi gridavano: – Guarda, guarda! Mezzo barone e mezzo leone! – Barone per loro era un animale araldico, il leone rampante sullo scudo di un signore. E tuttavia era soltanto un cane, un frusco come tutti gli altri: ma questa sua doppia natura era meravigliosa. Anch’io lo amavo per la sua semplice molteplicità. Ora egli è morto, co-me mio padre a cui l’avevo regalato, ed è sepolto sotto un mandorlo in faccia al mare di Liguria, in quella mia terra dove io non posso mettere il piede, poiché pare Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli che i potenti, nel loro terrore del sacro, abbiano scoperto che anche in me è una doppia natura, e che, anch’io, sono mezzo barone e mezzo leone.

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