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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli l’innocente: ma poiché quello non accennava a rimandare il ragazzo, dovette decidersi. Era un ottimo tiratore, e non sbagliò. Lo colse in mezzo alla fronte, proprio mentre il bambino lo abbracciava. Naturalmente tutti i liberali si nascosero, ma furono arrestati e condannati. Il farmacista morí in prigione a Potenza; il dottore ci restò molti anni, e sarebbe morto anche lui, se non fosse avvenuto che la moglie del Governatore, che aveva un parto difficile, non riusciva a sgravarsi e correva pericolo di vi-ta. Nessuno dei medici di Potenza era capace di giovar-le, quando a qualcuno venne in mente di chiamare il dottore che era in prigione. Egli venne, e salvò la Gover-natrice, che ebbe un bel bambino, e che, appena rimessa, corse a Napoli e si buttò ai piedi della Regina. Il dottore ebbe la grazia, ma non tornò piú a Grassano.

Rimase a Potenza, e i suoi discendenti ci sono ancora.

Quel ragazzo, che il farmacista risparmiò con tanta cura, fu poi come le ho detto, il primo deputato di Grassano al parlamento italiano, e faceva il liberale, ma nello stesso tempo era lui che teneva mano ai briganti; e il nipote, quello di adesso, qui non si vede mai, ma sotto sotto è lui che protegge da Roma la banda che comanda in paese: tutti figli di briganti –. Non ho mai potuto appurare se fossero veri tutti i particolari di questa storia, che no-bilita in certo qual modo gli odi reciproci dei signori di Grassano, trasportandoli in un tempo lontano, e legandoli a motivi almeno in parte ideali. Ma la cosa non ha importanza. La lotta dei signori tra loro non ha nulla a che fare con una «vendetta» tramandata di padre in figlio; né si tratta di una lotta politica reale, fra conservatori e progressisti, anche quando, per caso, prende quest’ultima forma. Naturalmente ciascuno dei due partiti accusa l’altro dei peggiori delitti: e gli stessi racconti del tenente Decunto, ma rovesciati come tono sentimentale, mi venivano fatti dai membri del gruppo attualmente al potere. La verità è che questa continua guerra dei signo-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli ri si trova, nelle stesse forme, in tutti i paesi della Lucania. La piccola borghesia non ha mezzi sufficienti per vivere col decoro necessario, per fare la vita del galantuo-mo. Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. I piú avventurati vanno in America, come i cafoni; gli altri a Napoli o a Roma; e in paese non tornano piú. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l’avidità li rendono malvagi. Questa classe degenerata deve, per vivere (i piccoli poderi non rendono quasi nulla), poter dominare i contadini, e assicurarsi, in paese, i posti remunerati di maestro, di farmacista, di prete, di ma-resciallo dei carabinieri, e cosí via. È dunque questione di vita o di morte avere personalmente in mano il potere; essere noi o i nostri parenti o compari ai posti di co-mando. Di qui la lotta continua per arraffare il potere tanto necessario e desiderato, e toglierlo agli altri; lotta che la ristrettezza dell’ambiente, l’ozio, l’associarsi di motivi privati o politici rende continua e feroce. Ogni giorno partono da tutti i paesi di Lucania lettere anonime alla Prefettura. E la Prefettura non ne è malcontenta, anche se affetta il contrario. – A Matera fanno finta di voler appianare le nostre liti, – mi diceva il tenente Decunto, – ma in verità fanno il possibile per fomentarle.

Hanno istruzioni in questo senso da Roma. Cosí tengono in mano tutti, con la minaccia o la speranza. Ma che abbiamo da sperare? – e qui il gesto caratteristico della mano, che vuol dire: niente. – Qui non si può vivere. Bisogna andarsene. Ora andiamo in Africa. È la nostra ultima carta.

Il viso del tenente della Milizia si faceva grigio, quando cosí mi parlava, e gli occhi sfuggenti gli si sbiancava-no di impotente furore, disperati e cattivi. Egli apparteneva tutto a quella gente, a quegli odi, a quelle passioni; era uno dei loro, e se ne rodeva. Un principio di co-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli scienza e di vergogna era in lui. Credeva anche lui, come tutti gli altri, all’impresa d’Africa, allo «spazio vitale»

necessario a una piccola borghesia degenerata, ma nello stesso tempo si rendeva conto, sia pure in modo rudimentale e puramente sentimentale, di questa degenera-zione e miseria, e la guerra diventava una fuga, la fuga in un mondo di distruzione. In fondo, quello che lo attrae-va di piú nell’impresa, era proprio l’eventualità della sconfitta e dell’annientamento. Lo si vedeva dal tono con cui ripeteva: – È la nostra ultima carta –. Il piccolo lume di coscienza che era in lui, e che lo differenziava dai suoi concittadini, non si manifestava altrimenti che con un profondo, vergognoso disprezzo di sé. All’odio reciproco dei signori egli aggiungeva l’odio di sé: e questo lo rendeva, era chiaro a chi l’osservasse, ancora piú maligno e amaro degli altri, capace di ogni azione malvagia. Egli avrebbe potuto, senza contraddire il suo in-genuo semplicismo di giovane ragazzo di buona famiglia, uccidere, rubare,– fare la spia, e forse anche morire come un eroe, per la sua elementare disperazione. Tutto questo era per lui la guerra d’Africa. Se andava male, che cosa importava? Il mondo intero poteva andare in rovina per seppellire anche il ricordo di Grassano, bianco sul colle e immutabile, con i signori e i briganti.

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli

«Ma il piccolo e funesto lume di coscienza del tenente Decunto, – pensavo, attendendo la cena nella cucina della vedova, – è cosa rara, forse unica». Esso non mi era apparso in nessuna delle facce ottuse, maligne e avidamente, soddisfatte delle mie nuove conoscenze, sulla piazza. Le loro passioni, era evidente, non risalivano nella storia, non uscivano dal paese stretto dalle argille malariche, crescevano nel piccolo recinto fra quattro case, avevano l’urgenza e la miseria del bisogno quotidiano del cibo e del denaro, si rivestivano, senza nascondersi, del formalismo dei galantuomini, gonfiavano nello spazio costretto delle anime piccole e del paesaggio desolato, fino a premere violente, come il vapore del brodo lungo della vedova sotto il coperchio della pentola di terra, che sentivo brontolare e soffitare su un povero fuoco di stecchi, là nel camino. Guardavo il fuoco, pensando alla serie infinita dei giorni che mi si stendevano innanzi, e nei quali, anche per me, l’orizzonte del mondo degli uomini sarebbe stato il cerchio di queste oscure passioni; e la vedova intanto disponeva sul tavolo il pane e la brocca dell’acqua. Era il pane nero di qui, fatto di grano duro, in grandi forme di tre o di cinque chili, che durano una settimana, cibo quasi unico del povero e del ricco; rotonde come un sole, o come una messicana pietra del tempo. Cominciai ad affettarlo, con il gesto che avevo ormai appreso, stringendolo e appoggiandolo al petto, e traendo verso di me, attento a non tagliarmi il mento, il coltello affilato. La brocca, come quelle di Grassano, e tutte quelle che, là e qui, le donne portano in capo, era un’anfora di Ferrandina, di terra giallorosa-ta, a stretture e rigonfi, come una immagine femminile arcaica, dalla vita sottile, dal petto e dai fianchi rotondi, con le piccole braccia ad ansa. Ero solo al tavolo, davanti alla tovaglia pesante, di tela di casa: ma la stanza non era vuota. La porta di strada ogni tanto si apriva, ed entravano delle donne, le vicine, le conoscenti, le comari Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli della vedova. Venivano con vari pretesti, a portar acqua o a chiedere se dovessero lavare per lei, domattina al fiume: si fermavano lontane dal mio tavolo, vicino all’uscio; stavano l’una vicina all’altra, e parlavano tutte insieme, come uccelli. Fingevano di non guardarmi ma ogni tanto sotto i veli, i loro occhi neri si voltavano rapidi e curiosi dalla mia parte, e subito fuggivano, come animali, del bosco. Non ancora avvezzo al costume (un povero residuo di costume, che non ha nulla a che fare con quelli famosi di Pietragalla o di Pisticci), mi parevano tutte eguali, col viso incorniciato dal velo piú volte ri-piegato che ricade sulla schiena, con le semplici camicet-te di cotone, le larghe sottane scure, a campana, lunghe a mezza gamba, e gli stivaletti alti. Stavano ritte, col portamento solenne di chi è avvezzo a portare in equilibrio i pesi sul capo, e i volti avevano tutti un’espressione di selvatica gravità. Gravi e senza grazia femminile erano i loro gesti, come le occhiate pesanti dei neri occhi curiosi. Non mi parevano donne, ma soldati di uno strano esercito, o piuttosto una flottiglia di barche tondeggianti e oscure, pronte a prendere tutte insieme il vento nelle piccole vele bianche. Le guardavo e cercavo di capire i loro discorsi nel dialetto per me nuovo, quando si batté all’uscio, le donne presero congedo con un grande ondeggiare di sottane e di veli, e un nuovo personaggio entrò nella cucina.

Era un giovane con dei minuscoli baffetti rossi, che portava un astuccio allungato di pelle marrone. Era mal vestito, aveva le scarpe impolverate, ma aveva il colletto e la cravatta, e portava in capo un curioso berretto alto e tondo, con una visiera di tela cerata, sul tipo di quelli che un tempo avevano gli accademisti, dove sul fondo grigio, spiccavano fiammanti su tutta l’altezza due grandi lettere ritagliate e cucite di panno vermiglio: «U. E.»

– Ufficiale Esattoriale, – mi disse, quando gli chiesi che cosa significassero quell’ U e quell’ E. giganteschi. E in-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli tanto, posato con riguardo l’astuccio, si sedette al mio tavolo, tirò fuori di tasca un pacchetto di pane e formaggio, ordinò alla vedova un bicchiere di vino, e cominciò a mangiare. Era l’Ufficiale Esattoriale di Stigliano: veniva spesso a Gagliano per i doveri del suo ufficio: oggi aveva fatto tardi e avrebbe dovuto fermarsi a dormire dalla vedova. Aveva lavoro a Gagliano anche per l’indomani. Non parlava volentieri del suo mestiere: invece, con molta soddisfazione, mi mostrò subito il contenuto del suo astuccio. Era un clarinetto. Non se ne separava mai: lo portava sempre con sé nei suoi viaggi alla caccia del denaro dei contadini. Aveva trovato quell’impiego, bisogna pur vivere: ma la sua ambizione era un’altra, era la musica. Non era ancora perfetto, studiava il clarino soltanto da un anno, ma si esercitava continuamente. Sí, poteva darmene un saggio, poiché io, si vedeva, ero un intenditore: ma un pezzo solo, perché voleva ancora uscire a far visita a un suo compare, ed era tardi. Il pane e il formaggio erano finiti, e non c’era altro da mangiare.

Il clarinetto soffiava, indeciso e fragile, le note di una canzonetta; i cani l’accompagnavano brontolando.

Appena il musicista esattore fu uscito, e rimanemmo soli, la vedova si profferse in scuse per essere costretta a darmelo per compagno di stanza. Non si poteva fare diversamente. – Ma è un giovane per bene: è pulito; non è un contadino –. L’assicurai che mi sarei adattato volentieri alla sua compagnia, Ero ormai avvezzo a questi ca-suali compagni di una notte. A Grassano, quando abita-vo alla locanda di Prisco, quasi ogni sera dovevo accogliere gente nuova nella mia camera. Le camere là erano due, ma quando una era piena, si doveva ricorrere alla mia; e c’erano spesso forestieri di passaggio, perché Grassano è sulla grande strada, e la locanda di Prisco è rinomata come la migliore della provincia, al punto che i viaggiatori che vanno per i loro affari a Tricarico preferi-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli scono tornare la sera fino a Grassano, piuttosto che fermarsi nella misera taverna di quella sede vescovile.

Erano dunque passati da me viaggiatori di commercio pugliesi, mercanti di pere napoletani, carrettieri, conducenti di automobili, le genti piú diverse. Una notte, era già tardi, ed io ero già a letto, sentii il rombo ina-bituale di una motocicletta, e mi vidi capitare in camera il motociclista, con il casco coperto di polvere. Era il barone Nicola Rotunno, di Avellino, uno dei piú ricchi proprietari della provincia. Possedeva, con un suo fratello avvocato, terre sconfinate a Grassano, a Tricarico, a Grottole, in non so quanti altri comuni del Materese, e girava in motocicletta per raccogliere dai fattori i denari dei raccolti, ed esigere dai contadini il pagamento dei debiti, di quei debiti che essi contraggono nel corso dell’anno per poter campare, e che di solito, superando l’intero guadagno dell’annata, si accumulano ad inghiot-tire ogni speranza di stagione benigna. Il barone, un giovane magro, sbarbato, con gli occhiali a pince-nez, aveva fama, a Grassano, di essere, come suo fratello, particolarmente spietato nei suoi interessi capace di cacciare un contadino per un debito di poche lire, astuto negli affari e poco chiaro, abile nello scegliere dei fattori devoti al suo interesse, durissimo con tutti. Era un uomo di chiesa, e portava all’occhiello della giacchetta, invece del solito distintivo fascista, quello rotondo dell’Azione Cattolica. Con me fu gentilissimo. Saputo che io, suo vicino di letto, ero un confinato, si offerse subito di farmi liberare, cosa per lui facilissima, mi disse, perché era amico di un’amica carissima del Senatore Bocchini, Capo della Polizia; una signora, come lui, di Avellino, e come lui particolarmente devota a una Madonna che si adora in un celebre santuario nei dintorni di quella città. Il discorso cadde cosí sui santuari e sui santi, e sul san Rocco di Tolve, un santo di cui io stesso ho potuto conoscere, per prove e favori personali, la particolare virtú. Tolve è Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli un villaggio vicino a Potenza, e c’era stato in quei giorni un pellegrinaggio, come tutti gli anni, al principio di agosto. Uomini, donne e bambini vi concorrono da tutte le province circostanti, a piedi, o sugli asini, camminan-do il giorno e la notte. San Rocco li aspetta, librato nell’aria, sopra la chiesa. «Tolve è mia, e io la proteggo», dice san Rocco nella stampa popolare che lo rappresenta, vestito di marrone, con la sua aureola d’oro, nel cielo azzurro del paese.

Ma anche il santo di Grassano è un buon santo: un san Maurizio splendente di colori, laggiú nella chiesa, armato di tutto punto, un glorioso guerriero di cartapesta, di quelli che si fanno ancora oggi, con tanta arte, a Bari. Da san Maurizio passammo al suo compagno di guerra e di beatitudine, e ad altri santi, e a sant’Agosti-no, e alla Città di Dio, e a discorsi sui Vangeli. Il barone mostrava di essere stupito e compiaciuto della mia competenza su questo argomento, che non supponeva che io potessi conoscere. S’era cosí fatto molto tardi, gli occhi mi si chiudevano dal sonno, quando vidi il barone riz-zarsi improvvisamente sul letto, prendere gli occhiali di sul comodino e inforcarli sul naso, balzare in terra con un salto, e avvicinarsi silenzioso al mio letto, avvolto, co-me uno spettro, in una lunga camicia da notte bianca, che gli scendeva quasi ai piedi nudi. Quando mi fu vicino, fece con la mano un grande segno di croce su di me e disse, con voce solenne e commossa: – Ti benedico, in nome di Gesú Bambino, buona notte –. Replicato, il segno di croce, tornò fra le lenzuola e spense il lume. Protetto dalla inattesa benedizione del barone possidente, non tardai ad addormentarmi, per risvegliarmi, come sempre all’alba, al suono angelico delle campanelle dei greggi che partivano per i campi, e ai clamori diabolici di Prisco, che, come ogni mattina, chiamava con voci stentoree i figli insonnoliti.

La camera della vedova, che dovevo, quella notte, Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli spartire con l’esattore, era assai piú triste di quella di Prisco. Era una stanza buia, lunga e stretta, con una fi-nestrucola in fondo, le pareti dipinte a calce, grige, spor-che e scrostate. C’erano tre lettucci, un catino di ferro smaltato in un angolo, con una brocca, e un canterano zoppo in faccia ai letti. Una lampadina, sporca di antichi nerumi di mosche, mandava una sbiadita luce giallastra.

Le mosche volavano a sciami, nel caldo soffocante. La finestra era chiusa, perché non entrassero le zanzare; ma ero appena con la testa sul cuscino che già sentivo, da tutti i lati, il loro sibilo, pauroso in questi paesi di malaria.

Intanto era arrivato il mio compagno, aveva attaccato il berretto ad un chiodo, in faccia al mio letto, posato l’astuccio del clarinetto sul canterano, e si era spogliato.

Gli chiesi come andava il suo lavoro, qui a Gagliano. –

Male, – mi disse. – Oggi sono venuto per fare dei pigno-ramenti. Le tasse non le pagano. Si viene a pignorare, e non si trova nulla. Sono stato in tre case: mobili non ne hanno: non c’è che il letto, e quello non si può prendere.

Dovrò accontentarmi di una capra e di qualche piccio-ne. Non c’è neppure da pagare le spese della trasferta.

Domattina devo andare da due altri: speriamo mi vada meglio. Ma è una miseria: i contadini non vogliono pagare. Sono quasi tutti proprietari, qui a Gagliano: hanno tutti il loro piccolo pezzo di terra, magari lontano dal paese, a due o tre ore di strada; e certe volte, sí, è terra cattiva, e rende poco. Le tasse sono forti, per dire la verità: ma questo non mi riguarda: non siamo noi che le mettiamo: noi dobbiamo soltanto farle pagare. E lei sa come sono i contadini: per loro tutte le annate sono cattive. Sono pieni di debiti, hanno la malaria, non hanno da mangiare. Ma staremmo freschi se dovessimo dar retta a loro: noi dobbiamo fare il nostro dovere. Non pagano, e dobbiamo accontentarci di portar via quel poco che si trova, roba che non val nulla. Certe volte ho dovu-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli to fare il viaggio per qualche bottiglia d’olio e un po’ di farina. E ancora ci guardano male, con odio. A Missa-nello, due anni fa, hanno anche sparato. È un brutto mestiere. Ma bisogna pur vivere.

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