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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!

Per i contadini, lo Stato è piú lontano del cielo, e piú maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Perciò essi, com’è giusto, non si rendono affatto conto di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma. Non importa ad essi di sapere quali siano le opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiú: ma li guardano benigni, e li considerano come propri fratelli, perché sono anch’essi, per motivi misteriosi, vittime del loro stesso destino. Quando, nei primi giorni, mi capitava d’incontrare sul sentiero, fuori del paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava. sul suo asino, per salutarmi, e mi chiedeva: – Chi sei? Addò vades? (Chi sei? Do-ve vai?) – Passeggio, – rispondevo, – sono un confinato.

– Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). – Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male –. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.

Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.

– Peccato! Qualcuno ti ha voluto male –. Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso, malvagio, portato qua e là per opera ostile di magía. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione. Non c’è ragione né cause ed effetti, ma soltanto, un cattivo Destino, una Volontà che vuole il male, che è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue. La vita non può essere, verso la sorte, che pa-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli zienza e silenzio. A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.

Corazzati dunque di silenzio e di pazienza, taciturni e impenetrabili, quei pochi contadini che non erano riusciti a fuggire nei campi stavano sulla piazza, all’adunata; ed era come se non udissero le fanfare ottimistiche della radio, che venivano, di troppo lontano, da un paese di attiva facilità e di progresso, che aveva dimenticato la morte, al punto di evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede.

Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Ne conoscevo ormai molti, di questi contadini di Gagliano, che a prima vista parevano tutti uguali, piccoli, bruciati dal sole, con gli occhi neri che non brillano, e non sembra che guardino, come finestre vuote di una stanza buia. Alcuni li avevo incontrati nelle mie brevi passeggiate, o mi avevano salutato dall’uscio delle case, la sera; ma la maggior parte erano venuti a cercarmi perché li curassi. Mi ero dovuto rassegnare a questa nuova funzione di medico: ma soprattutto nei primi giorni, co-me avviene ai principianti, avevo grandissime preoccu-pazioni per la sorte dei miei malati e per il senso fastidioso della mia pochezza. La loro straordinaria, ingenua fiducia chiedeva un ricambio: mi avveniva, a mio malgrado, di assumere su di me i loro mali, di sentirli quasi come una mia colpa. Potevo, per fortuna, valermi di una sufficiente preparazione di studi, ma mi mancava la pratica, i mezzi di ricerca e di cura, ed ero, debbo confessarlo lontanissimo dalla mentalità scientifica fatta di freddezza e di distacco. Vivevo, si può dire, in continue angoscie. Tanto piú cara e preziosa mi riuscí perciò una breve visita di mia sorella, donna di grande intelligenza e operosa bontà, e, per di piú, medico valentissimo, che mi portò dei libri, dei trattati sulla malaria, delle riviste, degli strumenti, delle medicine, e mi incoraggiò e consi-gliò nelle mie incertezze. Avevo saputo della sua venuta inaspettata da un telegramma, giunto appena in tempo perché mandassi l’automobile a prenderla alla fermata dell’autobus, al bivio sul Sauro. Era, questa macchina, l’unica esistente a Gagliano, una vecchia 509 sgangherata. Apparteneva a un meccanico, un «americano» un uo-mo grande, grosso e biondo, con un berretto da ciclista, noto in paese per una sua gigantesca particolarità anato-mica, simile a quella attribuita dalla leggenda, in Francia, al Presidente Herriot, che rendeva forse desiderabi-li, ma certamente pericolosi alle donne i contatti con lui.

Nonostante questo, o forse appunto per questo, gli si at-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli tribuivano molti successi nella sua lista di don Giovanni paesano: ed era difficile alle sue disgraziate amanti tener a lungo celati alla gelosia di sua moglie e alla curiosità divertita del paese i loro illeciti amori. La macchina l’aveva comprata con i suoi ultimi risparmi di New York, ripromettendosene grandi guadagni, perché rispondeva a una reale necessità pubblica. Ma non faceva che uno o due viaggi alla settimana, e quasi unicamente per accompagnare il podestà nelle sue corse alla prefettura di Matera, o per qualche servigio ai carabinieri o all’Ufficiale Esattoriale, e di rado andava a Stigliano per accompagnare qualche malato o per ritirare delle merci.

Un grande problema, che occupava in quel tempo l’animo dei reggitori del paese, era se non si dovesse adoperare l’automobile invece del mulo per andare ogni giorno a ritirare la posta: in questo modo si sarebbe avuto una specie di servizio regolare anche per i viaggiatori che venivano con l’autobus o che dovevano partire. Ma poiché il tempo e il lavoro in questi paesi non contano e non costano, tra il mulo e la macchina c’era una piccola differenza di spesa: e poi c’erano forse delle difficoltà dovute a parentele o a comparaggi: il problema era sempre rimandato a domani, e quando io partii non era ancora risolto. Soltanto, qualche volta, quando doveva aspettare qualcuno che arrivasse, il meccanico ritirava i sacchi della posta al passaggio, e la cerimonia della di-stribuzione avveniva qualche ora prima. Lo si sapeva in paese, e una piccola folla aspettava, ogni volta, il ritorno della macchina, davanti alla chiesa. Quando, dalla svolta, giungeva il suo rumore di ferraglia sconquassata, tutti le si facevano incontro, per godere lo spettacolo e sentire subito le novità. Fu dunque in mezzo a questo pubblico ansioso che io vidi scendere dall’automobile la figura familiare di mia sorella, che non vedevo da molto tempo e che mi pareva venire da una remota lontananza.

I suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli della sua voce, l’aperto sorriso erano quelli a me ben no-ti, che le avevo sempre conosciuto: ma dopo i lunghi mesi di solitudine, e i giorni trascorsi a Grassano e a Gagliano, essi apparivano come la presenza improvvisa e reale di un mondo di memoria. Quei gesti diritti allo scopo, quella facilità di movimenti appartenevano a un luogo separato da questo in cui vivevo, e in cui parevano impossibili, da un infinito intervallo. Di questa differenza fisica ed elementare non avevo fino allora potuto rendermi conto: il suo arrivo era quello di un’ambasciatrice di un altro Stato in un paese straniero, da questa parte dei monti.

Dopo che ci fummo abbracciati, che mi ebbe portati i saluti di mia madre, di mio padre e dei fratelli, e ci trovammo soli, fuori degli sguardi della gente, nella cucina della vedova, io cominciai a interrogarla con impazienza, e Luisa, mia sorella, mi raccontò i grandi e piccoli avvenimenti familiari e privati e pubblici occorsi durante la mia assenza, e quello che facevano i miei amici e le persone a me care, e quello che si diceva in Italia, mi parlò dei quadri e dei libri, e dei pensieri della gente.

Erano le cose che piú mi stavano a cuore, a cui torna-vo continuamente, ogni giorno, col sentimento, e che mi parevano vicinissime: ma ora, al sentirle presenti, mi apparivano ad un tratto appartenenti a un altro tempo, sembravano seguire un altro ritmo, obbedire ad altre leggi incomprensibili qui, e lontane piú che l’India e la Cina. Capivo ad un tratto come questi due tempi fossero, fra loro, incomunicabili; come queste due civiltà non potessero avere nessun rapporto se non miracoloso. E

mi rendevo conto del perché i contadini guardino il forestiero del nord come qualcuno che viene da un al di là, come un dio straniero. Mia sorella veniva da Torino, e poteva fermarsi soltanto quattro o cinque giorni. – Purtroppo ho dovuto perdere un gran tempo in viaggio, –

mi disse, – perché dovevo passare a Matera per far vista-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli re il mio permesso di visitarti a quella questura. Perciò, invece che fare la strada piú rapida, con cui sarei venuta in due giorni, per Napoli e Potenza, ho dovuto metter-cene tre, passando da Bari, e di qui a Matera. A Matera ho perso una giornata per aspettare l’autobus. Che paese, quello! Da quel poco che ho visto di Gagliano, arrivando, mi pare che non ci sia male: in tutti i modi non potrebbe essere peggio di Matera –. Era spaventata e piena di orrore per quello che vi aveva visto. Io pensavo, e glielo dissi, che la vivezza della sua reazione fosse dovuta soltanto al fatto che non era mai stata da queste parti, e che proprio a Matera era avvenuto il suo primo incontro con questa natura e questa umanità desolata. –

Non conoscevo questi paesi, ma in qualche modo me li immaginavo, – mi rispose. – Ma Matera, come l’ho vista, non potevo immaginarla.

– Arrivai a Matera, – mi raccontò, – verso le undici del mattino. Avevo letto nella guida che è una città pittoresca, che merita di essere visitata, che c’è un museo di arte antica e delle curiose abitazioni trogloditiche. Ma quando uscii dalla stazione, un edificio moderno e piuttosto lussuoso, e mi guardai attorno, cercai invano con gli occhi la città. La città non c’era. Ero su una specie di altopiano deserto, circondato da monticciuoli brulli, spelacchiati, di terra grigiastra seminata di pietrame. In questo deserto sorgevano, sparsi qua e là, otto o dieci grandi palazzi di marmo, come quelli che si costruisco-no ora a Roma, l’architettura di Piacentini, con portali, architravi suntuosi, solenni scritte latine e colonne lucenti al sole. Alcuni di essi non erano finiti e parevano abbandonati, paradossali e mostruosi in quella natura disperata. Uno squallido quartiere di casette da impiegati, costruite in fretta e già in preda al decadimento e alla sporcizia, collegava i palazzi e chiudeva, da quel la-to, l’orizzonte. Sembrava l’ambizioso progetto di una città coloniale, improvvisato a caso, e interrotto sul prin-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli cipio per qualche pestilenza, o piuttosto lo scenario di cattivo gusto di un teatro all’aperto per una tragedia dannunziana. Questi enormi palazzi imperiali e nove-centeschi erano la Questura, la Prefettura, le Poste, il Municipio, la Caserma dei Carabinieri, il Fascio, la Sede delle Corporazioni, l’Opera Balilla, e cosí via. Ma dov’era la città? Matera non si vedeva.

– Pensai di sbrigare subito le mie faccende. Andai alla Questura, splendida di marmi di fuori, e dentro sporca e infetta, con delle stanzucce mal scopate, piene di polvere e di spazzature. Mi ricevette, per vistare il mio permesso di visitarti, il vice-questore, che è anche il capo della polizia politica. Io pensai di protestare perché ti avevano mandato in un paese malarico, e, preoccupata per la tua salute, chiesi se non fosse possibile trasferirti in una sede piú salubre. Un commissario che era presente mi interruppe brusco: «La malaria? Non esiste. Sono tutte storie. Ce ne sarà un caso all’anno. Suo fratello starà benissimo dov’è». Ma quando seppe che ero medichessa, rimase zitto; e il vice-questore mi rispose in tutt’altro tono. «La malaria, – mi disse – c’è dappertutto. Potremmo trasferire suo fratello, se lo desidera, ma troverebbe le stesse condizioni che a Gagliano. Di tutti i paesi della nostra provincia, uno solo si può considerare non malarico: Stigliano, perché è a quasi mille metri sul mare: forse piú tardi si potrà mandarlo lí, ma per ora, per molte ragioni, è impossibile. – (A Stigliano, ho capito, ci mandavano i fascisti dissidenti). – Suo fratello non si muova. Ci stiamo noi, qui a Matera, e non siamo dei confinati. E non creda che qua sia meglio, per la malaria, di lassú. Se ci possiamo star noi, ci può restare pure lui, signorina». A questo argomento non c’era davvero nulla da rispondere. Non insistetti oltre, e uscii. Volevo comprarti uno stetoscopio che avevo dimenticato di portare da Torino, e che sapevo ti occorreva per la tua pratica medica. Negozi speciali non ce n’erano, pensai Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli di cercarlo in farmacia. Tra quei palazzi e quelle casette economiche c’erano delle botteghe, e trovai due farmacie, le sole, mi dissero, della città. Non soltanto non tenevano, né l’una né l’altra, quello che cercavo; ma non ne avevano, i due farmacisti, nemmeno la piú pallida idea. «Stetoscopio? E cos’è?» Quando io ebbi ben spie-gato che era un semplice strumento per ascoltare il cuore, fatto come un corno acustico, generalmente di legno, eccetera, mi dissero che forse una cosa simile avrei potuta trovarla a Bari, ma che lí a Matera non se n’era mai sentito parlare. Era mezzogiorno, mi feci indicare un ri-storante, il migliore di tutti, mi dissero. Infatti, ad un tavolo stavano già melanconicamente seduti davanti a una tovaglia sporca, il vice-questore con altri funzionari di polizia, con l’aria annoiata e gli anelli per le salviette dei clienti abituali. Tu sai che io sono di poche pretese: ma ho dovuto alzarmi con la fame. E mi misi finalmente a cercare la città. Allontanatami ancora un poco dalla stazione, arrivai a una strada, che da un solo lato era fian-cheggiata da vecchie case, e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. Ma di lassú dov’ero io non se ne vedeva quasi nulla, per l’eccessiva ripidezza della costa, che scendeva quasi a picco. Vedevo soltanto, affacciandomi, delle terrazze e dei sentieri, che coprivano all’occhio le case sottostanti. Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto colore grigiastro, senza segno di coltivazione, né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo scorreva un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca e impaludata fra i sassi del greto. Il fiume e il monte avevano un’aria cupa e cattiva, che faceva stringere il cuore.

La forma di quel burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassú, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi im-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli buti, si chiamano Sassi: Sasso Caveoso e Sasso Barisano.

Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’inferno di Dante. E cominciai anch’io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo.

La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se cosí quelle si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla in-durita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata; alcune sono anche belle, con qualche modesto ornato settecentesco. Queste facciate finte, per l’inclina-zione della costiera, sorgono in basso a filo del monte, e in alto sporgono un poco: in quello stretto spazio tra le facciate e il declivio passano le strade, e sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelle di sotto. Le porte erano aperte per il caldo. Io guardavo passando, e vedevo l’interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Cosí vivono ventimila persone. Di bambini ce n’era un’infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci.

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