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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli re magico, avrei dovuto adoperare una magía piú forte della paura; e questa non poteva essere che una potenza diretta e superiore, la violenza. La minacciai dunque di batterla, e ne feci l’atto, e forse anche qualcosa di piú dell’atto: le braccia della Giulia, del resto, non erano certamente meno robuste delle mie. Appena vide e sentí le mie mani alzate, il viso della Giulia si coprí di uno sfa-villio di beatitudine e si aperse ad un sorriso felice a mostrare i suoi denti di lupo. Come prevedevo, nulla era piú desiderabile per lei che di essere dominata da una forza assoluta. Divenuta a un tratto docile come un agnello, la Giulia posò con pazienza, e di fronte agli ar-gomenti indiscutibili della potenza, dimenticò i ben giu-stificati e naturali timori. Cosí potei dipingerla, col suo scialle nero che le incorniciava l’antico viso giallo di serpente. La dipinsi anche, in un grande quadro, sdraiata, con il suo bambino in braccio; se c’è un modo di essere materno, dove non traspare nessun sentimentalismo, questo era il suo: un attaccamento fisico e terrestre, una compassione amara e rassegnata; era come una montagna battuta dal vento e solcata dalle acque, da cui sor-gesse una collinetta piú verde e gentile. Il bambino di Giulia era rotondo, grassoccio, di temperamento dolce e bonaccione: parlava ancora poco, e io capivo pochissimo quello che diceva, quando trotterellava per le mie stanze inseguendo Barone. Con Barone spartiva i fichi secchi, le fette di pane e i dolci che gli regalavo: Nino si rizzava in punta di piedi e alzava la mano il piú alto possibile, serrando fra le dita il suo bene, perché il cane non ci arrivasse: ma quello era piú grande di lui, e giocando e saltando allegro, e attento a non fargli male, gli rubava i fichi di mano. Quando Barone si sdraiava in terra, il Ni-no gli si coricava addosso, e giocavano assieme: poi il bambino si addormentava, stanco di giochi, e il cane restava immobile sotto di lui, come un cuscino, e non osava neppure tirare il fiato per non svegliarlo. Cosí rima-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli nevano per delle ore sul pavimento della cucina. Malgrado le occupazioni e il lavoro, i giorni passavano nella piú squallida monotonia, in quel mondo di morte, senza tempo, né amore, né libertà. Una sola presenza reale sarebbe stata per me mille volte piú viva che le infinite pullulanti presenze degli spiriti incorporei, che rendono piú greve la solitudine, ti guardano e ti seguono. La continua magía degli animali e delle cose pesa sul cuore co-me un funebre incanto. E non ti si presentano, per libe-rartene, che altri modi di magía. La Giulia m’insegnava i suoi filtri, e gli incantesimi d’amore. Ma che cosa è piú contrario all’amore, espansione di libertà, che la magía, espressione di potenza? C’erano delle formule per inca-tenare i cuori delle persone presenti, altre per legare i lontani. Una, che Giulia assicurava particolarmente effi-cace, serviva per le persone al di là dei monti e dei mari, lontano di qui, e le trascinava, perché, abbandonando ogni altra cosa, tornassero, spinte da amore, e venissero al richiamo. Era una poesia, dove i versi espressivi si al-ternavano a quelli assurdamente stregoneschi, secondo le regole magiche. Diceva:

Stella, da lontano te vuardo e da vicino te saluto

’N faccia te vado e ’n vocca te sputo.

Stella, non face che ha da murí

Face che ha da turnà

E con me ha da restà.

Bisogna pronunziarla stando sull’uscio di casa, la notte, e guardando una stella, che è quella a cui ci si rivolge.

L’ho provata, qualche volta, ma non mi è servita. Stavo appoggiato alla porta, con Barone ai miei piedi, e guardavo il cielo. Ottobre era passato, e nell’aria nera brillavano le mie stelle natali, le fredde stelle lucenti del Sagit-tario.

Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli In quest’ozio del sentimento, carico di parole senza risposta, in questa solitaria noia zodiacale, arrivò, in quei giorni, all’improvviso, una lettera della questura di Matera. Mi si permetteva di recarmi per qualche giorno a Grassano, per finirvi dei quadri, a condizione che io stesso provvedessi a pagare il viaggio di andata e ritorno per me e per i carabinieri che dovevano accompagnarmi. Era la risposta ad una mia domanda, di cui mi ero ormai completamente dimenticato. Quando mi avevano, da un giorno all’altro, trasferito a Gagliano, avevo chiesto, con un telegramma a Matera, che mi si consen-tisse di tardare per una diecina di giorni, perché avevo delle pitture incominciate, che avrei dovuto completare.

Era un pretesto: speravo, ottenendo quel rinvio, di poter poi restare a Grassano definitivamente. Il telegramma era rimasto senza risposta, e avevo dovuto partire.

Ma le ragioni dell’arte avevano il loro peso sull’animo dei questurini: e, dopo piú di tre mesi di meditazione, mi arrivava, tanto piú inattesa e piacevole, questa insperata vacanza.

Non ho mai conosciuto i funzionari della questura di Matera che si occupavano di noi: ma non dovevano essere gente cattiva. In quella sede disgraziata, ci si dovevano mandare soltanto dei vecchi arnesi usati di questura, pieni di scetticismo borbonico e di routine: non certamente dei giovani entusiasti. In quei vecchi cervelli impiegatizi non era ancora entrata, per fortuna, la cultura dei maestri di scuola, l’idealismo da università popolare che muoveva lo zelo isterico dei giovanotti, e faceva loro immaginare che lo Stato, nella sua indiscutibile eti-cità, fosse una persona, fatta all’incirca come loro, con una sua morale personale, simile alla loro, da imporre a tutti gli uomini, con le loro stesse piccole ambizioni, e i loro piccoli sadismi e virtuosismi, ma, nello stesso tempo, imperscrutabile ai profani, sacro ed enorme. In questa identificazione con l’idolo essi provavano la stessa Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli beatitudine fisica che nel fare all’amore. Questi erano, in parte, i sentimenti di don Luigino: ma quei bravi poliziotti di Matera forse sapevano soltanto che è buona usanza lasciar dormire almeno tre mesi tutte le pratiche.

Don Luigino mi comunicò la notizia con il sorriso bene-volo di un re che concede una grazia a uno dei suoi sud-diti: egli era lo Stato, e perciò quella tarda generosità della polizia era anche sua, ed egli era felice di poter sentirsi, quel giorno, uno Stato paterno. Ma in quella felicità si insinuava una punta di gelosia municipale, e forse anche qualche altro vago sentimento sgradevole, che la offuscava. Perché sembravo cosí contento di andar-mene, sia pure per pochi giorni? Forse preferivo Grassano a Gagliano? Il fatto è che, se, come personificazio-ne dello Stato, don Luigino pensava che i confinati dovessero essere trattati nel modo peggiore, e non dovessero potersi rallegrare del loro soggiorno, come gaglianese e primo cittadino di Gagliano avrebbe invece preteso che ci si trovassero, o almeno proclamassero di trovarcisi, meglio che in qualunque altro paese della provincia. Cosí, in questo modo contraddittorio e geloso, trovava posto anche nel suo animo quella che è la virtú prima e antichissima di queste terre: l’ospitalità; la virtú per cui i contadini aprono la porta all’ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendo-no la palma, fieri ognuno di essere il piú amichevole e aperto al viandante straniero, che, forse, è un dio travestito. Per don Luigino, non avrei dovuto rallegrarmi della partenza. E poi, non c’era pericolo che io parlassi ma-le di lui ai signori di là, tanto piú vicini al gran cuore onnipotente della Capitale della Provincia? E, se non fossi tornato, se avessi trovato modo di farmi trasferire, chi lo avrebbe curato dei suoi mali immaginari? E chi avrebbe sottratto i clienti al suo nemico Gibilisco, per farlo morire di rabbia? Insomma, don Luigino, a modo Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli suo, e per quanto era possibile a quel suo animo arido e bambinesco, mi amava, e gli rincresceva che io partissi.

Dovetti rasserenarlo, dirgli che il mio piacere veniva soltanto dalla prospettiva della passeggiata a cui non ero piú avvezzo, che non mi attiravano a Grassano altro che le ragioni del mio lavoro, e che sarei stato felicissimo di tornare sotto la sua tutela, appena finiti i miei quadri. E

cosí, con un gran pacco di tele, il cavalletto. portatile, la cassetta dei colori, Barone, e due carabinieri, all’indomani, la mattina presto, partii. Il percorso mi era noto; era un po’ come un viaggio nella mia camera: e di solito non amo voltarmi indietro e tornare nei luoghi dove una volta ho vissuto. Ma le mie impressioni di Grassano erano piacevoli; ci ero arrivato dopo mesi di solitudine assoluta; là avevo riveduto per la prima volta le stelle e la luna e le piante e gli animali e il viso degli uomini: mi si era cosí fissata nel ricordo come una terra di libertà. La lunga segregazione porta a un distacco dai sensi, che in alcuni può essere simile a una specie di santità: il ritorno alla vita normale ha sempre qualcosa di troppo acuto e di doloroso, come una convalescenza. La miseria e l’arsura desolata di Grassano, quel paesaggio senza dolcez-ze e sensualita, quella monotona tristezza, erano il luogo migliore, il meno offensivo, per questo ritorno. Mi ci ero trovato bene, e l’amavo.

Con che piacere, quella mattina, sull’automobile dell’americano, mi si aperse, di là dalla svolta dietro il cimitero, la terra proibita, la discesa sul Sauro, e il monte di Stigliano! E come saltava allegro Barone, mentre aspettavamo, al bivio, in riva al fiume, il postale pieno di visi sconosciuti! Ecco, a uno a uno, come in un film girato alla rovescia, i paesi del mio arrivo, Stigliano, Accettura, San Mauro Forte, e le fermate dell’autobus, e il salire e lo scendere dei contadini e delle donne, e la foresta, e le case popolate di gente immaginaria. Ed ecco, finalmente, là in fondo, apparire, largo e bianco, il letto Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli del Basento, e la casetta della stazione di Grassano. Qui l’autobus partí verso Grottole e Matera, e rimanemmo ad aspettare che arrivasse qualche mezzo di trasporto, che ci portasse, per i diciotto chilometri dí giravolte e di polvere, su al paese. Aspettammo a lungo, ché l’automobile di Grassano scendeva piú tardi, per l’arrivo dei treno di Taranto, a prendere gli eventuali passeggeri. Rimasi a guardare il greto del fiume, dove il primo arco del ponte, rotto da una piena, aspettava da molti anni invano di essere riparto. Davanti a me si alzava, come una grande onda di terra, uniforme e spoglio, il monte di Grassano, e in cima, quasi irreale nel cielo, come l’immagine di un miraggio, appariva il paese. Pareva anche piú irreale ed aereo di quando l’avevo visto l’ultima volta, perché le case erano state, durante la mia assenza, tutte imbiancate di fresco, e ora sembravano, tutte rac-colte insieme come le pecore di un gregge impaurito, appena sfiorare la vetta grigio-giallastra del monte.

Finalmente sentimmo di lontano il rumore della tromba dell’automobile, e vedemmo una nuvola di polvere scendere per la costa, e presto la macchina, trabal-lando sulla passerella di assi disposta sul fiume, di fianco al ponte rotto, arrivò alla stazione. Il guidatore, quello stesso che mi aveva accompagnato a Gagliano tre mesi prima, riconobbe me e Barone, e ci diede il primo ben-venuto. Il treno arrivò fischiando, e ripartí senza che nessun passeggero scendesse o salisse. Si doveva ora aspettare l’altro treno, quello di Napoli e di Potenza, che avrebbe dovuto arrivare di lí a poco, ma che aveva un forte ritardo. Io non avevo fretta, e non mi dispiaceva restare ancora nel fondo della valle, dove non sarei forse tornato mai piú, e passeggiare in quel silenzio meridiano, e sedermi sui sassi bianchi del fiume larghissimo e secco, che si perde, in alto e in basso, fra i monti. Man-giai la colazione che mi ero portata, e aspettai. Dopo un’altra ora, anche il treno di Napoli arrivò, vuoto; Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli montammo sull’automobile e cominciammo la salita.

Lungo i diciotto chilometri le curve sono parecchie centinaia, fra continue gobbe di terra, scavate da grotte, e campi di stoppie aride, dove passa il vento in un’onda di polvere. Non si incontra un albero in tutto il percorso, e ci si innalza a poco a poco, fino ai cinquecento metri del paese, voltandosi in tutte le direzioni, con la vista quasi sempre chiusa dal curvo gonfiarsi dei campi riarsi. Ecco-ci a una grande spaccatura, come una ferita nella terra: per superarla la strada deve fare un grande rigiro. È il vallone delle carogne, cosí chiamato perché serve a but-tarci i corpi delle bestie morte di malattia, e immangia-bili: le loro ossa biancheggiano nel fondo. Siamo ormai vicini al paese: ecco il cimitero, in ripido pendio, tutto scoperto, come un fazzoletto punteggiato di bianco messo per terra ad asciugare sul fianco del monte: ecco lo sbocco del sentiero dalle alte siepi di rosmarino, dove ero solito sedermi a leggere, per delle ore, da solo, nei primi tempi, finché una capra non sbucava d’un tratto, guardandomi misteriosa; ecco l’albero dove il vecchio brigante aveva ucciso, settant’anni fa, il suo carabiniere.

Ancora un’ultima svolta, ed ecco, su un monticello di terra, la grande croce di legno, ed il Cristo: un’ultima breve salita, e la strada si stringe fra le case. Con un gran chiasso di tromba, tra la gente che si scansava addossan-dosi agli usci, arrivammo finalmente alla porta dell’albergo di Prisco. Mi accolse la voce tonante del padrone, che si mise a chiamare la moglie ed i figliuoli: – Capità!

Guagliò! È tornato don Carlo! – Ed eccoli tutti, agitati, vivaci, rumorosi, attorno a me. Era una famiglia simpati-cissima. Lui era un uomo sulla cinquantina, robusto, svelto, sempre in moto, in faccende e in grida, con una testa rotonda dai capelli tagliati corti, dagli occhi mobili e furbi, dalla barba nera, lunga di quattro giorni; occupato di affari coi mercanti di passaggio, di commerci coi paesi vicini, pieno di iniziativa e di allegra energia. La si-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli gnora Prisco era tanto tranquilla e dolce quanto suo marito era chiassoso e brusco. Alta, formosa, vestita di ne-ro, materna e imperturbabile in quel continuo tramenío, mi preparava il pane arrostito con l’olio: e la sua voce non si sentiva. Il figlio maggiore, il Capitano, cosí chiamato perché era il capo riconosciuto di tutti i ragazzi del paese, che dominava con la sua astuzia e la sua preco-cità, era un ragazzo zoppo, piccolo di statura, di tredici o quattordici anni. Aveva degli occhi sfavillanti, sensuali insieme e furbissimi, in un viso magro e pallido, in cui cominciavano a crescere i primi peli. Capiva ogni cosa al volo, parlava rapidissimo e in modo ellittico, o per cenni: imponeva a tutti i suoi coetanei la sua volontà. Non ho mai visto alcuno della sua età afferrare piú in fretta un’idea, soprattutto quando si trattasse di cose di commercio o di affari, né fare piú sveltamente le somme e le divisioni: né giocare a scopa in modo piú fulmineo, in modo che le carte non avevano tempo di posarsi sul tavolo. Dappertutto, in paese, si sentiva chiamare il Capitano, dappertutto appariva il suo corpicino smunto e svelto, e il suo passo di sciancato. Il figlio minore era l’opposto del Capitano: era alto, sottile, languido, con dei grandi occhioni nel viso dolce, e non parlava mai: aveva preso dalla madre, come le bambine che venivano poi. Non avevo ancora finito di salutare la famiglia Prisco, che già arrivava Antonino Roselli, il barbiere, con suo cognato Riccardo; avevano già mandato ad avvertire del mio arrivo gli amici, che arrivarono subito dopo. Antonino, un giovane bruno, con dei baffetti neri, barbiere e flautista, sognava, come tutti i grassanesi, di andarsene lontano. La sua speranza era di potermi seguire, come segretario, in giro per l’Europa. Mi avrebbe fatto la barba, mi avrebbe preparato le tele, i colori e i pennelli per dipingere, mi avrebbe cercato delle modelle, si sarebbe occupato della vendita dei miei quadri, mi avrebbe so-nato il flauto per rallegrarmi nelle ore di noia, mi avreb-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli be assistito se mi ammalavo: insomma, sarebbe stato per me meglio che il fido Elia per Vittorio Alfieri in giro per gli altipiani della vecchia Castiglia. Forse avrei fatto be-ne ad esaudire quel suo desiderio: ma, ahimè, anche questa fu tra le mille possibilità della vita che per pigri-zia, sciocchezza o disattenzione non raccolsi, e lasciai perdersi in nulla. Era davvero un gran bravo giovane, forse un po’ troppo barbiere e un po’ troppo flautista per il mio gusto. Ma veramente affezionato e gentile.

Quando, nei primi giorni dopo il mio arrivo da Roma, rimasi solo dopo una visita furtiva, Antonino immaginò che io avrei sentito la tristezza, e venne con i suoi amici a suonare una serenata sotto le mie finestre, per consolarmi. C’era il suo flauto, un violino e una chitarra, che ri-sonavano melanconici nel gran silenzio della notte.

Riccardo era un marinaio di Venezia, confinato come tutti gli altri membri dell’equipaggio della sua nave che faceva servizio con Odessa, perché erano stati trovati a bordo, all’arrivo a Trieste, degli stampati russi di propaganda. Era alto e biondo, atletico, campione dei 400 metri a nuoto; con degli occhi chiari lontani, quasi sulle tempie, come gli uccelli. Avevo riconosciuto il suo viso, la prima volta che l’avevo incontrato, per averlo visto in un ritratto di De Pisis. Riccardo si era trovato assai bene a Grassano e vi aveva preso moglie. Aveva sposato Maddalena, la sorella di Antonino, e aspettavano un bambino. La sua vita era dunque ormai, in famiglia, piuttosto quella di un grassanese che di un confinato. Del resto, i confinati a Grassano erano pressoché liberi; potevano passeggiare a loro piacere in tutto il territorio del comune, che è vastissimo; dovevano farsi vedere una sola volta alla settimana in municipio: e l’obbligo del coprifuoco era attuato senza alcun rigore. Riccardo era un giovane mite e simpatico, e io amavo sentire la sua parlata vene-ta. Arrivarono, poco dopo i due cognati, i loro amici: artigiani, falegnami, un sarto, alcuni contadini.

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