Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l’avevo mai neppure immaginato. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili, e non le scacciavano neppure con le mani. Sí, le mosche gli pas-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli seggiavano sugli occhi, e quelli pareva non le sentissero.
Era il tracoma. Sapevo che ce n’era, quaggiú: ma vederlo cosí, nel sudiciume e nella miseria, è un’altra cosa. Altri bambini incontravo, coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria.
Le donne, che mi vedevano guardare per le porte, m’in-vitavano a entrare: e ho visto, in quelle grotte scure e puzzolenti, dei bambini sdraiati in terra, sotto delle coperte a brandelli, che battevano i denti dalla febbre. Altri si trascinavano a stento, ridotti pelle e ossa dalla dis-senteria. Ne ho visti anche di quelli con le faccine di cera, che mi parevano malati di qualcosa di ancor peggio che la malaria, forse qualche malattia tropicale, forse il Kala Azar, la febbre nera. Le donne, magre, con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi, mi salutavano gentili e sconsolate: a me pareva, in quel sole accecante, di esser capitata in mezzo a una città colpita dalla peste. Continuavo a scendere verso il fondo del pozzo, verso la chiesa, e una gran folla di bambini mi seguiva, a pochi passi di distanza, e andava a mano a mano crescendo. Gridavano qualcosa, ma io non riuscivo a capire quello che dicessero in quel loro dialetto incomprensibile. Continuavo a scendere, e quelli mi inseguivano e non cessavano di chiamarmi. Pensai che volessero l’elemosina e mi fermai: e allora soltanto distinsi le parole che quelli gridavano ormai in coro: «Signorina, dammi ’u chiní! Signorina, dammi il chinino!» Distribuii quel po’ di spiccioli che avevo, perché si comprassero delle caramelle: ma non era questo che volevano, e continuavano, tristi e insistenti, a chiedere il chinino. Eravamo intanto arrivati al fondo della buca, a Santa Maria de Idris, che è una bella chiesetta barocca, e alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera. Di lí sembra quasi una città vera. Le fac-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli ciate di tutte le grotte, che sembrano case, bianche e allineate, pareva mi guardassero, coi buchi delle porte, co-me neri occhi. È davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante. C’è anche un bel museo, con dei vasi greci figurati, e delle statuette e delle monete antiche, trovate nei dintorni. Mentre lo visitavo, i bambini erano ancora là fuori al sole, e aspettavano che io portassi il chinino.
Dove avrebbe alloggiato mia sorella? Lo zoppo am-mazzacapre aveva ricevuto la risposta da Napoli, per il palazzo. Gli dicevano che non ci tenevano ad affittarlo, e tutt’al piú ne avrebbero dato soltanto una stanza o due, al prezzo, che ritenevano altissimo, e di cui si scusavano, di cinquanta lire al mese; che gli alloggi nell’interno erano in quel momento ricercatissimi, perché si aspettava la guerra e si temevano i bombardamenti della flotta inglese: che a Napoli tutti pensavano di scappare, ed essi stessi, i proprietari, o dei loro amici, sarebbero probabilmente venuti a rifugiarsi quassú. Ma intanto io avevo perduto tutti gli entusiasmi per quella dimora ro-mantica e diroccata, che, a rifletterci bene, mi pareva veramente inabitabile. Lo studente di Pisa, il confinato del pranzo sul muretto, mi aveva mandato a dire da un contadino che si sarebbe fatto libero, fra pochi giorni, un alloggio che egli aveva preso per sua madre e per sua sorella, le maestre, che erano venute a trovarlo, e che vivevano ritirate, senza mai uscire di casa. L’affitto per lui era troppo caro, e alla partenza delle due donne avrei potuto entrarci io. Lo zoppo e donna Caterina me lo consigliarono: cosí, aspettando la nuova casa, mia sorella dovette adattarsi a spartire con me l’unica camera da letto della vedova, e a fare di lí la sua conoscenza con le cimici, le zanzare e le mosche di Lucania: ma mi disse che, dopo le grotte di Matera, quella stanza melanconica le pareva quasi una reggia. E per fortuna in quelle poche Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli notti non venne né l’«U. E.» né alcun altro ospite. L’arrivo di mia sorella era stato un avvenimento: i signori del paese le fecero le migliori accoglienze: donna Caterina le confidò i suoi disturbi di fegato e le sue ricette di cucina, e le usò tutte le possibili gentilezze. Una signora del nord, cosí alla mano, e per di piú una medichessa: non ne avevano mai viste. Non bisognava sfigurare con lei.
Per i contadini, era una cosa diversa. Abituati alla vita americana, trovavano naturale che una donna facesse il medico: e naturalmente ne approfittarono. Ma quello che li toccava, nella sua presenza, era altro. Finora io ero stato, per loro, qualcuno piovuto dal cielo: ma mi mancava qualcosa: ero solo. L’aver scoperto che anch’io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro piú profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c’è senso di Stato né di religione, tiene, con tanta maggiore intensità, il posto di quelli. Non è l’istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza. Il paese è tutto legato da queste complicate catene, che non sono soltanto quelle materiali delle parentele (il «fratel-cugino»
è veramente come un fratello), ma quelle simboliche e acquistate dei comparaggi. Il compare di San Giovanni è quasi piú di un fratello carnale: fa parte davvero, per scelta e iniziazione rituale, dello stesso gruppo consan-guineo: e nell’interno di questo si è l’uno all’altro, sacri; non ci si può sposare. Questo, fraterno, è il piú forte legame fra gli uomini.
Quando, verso sera, passeggiavamo per l’unica strada del paese, mia sorella ed io, tenendoci a braccetto, i contadini dalle soglie ci guardavano beati. Le donne ci salutavano, e ci coprivano di benedizioni: – Benedetto il ventre che vi ha portati! – ci dicevano dagli usci, al nostro passaggio. – Benedette le mammelle che vi hanno Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli allattati! – Le vecchie sdentate sulle porte cessavano per un momento di filare la lana, per mormorarci le loro sentenze: – Una sposa è una bella cosa: ma una sorella è molto di piú! – Frate e sore, core e core –. Luisa, che aveva portata con sé la sua naturale atmosfera razionale e cittadina, non cessava di stupirsi di un cosí strano entusiasmo per il fatto, cosí semplice, che io avessi una sorella.
Ma quello che soprattutto la meravigliava e scandaliz-zava, era che nessuno facesse nulla per questo paese.
Poiché è un temperamento costruttivo, di quelli che gli astrologhi direbbero solari, e la sua bontà attiva non ama gli indugi, passava il tempo a parlare con me di quello che si potesse fare, e mi esponeva dei progetti pratici per aiutare i contadini di Gagliano, i bambini di Matera. Ospedali, asili, lotta antimalarica, scuole, opere pubbliche, medici di Stato ed eventualmente volontari, campagna nazionale per il rinnovamento di questi paesi, e cosí via. Lei stessa avrebbe dato volentieri il suo tempo per una causa che le pareva cosí giusta. Bisognava fare, non dormire, né rimandare sempre a un nuovo domani.
Aveva certamente ragione: e quello che proponeva era giusto e buono, e realizzabile: ma le cose, quaggiú, sono assai piú complicate di quello che non appaiano alle chiare menti degli uomini giusti e buoni.
I quattro giorni della sua permanenza passarono presto. Quando la 509 del meccanico, che la portava, scomparve alla svolta dietro il cimitero, in una nuvola di polvere, anche quel mondo di attiva creazione, di valori e di cultura a cui ero legato e che, con lei, mi era riapparso presente, parve dileguarsi, come risucchiato nel tempo, nella nuvola lontanissima del ricordo.
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Mi rimasero i libri, le medicine e i consigli, e mi servirono subito. A parte i contagi anche le malattie piú di-sparate ed estranee vanno a gruppi. In certe settimane non ci sono malati o soltanto di cose leggere: ma quando si trova un caso grave, si può essere certi che presto se ne presenteranno degli altri. Uno di questi periodi infatti, il primo dopo il mio arrivo, capitò subito dopo la partenza di mia sorella: una serie di casi difficili e pericolosi, che mi facevano paura. Tutte le malattie quaggiú, del resto, prendono sempre un aspetto eccessivo e mortale, ben diverso da quello che ero abituato a vedere nei lettini ben ordinati della Clinica Medica Universitaria di Torino. Sarà lo stato di anemia cronica dei vecchi malarici, sarà la denutrizione, sarà la scarsa reazione al male di questi uomini passivi e rassegnati: certo si vedono, fin dal primo giorno di malattia, accavallarsi tumultuosa-mente i sintomi piú disparati, i visi dei sofferenti assumere l’aspetto angosciato dell’agonia. E io passavo di meraviglia in meraviglia, vedendo questi malati, che qualunque buon medico avrebbe giudicato perduti, mi-gliorare e guarire con le cure piú elementari. Pareva che mi aiutasse una strana fortuna.
Visitai in quei giorni anche l’Arciprete. Aveva delle emorragie intestinali, ma, nella sua misantropia, non ne parlava, e continuava a passeggiare per il paese, senza curarsi. Fu don Cosimino, l’angelo della Posta, il solo confidente del vecchio che passava delle ore nell’ufficio postale e gli recitava i suoi epigrammi, a pregarmi di andarlo a trovare come per una visita di cortesia, e di vedere intanto se potevo far qualcosa per lui. Don Trajella abitava con la madre in uno stanzone, una specie di spelonca, in un vicoletto buio non lontano dalla chiesa.
Quando entrai da lui, lo trovai che stava mangiando con la madre: avevano, in due, un solo piatto e un solo bicchiere. Il piatto era pieno di fagioli mal cotti, che erano tutto il desinare: madre e figlio, in quell’angolo di tavola Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli senza tovaglia, ci pescavano a turno con vecchie forchet-te di stagno. Nel fondo della spelonca, separati da una tenda verde sbrindellata, c’erano due lettini gemelli, quello di don Giuseppe e quello della vecchia, non ancora rifatti. Contro il muro giaceva in terra in disordine un gran mucchio di libri: sul mucchio stavano posate delle galline. Altre galline correvano e svolazzavano qua e là per la stanza, che da chissà quanto tempo non era stata spazzata: un tanfo di pollaio prendeva alla gola.
L’Arciprete, chi mi aveva in simpatia e mi considerava, con don Cosimino, fra le poche persone con cui si poteva parlare perché non erano suoi nemici, mi accolse con piacere, con un sorriso sul viso arguto e sofferente. Mi presentò sua madre; la scusassi se non mi rispondeva: era vetula et infirma. E mi offerse subito un bicchiere di vino, che dovetti accettare, per non offenderlo, in quel suo unico bicchiere che doveva aver servito per anni, senza essere mai stato lavato, a lui e alla vecchia, a quanto potevo arguire dalla gromma unta e nera che lo incro-stava tutto attorno. Don Trajella non aveva servitori ed era ormai cosí abituato a quella solitaria sporcizia che non ci faceva piú caso. Quando, dopo che avemmo parlato dei suoi mali, si accorse che io guardavo con curiosità il mucchio dei libri, mi disse: – Che vuole? In questo paese non mette conto di leggere. Avevo dei bei libri, li vede? Ci sono delle edizioni rare. Quando sono venuto qui, quelle canaglie che li hanno portati me li hanno per dispetto imbrattati di pece. Mi è passata la voglia di aprirli, e li ho lasciati lí in terra: ci stanno da molti anni
–. Mi avvicinai al mucchio: i libri erano coperti da uno strato di polvere e di sterco di gallina: qua e là, sulle coste di pelle, si vedeva davvero qualche macchia di pece, ricordo dell’antico attentato. Ne tolsi qualcuno a caso: erano vecchi volumi secenteschi di teologia, di casistica, delle Storie dei Santi, e Padri della Chiesa, e poeti latini.
Doveva esser stata, prima di esser cosí ridotta a cuccia Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli per i polli, la buona biblioteca di un prete colto e curioso. In mezzo ai libri saltarono fuori degli opuscoli sgual-citi e imbrattati: opera di don Trajella: studi storici e apologetici su san Calogero di Avila. – È un santo spagnolo poco conosciuto, – mi spiegò l’Arciprete. – Ho fatto anche dei quadri, temporibus illis, che rappresenta-no i vari episodi della sua vita, delle specie di polittici –.
Insistetti perché me li mostrasse e si decise a tirarli fuori di sotto il letto, di dove, mi disse, non li aveva piú riesu-mati dal giorno del suo arrivo. Erano delle tempere di gusto popolare, ma tutt’altro che prive di efficacia, con moltissime figure minute e rifinitissime, dei quadri com-positi, con la nascita, la vita, i miracoli, la morte, e la gloria del santo. Di sotto il letto uscirono anche delle statuette, opera anche esse del prete, dei piccoli angeli e dei santi barocchi di legno e di terracotta dipinti, model-lati con garbo facile nel gusto dei presepi napoletani del Seicento. Mi congratulai con l’inatteso collega. – Non ho piú fatto nulla da che sono qua, in partibus infide-lium, a prestare, come suol dirsi, i sacramenti di santa Madre Chiesa a questi eretici che non ne vogliono sapere. Prima mi divertivo a fare queste cosette. Ma qui, in questo paese, non si può. Non mette conto di far nulla, qui. Prenda ancora un bicchiere di vino, don Carlo –.
Mentre cercavo di evitare, con un pretesto, il terribile bicchiere, assai piú amaro di tutti i possibili filtri, la vecchia madre, che era rimasta fino allora ferma e come as-sente sulla sua seggiola, si rizzò improvvisamente in piedi, gridando e agitando le braccia. Le galline spaventate cominciarono a svolazzare per la stanza, sui letti, sui libri, sulla tavola. Don Trajella si mise a rincorrerle qua e là per farle scendere dalle lenzuola, gridando: – Paese maledetto! – E quelle strillavano sempre piú stupida-mente atterrite, alzando dei nuvoli di polvere brillanti nel filo di sole che entrava per lo spiraglio della finestrel-la semichiusa. Profittai della confusione per uscirmene, Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli tra quel gran volare di penne e ondeggiare nero di sottane.
Molto diverso, per mia fortuna, dal povero Trajella, doveva essere stato il suo predecessore, un prete grasso, ricco, allegro e gaudente, famoso in paese per la buona tavola e i numerosi figliuoli, e morto, a quel che si diceva, di una solenne indigestione. La casa dove finalmente pochi giorni dopo, appena partite le parenti del confinato pisano, andai ad abitare, era stata costruita da lui, ed era, si può dire, l’unica casa civile del paese. Se l’era fatta vicino alla vecchia chiesa della Madonna degli Angeli; e ora che la chiesa era crollata nel burrone, la casa si era trovata ad essere l’ultima sul ciglio del precipizio. Era composta di tre stanze, una in fila all’altra. Dalla strada, un vicoletto laterale sulla destra della via principale, si entrava in cucina, dalla cucina nella seconda camera, dove io misi il letto; e di qui si passava ad una stanza grande, con cinque finestrelle, che fu la mia stanza di soggiorno e il mio studio di pittura. Dalla porta dello studio si scendeva per quattro scalini di pietra in un piccolo orticello, chiuso, in fondo, da un cancelletto di ferro con un albero di fico nel mezzo. La camera da letto dava su un balconcino, da cui una scaletta saliva, sul fianco della casa, alla terrazza che la copriva tutta: di qui la vista spaziava sui piú lontani orizzonti. La casa era modesta, costruita in modo economico, e non bella, perché non aveva carattere. non era né signorile né contadina, non aveva né la nobiltà rovinata dei palazzo, né la miseria dei tuguri, ma soltanto la mediocrità stantia del gusto pretesco. Lo studio e la terrazza avevano un pavimento a scacchi colorati, come in certe sagrestie di campagna: non ho mai amato queste geometrie, su cui l’occhio si posa continuamente e che mi sono fastidiose quando dipingo. Le piastrelle di poco prezzo stingeva-no, quand’erano bagnate, e Barone, che amava rotolarsi per terra follemente, diventava allora, di bianco che era, Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli un cane rosa. Ma i muri erano puliti, imbiancati a calce, le porte verniciate di azzurro, le persiane verdi. E soprattutto, a compenso di qualunque difetto, lo spirito epicureo del defunto prete aveva dotato la mia casa di un bene inestimabile. C’era un gabinetto, senz’acqua naturalmente, ma un vero gabinetto, col sedile di porcella-na. Era il solo esistente a Gagliano, e probabilmente non se ne sarebbe trovato un altro a piú di cento chilometri tutt’attorno. Nelle case dei signori ci sono ancora delle antiche seggette monumentali di legno intarsiato, dei piccoli troni pieni di autorità: e mi hanno detto, ma io non ne ho viste, che se ne trovano anche di quelle matri-moniali, a due posti, per quei coniugi affettuosi che non possono tollerare la piú breve separazione. Nelle case dei poveri, naturalmente, non c’è nulla. Questo fatto dà luogo a delle curiose costumanze. A Grassano, in certe ore quasi fisse, il mattino presto e verso sera, si aprivano furtivamente le finestrelle delle case, e dallo spiraglio apparivano le mani rugose delle vecchie, che lasciavano piovere, in mezzo alla strada, il contenuto dei vasi. Erano le ore della «jettatura». A Gagliano questa cerimonia non era cosí generale né cosí regolata: non si sprecava cosí prodigalmente il concime per gli orti.
La mancanza di quel semplice apparecchio, assoluta in tutta la regione, crea naturalmente delle consuetudini che non si sradicano facilmente, che richiamano mille altre cose della vita, e si accompagnano a sentimenti considerati nobilissimi e poetici. Il falegname Lasala, un
«americano» intelligente, che era stato, molti anni prima, sindaco di Grassano, e che conservava gelosamente, nel suo monumentale apparecchio radio portato di laggiú, con i dischi di Caruso e dell’arrivo di De Pinedo, quelli di discorsi commemorativi di Matteotti, mi raccontava che, dopo la settimana di lavoro a New York, usava incontrare un gruppo di compaesani, ogni domenica, per una scampagnata. – Eravamo sempre otto o Letteratura italiana Einaudi