La bottega dell’americano, del parrucchiere dei signori, era l’unica delle tre che sembrasse una vera bottega di barbiere. C’era uno specchio tutto appannato dalle cacche di mosca, c’era qualche seggiola di paglia, e al muro erano attaccati ritagli di giornali americani, con fotografie di Roosevelt, di uomini politici, di attrici, e ré-clames di cosmetici. Era l’unico resto dello splendido salone in non so piú quale strada di New York: il barbiere, ripensandoci, si rattristava e si faceva cupo. Che cosa gli rimaneva della bella vita di laggiú, dove era un signore?
Una casetta in cima al paese, con la porta pretensiosa-mente scolpita e qualche vaso di geranio sul balcone, la moglie malaticcia, e la miseria. – Non fossi mai tornato!
– Questi americani del 1929 si riconoscono tutti all’aria delusa di cani frustati, e ai denti d’oro.
I denti d’oro brillavano anacronistici e lussuosi nella larga bocca contadina di Faccialorda, un uomo grosso, robusto, dall’aspetto testardo ed astuto. Faccialorda, chiamato da tutti con questo soprannome forse per il colore della sua pelle, era invece un vincitore nella lotta dell’emigrazione, e viveva nella sua gloria. Era tornato dall’America con un bel gruzzolo, e anche se l’aveva già in gran parte perduto per comprarsi una terra sterile, ci poteva ancora modestamente campare: ma il vero valore di quel denaro consisteva nel non essere stato guadagnato col lavoro, ma con l’abilità. Faccialorda, la sera, tornato dai campi, sull’uscio di casa sua, o passeggiando per la piazza, amava raccontarmi la sua grande avventura americana, felice per sempre della sua vittoria. Era un contadino, in America faceva il muratore. – Un giorno mi dànno da svuotare un tubo di ferro, di quelli che servono per le mine, che era pieno di terra. Io ci batto su con una punta; invece di terra, c’era la polvere, e il tubo mi scoppia in mano. Mi sono un po’ sgraffiato qui sul Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli braccio, ma sono rimasto sordo. Si era rotto il timpano.
Là in America ci sono le assicurazioni, dovevano pagarmi. Mi fanno una visita, mi dicono di tornare dopo tre mesi. Dopo tre mesi io ci sentivo di nuovo bene, ma avevo avuto l’infortunio, dovevano pagarmi, se c’è la giustizia. Tremila dollari dovevano darmi. Io facevo il sordo: parlavano, sparavano, non sentivo nulla. Mi facevano chiudere gli occhi: io mi dondolavo e mi lasciavo cadere per terra. Quei professori dicevano che non avevo niente, e non volevano darmi l’indennità. Mi fecero un’altra visita, e poi tante altre. Io non sentivo mai nulla, e cade-vo per terra: dovevano pur darmi il mio denaro! Siamo andati avanti due anni, che non lavoravo, i professori dicevano di no, io dicevo che non potevo far nulla, che ero rovinato. Poi i professori, i primi professori dell’America si sono convinti, e dopo due anni mi hanno dato i miei tremila dollari. Mi vengono per giustizia. Sono subito tornato a Gagliano, e sto benissimo –. Faccialorda era fiero di aver combattuto da solo contro tutta la scienza, contro tutta l’America, e di aver vinto, lui, piccolo cafone di Gagliano, i professori americani, armato soltanto di ostinazione e di pazienza. Era, del resto, convinto che la giustizia fosse dalla sua parte, che la sua si-mulazione fosse un atto legittimo. Se qualcuno gli avesse detto che egli aveva truffato i tremila dollari, si sarebbe sinceramente stupito. Io mi guardavo bene dal dirglielo, perché in fondo non gli davo torto; ed egli mi ripeteva con orgoglio la sua avventura, e si sentiva, nel suo cuore, un poco un eroe della povera gente, premiato da Dio nella sua difesa contro le forze nemiche dello Stato. Mi venivano in mente, quando Faccialorda mi raccontava la sua storia, altri italiani incontrati in giro per il mondo, fieri di essersi battuti contro le potenze organizzate della vita civile, e di aver salvato la propria persona contro la volontà assurda dello Stato. Ricordavo fra gli altri un vecchio, incontrato in Inghilterra, a Stratford sull’Avon, Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli il paese di Shakespeare, con un carrettino di gelati tirato da un poney infiocchettato e scampanellante. Si chiamava Saracino (sul carretto era scritto Saracine, all’inglese), era di Frosinone, portava ancora gli asinelli alle orecchie, e parlava male un italiano romanesco. Appena si accorse che ero un italiano mi raccontò subito che egli era fuggito dall’Italia cinquant’anni prima per non fare il soldato, per non servire il Re d’Italia, e che in Italia non era piú tornato. Con i gelati aveva fatto fortuna: tutti i carretti della provincia erano suoi. I suoi figli avevano studiato, uno era avvocato, l’altro medico: ma quando venne la guerra, nel ’14, egli li mandò in Italia perché non servissero il Re d’Inghilterra, e, quando poi, l’anno dopo, anche il Re d’Italia avrebbe potuto prenderli: –
Non abbia paura, ci siamo arrangiati, ma il Re non l’abbiamo servito –. Anche pel vecchio Saracino, come per Faccialorda, questa non era un’azione vergognosa, ma la gloria della sua vita. Me la raccontò, felice, frustò il ca-vallino e partí.
Faccialorda aveva vinto, ma anche lui era tornato, e tra poco, malgrado i denti d’oro, non lo si sarebbe piú distinto dagli altri contadini. A lui il racconto della sua avventura dava ancora un ricordo preciso, per quanto li-mitato e particolare, dell’America: ma gli altri in breve la dimenticavano: tornava ad essere per loro quello che era stata prima della partenza, e anche, forse, mentre erano laggiú: il paradiso americano. Qualcuno, piú pratico e piú americanizzato, forse come quelli che restano laggiú, ne ho visto a Grassano: ma questi non erano contadini, e badavano con ogni cura a non lasciarsi riprendere dalla vita paesana. Uno, a Grassano, stava seduto su una sedia, ogni giorno, sull’uscio di casa, sulla piazza, a veder passare la gente. Era un uomo di mezza età, alto, magro, vigoroso, con un viso di falchetto, il naso aquilino, la pelle scura. Era vestito sempre di nero, e in testa portava un panama a larghe tese. D’oro non aveva soltanto i Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli denti, ma la spilla della cravatta, i bottoni dei polsini, la catena dell’orologio, i ciondoli, i corni portafortuna, gli anelli, il portasigarette. In America aveva fatto fortuna, faceva il sensale e il commerciante; forse, sospetto, un poco il negriero dei contadini poveri; era abituato a comandare, e guardava ormai con distacco e disprezzo i suoi compaesani. Tuttavia tornava al paese, dove aveva una casa, una volta ogni tre o quattro anni, e si compia-ceva di fare sfoggio dei suoi dollari, del suo barbaro inglese e del suo piú barbaro italiano. Ma stava attento a non lasciarsi invischiare. – Qui potrei restarci, – mi diceva, – denaro ne ho abbastanza. Mi potrebbero fare podestà: ci sarebbe da lavorare, in paese, da rifar tutto, all’americana. Ma sarebbe un fallimento, e si perdereb-be tutto. I miei affari mi aspettano –. Consultava ogni giorno il giornale, e ascoltava la radio, e quando si fu convinto che tra poco sarebbe scoppiata la guerra d’Africa, fece le sue valige, s’imbarcò sul primo piroscafo, per non rischiare di rimaner bloccato in Italia, e fuggí.
Dopo il ’29, l’anno della disgrazia, ben pochi sono tornati da New York, e ben pochi ci sono andati. I paesi di Lucania, mezzi di qua e mezzi di là dal mare, sono rimasti spezzati in due. Le famiglie si sono separate, le donne sono rimaste sole: per quelli di qui, l’America si è allontanata, e con lei ogni possibile salvezza. Soltanto la posta porta continuamente qualcosa che viene di laggiú, che i compaesani fortunati mandano a regalare ai loro parenti. Don Cosimino aveva un gran da fare con questi pacchi: arrivavano forbici, coltelli, rasoi, strumenti agri-coli, falcetti, martelli, tenaglie, tutte le piccole macchine della vita comune. La vita di Gagliano, per quello che riguarda i ferri dei mestieri, è tutta americana, come lo è per le misure: si parla, dai contadini, di pollici e di lib-bre piuttosto che di centimetri o di chilogrammi. Le donne, che filano la lana su vecchi fusi, tagliano il filo Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli con splendidi forbicioni di Pittsburg: i rasoi del barbiere sono i piú perfezionati ch’io abbia mai visto in Italia, e l’acciaio azzurro delle scuri che i contadini portano sempre con sé, è acciaio americano. Essi non sentono alcuna prevenzione contro questi strumenti moderni, né alcuna contraddizione fra di essi e i loro antichi costumi. Prendono volentieri quello che arriva da New York, come prenderebbero volentieri quello che arrivasse da Roma.
Ma da Rorna non arriva nulla. Non era mai arrivato nulla, se non l’«U. E.», e i discorsi della radio.
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Di discorsi, in quei giorni, se ne sentivano molti, e don Luigino si affaccendava a convocare le sue adunate.
Era ormai ottobre, le nostre truppe passavano il Mareb, la guerra d’Abissinia era cominciata. Popolo italiano, in piedi! e l’America si allontanava sempre piú, nelle nebbie dell’Atlantico, come un’isola nel cielo, chissà per quanto tempo, forse per sempre.
Questa guerra non interessava i contadini. La radio tuonava, don Luigino adoperava tutte le ore di scuola che non passava a fumare sulla terrazza, concionando ad altissima voce (lo si sentiva dappertutto) ai ragazzi, e fa-cendogli cantare «Faccetta nera, bella abissina», e raccontava a tutti, in piazza, che Marconi aveva scoperto dei raggi segreti, e che la flotta inglese sarebbe presto saltata tutta per aria. Dicevano anche, lui e l’altro maggiore maestro di scuola, il suo collega della radio, che quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a semi-narla la roba ci cresce da sola. Ahimè, i due maestri parlavano un po’ troppo della grandezza di Roma perché i contadini potessero credere a tutto il resto. Scuotevano il capo diffidenti, silenziosi e rassegnati. Quelli di Roma volevano far la guerra, e l’avrebbero fatta fare a loro. Pazienza! Morire sopra un’amba abissina non è poi molto peggio che morire di malaria nel proprio campo, sulla riva del Sauro. Pare che gli studenti delle scuole, i ragazzi della Gil, i maestri e le maestre di scuola, le dame della Croce Rossa, le Madri e le Vedove dei caduti milanesi, le signore fiorentine, i droghieri, i negozianti, i pensio-nati, i giornalisti, i poliziotti, gli impiegati dei Ministeri di Roma, insomma tutto quello che si usa chiamare il Popolo italiano, fossero in quei giorni pervasi da un’on-da beatificante di entusiasmo e di gloria. Io, a Gagliano, non ero in condizioni di constatarlo. I contadini erano piú muti, tristi e cupi dei solito. Di quella terra promes-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli sa, che bisognava prima togliere a quelli che l’avevano (e istintivamente pareva loro che questo non fosse giusto, e non dovesse portar bene) non si fidavano. Quelli di Ro-ma non avevano l’abitudine di far qualcosa per loro: anche questa impresa, malgrado le chiacchiere, doveva avere qualche altro scopo, che non li riguardava. – Se quelli di Roma hanno denaro da spendere per la guerra, perché non aggiustano prima il ponte sull’Agri, che è caduto da quattro anni, e nessuno ci pensa a rifarlo? Potrebbero anche arginare il fiume, farci qualche nuova fontana, piantare degli alberi nei boschi invece di tagliare quei pochi che rimangono. Di terra ne abbiamo anche qui: è tutto il resto che ci manca –. Perciò pensavano alla guerra come a una delle solite disgrazie inevitabili, come alle imposte o alla tassa delle capre. Non avevano paura di dover partire soldati. – Vivere qui come cani, –
dicevano, – o morire come cani laggiú, è la stessa cosa –.
Ma nessuno, tranne il marito di donna Caterina, si presentò volontario. Del resto, si capí presto che non soltanto gli scopi, ma anche la condotta della guerra riguardava quell’altra Ulia, di là dai monti e aveva poco a che fare con i contadini. I richiamati erano pochi, due o tre in tutto il paese, piú qualche soldato di leva, e un giovanotto, don Nicola, figlio di un prete, allevato dai frati di Melfi, e sottufficiale di carriera, che aveva dovuto partire tra i primi. Qualcuno dei piú miserabili, dei contadini senza terra che non avevano nulla da mangiare, allettati dai discorsi di don Luigino e dalla promessa di alti salari, avevano chiesto di andare come operai: ma le loro domande rimasero sempre senza risposta. – Non sanno che farsene di noi, – mi dicevano questi poveri cafoni. –
Non ci vogliono nemmeno a lavorare. La guerra è fatta per quelli del nord. Noi dobbiamo crepare di fame in casa nostra. E in America non ci si andrà mai piú.
Il 3 ottobre fu dunque una giornata squallida.
All’adunata in piazza, una ventina di contadini, racimo-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli lati a fatica dai carabinieri e dagli avanguardisti del podestà, ascoltavano imbambolati le parole storiche della radio. Don Luigino aveva fatto imbandierare il municipio, la scuola, le case dei signori: le bandiere tricolori ondeggiavano al vento, nel sole, frammischiate, coi loro colori stranamente vivaci, ai funebri stendardi neri delle case dei contadini. Fecero suonare anche le campane, che il campanaro intonò, al solito, sulla sua lugubre aria di morte. La guerra allegra incominciò, in quella indifferente tristezza. Don Luigino venne al balcone del municipio, e parlò. Disse della grandezza immortale di Roma, dei sette colli, della lupa, delle legioni romane, della civiltà di Roma, dell’Impero di Roma che si sarebbe rinnovato. Disse che tutti ci odiavano per la nostra grandezza, ma che i nemici di Roma avrebbero morso la polvere, e che noi avremmo ripercorso in trionfo le vie consolari di Roma, perché Roma era eterna, invincibile.
Disse ancora, con la sua vocetta acuta, molte altre cose di Roma, che non ricordo: poi aprí la bocca e si mise a cantare «Giovinezza e facendo cenni imperiosi con le mani ai ragazzi della scuola, perché, dalla piazza, lo ac-compagnassero in coro. Attorno a lui, sul balcone, c’era il brigadiere e i signori, e cantavano tutti, tranne il dottor Milillo che non era d’accordo. In basso, contro il muro, quel pochi contadini ascoltavano in silenzio, pa-randosi il sole, che batteva loro negli occhi, con la mano, foschi e neri come uccelli notturni. Vicino al podestà, di fianco al balcone, sul muro della facciata del municipio, spiccava bianca la lapide di marmo con i nomi dei morti della grande guerra. Erano molti, per un paese cosí piccolo: quasi una cinquantina: c’erano tutti i nomi delle famiglie gaglianesi, i Rubilotto, i Carbone, i Guarini, i Bonelli, i Carnovale, i Racioppi, i Guerrini, non ne mancava nessuno. Di certo, o direttamente, o attraverso i fratel-cugini o i compari di San Giovanni, nessuna casa era stata senza un morto; e piú erano i feriti, i inalati, e Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli quelli che avevano combattuto e se l’erano cavata senza danno. Perché, nelle mie conversazioni con i contadini, nessuno me ne parlava mai, né mai si faceva cenno a quella guerra, né alle imprese allora compiute, né ai paesi visti, né alle fatiche sofferte? Il solo che me ne aveva detto qualcosa era il barbiere-cavadenti; e ne aveva ac-cennato soltanto per mostrarmi come e dove avesse imparato la sua arte, quando faceva il portaferiti sul Carso.
Anche la grande guerra, cosí sanguinosa e ancora cosí vicina, non interessava i contadini: l’avevano subíta, e ora era come l’avessero dimenticata. Nessuno usava vantare le proprie glorie, raccontare ai propri figli le batta-glie combattute, mostrare le ferite o lagnarsi dei pati-menti. Se io li interrogavo, rispondevano brevi e indifferenti. Era stata una grande disgrazia, si era sopportata come le altre. Anche quella era stata una guerra di Roma. Anche allora si seguivano i tre colori, che qui sembrano strani, i colori araldici di un’altra Italia, incomprensibile, volontaria e violenta, quel rosso allegramente sfacciato e quel verde cosí assurdo quaggiú, dove anche gli alberi sono grigi, e l’erba non cresce sulle argille. Quei colori, e tutti gli altri, sono imprese nobiliari, stanno bene sugli scudi dei signori o sui gonfaloni delle città. Che cosa hanno a che fare con quelli i contadini?
Il loro colore è uno solo, quello stesso dei loro occhi tristi e dei loro vestiti, e non è un colore, ma è l’oscurità della terra e della morte. Neri sono i loro stendardi, co-me la faccia della Madonna. Le altre bandiere sono i colori variopinti di quell’altra civiltà, spinta al moto e alla conquista, sulle vie della Storia; e di cui essi non fanno parte. Ma poiché essa è piú forte, e organizzata, e potente, essi devono subirla: oggi si moriva, non per noi, in Abissinia, come ieri sull’Isonzo o sul Piave, come prima, per secoli e secoli, dietro i piú vari colori, in tutte le terre del mondo. Andavo leggendo, in quei giorni, una vecchia storia di Melfi, del Del Zio, trovata frugando tra Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli vecchi libri nella casa del dottor Milillo, dove andavo quasi ogni giorno a prendere il caffè, e a chiacchierare con Margherita e Maria, le due ragazze, sempre piú baf-fute, ingenue e spiritate. Il libro è della seconda metà del secolo scorso, e vi si racconta, fra le glorie locali, che viveva ancora in quegli anni, a Melfi, un vecchio contadino con una gamba di legno. Era stato arruolato nell’esercito di Napoleone, e aveva perduta la sua gamba al passaggio della Beresina. Per piú di mezzo secolo, il contadino zoppicò sui selciati di Melfi, portando su di sé, per i suoi concittadini, l’assurdo segno di una civiltà, che l’aveva marcato per sempre, e che egli ignorava. Che cosa importava a un contadino di Melfi della Russia e dell’imperatore dei francesi? La Storia, avrebbe detto baroccamente Victor Hugo, gli aveva preso una gamba, ed egli non sapeva neppure che cosa essa fosse. La Storia, del resto, questa Storia altrui a cui questi paesi si so-no sempre dovuti rassegnare, aveva lasciato ai concittadini dello zoppo dei segni anche peggiori: poiché la rovina di Melfi, che era una città fiorente e popolosa, fu dovuta al fatto che un capitano francese, in guerra con gli spagnoli di Carlo V su per quelle montagne, decise a caso di serrarvicisi dentro con le sue soldatesche. Gli spagnoli di Pietro Navarro, agli ordini del Lautrec, asse-diarono Melfi, la presero, ammazzarono tutti i cittadini che trovarono, e che non sapevano neppure che cosa fossero Francia e Spagna, Francesco I e Carlo V, rasero al suolo le case, e regalarono quel poco che rimaneva a Filippo d’Orange, e poco dopo, in compenso delle sue vittorie marinare, al genovese Andrea Doria, che essi conoscevano ancora meno. Il genovese non si scomodò mai a visitare i suoi vassalli, e cosí fecero i suoi eredi, li-mitandosi a mandare degli esattori che ne cavassero tutto il denaro possibile. Cosí, per gli imperscrutabili voleri di una Storia che non li riguardava, i contadini di Melfi caddero, per tutti i secoli che seguirono, nella piú nera Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli miseria. Quanta gente, mossa da motivi ignoti, è passata, come i francesi e gli spagnoli, su queste terre? È ben naturale che i contadini dopo migliaia di anni di ripetute, uguali esperienze, non si entusiasmino delle guerre, dif-fidino di tutte le bandiere, lascino, in silenzio, che don Luigino canti, dal balcone, le glorie di Roma.