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I giorni passavano e non prendevo nessun tipo di decisione. Poi questa mattina, il suggerimento della rosa. Scrivile una lettera, un piccolo diario dei tuoi giorni che continui a tenerle compagnia. E così eccomi qua, in cucina, con un tuo vecchio quaderno davanti a mordicchiare la penna come un bambino in difficoltà con i compiti. Un testamento? Non proprio, piuttosto qualcosa che ti segua negli anni, qualcosa che potrai leggere ogni volta che sentirai il bisogno di avermi vicina. Non temere, non voglio pontificare né rattristarti, soltanto chiacchierare un po' con l'intimità che ci

legava una volta e che, negli ultimi anni, abbiamo perso. Per avere a lungo vissuto e aver lasciato dietro di me tante persone, so ormai che i morti pesano non tanto per l'assenza, quanto per ciò che – tra loro e noi – non è stato detto.

Vedi, io mi sono trovata a farti da madre già in là negli anni, nell'età in cui di solito si è soltanto nonni. Questo ha avuto molti vantaggi. Vantaggi per te, perché una nonna mamma è sempre più attenta e più buona di una mamma mamma, e vantaggi per me perché, invece di rimbecillirmi come le mie coetanee tra una canasta e una pomeridiana allo stabile, con prepotenza sono stata nuovamente trascinata nel flusso della vita. A un certo punto, però, qualcosa si è rotto. La colpa non era né mia né tua ma soltanto delle leggi di natura.

L'infanzia e la vecchiaia si assomigliano. In entrambi i casi, per motivi diversi, si è piuttosto inermi, non si è ancora – o non si è più – partecipi della vita attiva e questo permette di vivere con una sensibilità senza schemi, aperta. È durante l'adolescenza che comincia a formarsi intorno al nostro corpo un'invisibile corazza. Si forma durante l'adolescenza e continua a ispessirsi per tutta l'età adulta. Il processo della sua crescita somiglia un po' a quello delle perle, più grande e profonda è la ferita, più è forte la corazza che si sviluppa intorno. Poi però con il passare del tempo, come un vestito portato troppo a lungo, nei punti di maggiore uso inizia a logorarsi, fa vedere la trama, ad un tratto per un movimento brusco si strappa. In principio non ti accorgi di niente, sei convinta che la corazza ti avvolga ancora interamente finché un giorno, all'improvviso, davanti a una cosa stupida senza sapere perché ti ritrovi a piangere come un bambino.

Così quando dico che tra me e te è insorto un divario naturale, intendo proprio questo. Nel tempo in cui la tua corazza ha cominciato a formarsi, la mia era già a brandelli. Tu non sopportavi le mie lacrime ed io non sopportavo la tua improvvisa durezza. Sebbene fossi preparata al fatto che avresti cambiato carattere con l'adolescenza, una volta avvenuto il cambiamento mi è stato molto difficile sopportarlo. All'improvviso c'era una persona nuova davanti a me e questa persona non sapevo più come prenderla. La sera, nel letto, al momento di raccogliere i pensieri ero felice di quanto ti stava succedendo. Mi dicevo, chi passa l'adolescenza indenne non diventerà mai una persona davvero grande. Alla mattina però, quando mi sbattevi la prima porta in faccia, che depressione, che voglia di piangere! L'energia necessaria per tenerti testa non riuscivo a trovarla da nessuna parte. Se mai arriverai a ottant'anni, capirai che a quest'età ci si

sente come foglie alla fine di settembre. La luce del giorno dura meno e l'albero piano piano comincia a richiamare a sé le sostanze nutritive.

Azoto, clorofilla e proteine vengono risucchiate dal tronco e con loro se ne va anche il verde, l'elasticità. Si sta ancora sospesi lassù ma si sa che è questione di poco. Una dopo l'altra cadono le foglie vicine, le guardi cadere, vivi nel terrore che si levi il vento. Per me il vento eri tu, la vitalità litigiosa della tua adolescenza. Te ne sei mai resa conto, tesoro? Abbiamo vissuto sullo stesso albero ma in stagioni così diverse.

Mi viene in mente il giorno della partenza, come eravamo nervose, eh?

Tu non avevi voluto che ti accompagnassi all'aeroporto, e ad ogni cosa che ti ricordavo di prendere mi rispondevi: «Vado in America, mica nel deserto». Sulla porta, quando ti ho gridato con la mia voce odiosamente stridula: «Abbi cura di te», senza neanche voltarti mi hai salutata dicendo:

«Abbi cura di Buck e della rosa».

Sul momento, sai, sono rimasta un po' delusa da questo tuo saluto. Da vecchia sentimentale quale sono mi aspettavo qualcosa di diverso e più banale come un bacio o una frase affettuosa. Soltanto la sera quando, non riuscendo a prendere sonno, mi aggiravo in vestaglia per la casa vuota, mi sono resa conto che curare Buck e la rosa voleva dire curare la parte di te che continua a vivermi accanto, la parte felice di te. E mi sono anche resa conto che nella secchezza di quell'ordine non c'era insensibilità ma la tensione estrema di una persona pronta a piangere. È la corazza di cui parlavo prima. Tu ce l'hai ancora così stretta che quasi non respiri. Ti ricordi cosa ti dicevo negli ultimi tempi? Le lacrime che non escono si depositano sul cuore, con il tempo lo incrostano e lo paralizzano come il calcare incrosta e paralizza gli ingranaggi della lavatrice.

Lo so, i miei esempi tratti dall'universo della cucina invece di farti ridere ti fanno sbuffare. Rassegnati: ognuno trae ispirazione dal mondo che conosce meglio.

Ora devo lasciarti. Buck sospira e mi guarda con occhi imploranti.

Anche in lui si manifesta la regolarità della natura. In tutte le stagioni, conosce l'ora della pappa con la precisione di un orologio svizzero.

18 novembre

Questa notte è caduta una forte pioggia. Era così violenta che più volte mi sono svegliata per il rumore che faceva battendo sulle imposte. Stamattina,

quando ho aperto gli occhi convinta che il tempo fosse ancora brutto, mi sono crogiolata a lungo tra le coperte. Come cambiano le cose con gli anni! Alla tua età ero una specie di ghiro, se nessuno mi disturbava potevo dormire anche fino all'ora di pranzo. Adesso invece, prima dell'alba sono sempre sveglia. Così le giornate diventano lunghissime, interminabili. C'è della crudeltà in tutto questo, no? Le ore del mattino poi sono le più terribili, non c'è niente che aiuti a distrarsi, stai lì e sai che i tuoi pensieri possono andare soltanto indietro. I pensieri di un vecchio non hanno futuro, sono per lo più tristi, se non tristi, malinconici. Mi sono spesso interrogata su questa stranezza della natura. L'altro giorno alla televisione ho visto un documentario che mi ha fatto riflettere. Parlava dei sogni degli animali. Nella gerarchia zoologica, dagli uccelli in su, tutti gli animali sognano molto. Sognano le cinciallegre e i piccioni, gli scoiattoli e i conigli, i cani e le mucche distese sul prato. Sognano, ma non tutti allo stesso modo. Gli animali che per natura sono soprattutto prede fanno dei sogni brevi, più che sogni veri e propri sono apparizioni. I predatori fanno invece sogni complicati e lunghi. «Per gli animali», diceva lo speaker,

«l'attività onirica è un modo per organizzare le strategie di sopravvivenza, chi caccia deve elaborare forme sempre nuove per procurarsi il cibo, chi è cacciato – e il cibo di solito se lo trova davanti in forma di erba – deve pensare soltanto al modo più veloce di fuggire.» L'antilope insomma, dormendo vede davanti a sé la savana aperta; il leone invece, in un continuo e variato ripetersi di scene, vede tutte le cose che dovrà fare per riuscire a mangiare l'antilope. Deve essere così, mi sono detta allora, da giovani si è carnivori e da vecchi erbivori. Perché quando si è vecchi oltre a dormire poco, non si fanno sogni, o se si fanno forse non ne resta il ricordo. Da bambini e da giovani invece si sogna di più e i sogni hanno il potere di determinare l'umore del giorno. Ti ricordi i pianti che facevi appena sveglia negli ultimi mesi? Stavi lì seduta davanti alla tazza di caffè e le lacrime ti scendevano silenziose lungo le guance. «Perché piangi?» ti chiedevo allora, e tu sconsolata o rabbiosa dicevi: «Non lo so». Alla tua età ci sono tante cose da mettere a posto dentro di sé, ci sono progetti e nei progetti insicurezze. La parte incosciente non ha un ordine o una logica chiara, assieme ai rimasugli del giorno, gonfiati e deformi, mescola le aspirazioni più profonde, tra le aspirazioni profonde infila i bisogni del corpo. Così, se si ha fame si sogna di trovarsi seduti a tavola e non riuscire a mangiare, se si ha freddo di essere al Polo Nord e non avere il cappotto, se si è subito uno sgarbo si diventa guerrieri assetati di sangue.

Che sogni stai facendo laggiù tra i cactus e i cowboy? Mi piacerebbe saperlo. Chissà se ogni tanto là in mezzo, magari vestita da pellerossa compaio anch'io? Chissà se sotto spoglie di coyote compare Buck? Hai nostalgia? Ci pensi?

Ieri sera, sai, mentre leggevo seduta in poltrona, all'improvviso ho sentito nella stanza un rumore ritmico, alzata la testa dal libro ho visto Buck che dormendo batteva al suolo la coda. Dall'espressione beata del muso sono sicura che ti vedeva davanti, forse eri appena tornata e ti stava facendo le feste oppure ricordava qualche passeggiata particolarmente bella che avete fatto assieme. I cani sono così permeabili ai sentimenti umani, con la convivenza dalla notte dei tempi siamo diventati quasi uguali. Per questo tante persone li detestano. Vedono troppe cose di sé riflesse nel loro sguardo teneramente vile, cose che preferirebbero ignorare. Buck ti sogna spesso in questo periodo. Io non riesco a farlo o forse lo faccio ma non riesco a ricordarlo.

Quand'ero piccola, aveva vissuto per un periodo a casa nostra una sorella di mio padre, rimasta vedova da poco. Aveva la passione dello spiritismo e appena i miei genitori non ci vedevano, negli angoli più bui e nascosti mi istruiva sui poteri straordinari della mente. «Se vuoi entrare in contatto con una persona lontana», mi diceva, «devi stringere in mano una sua foto, fare una croce composta di tre passi e poi dire, eccomi, sono qui.» In quel modo, secondo lei, avrei potuto ottenere la comunicazione telepatica con la persona desiderata.

Questo pomeriggio, prima di mettermi a scrivere, ho fatto proprio così.

Erano circa le cinque, da te doveva essere mattina. Mi hai vista? Sentita?

Io ti ho scorta in uno di quei bar pieni di luci e piastrelle dove si mangiano panini con dentro la polpetta, ti ho distinta subito tra quella folla multicolore perché avevi indosso l'ultimo maglione che ti ho fatto, quello con i cervi rossi e blu. L'immagine però è stata così breve e così smaccatamente simile a quelle dei telefilm che non ho fatto in tempo a vedere l'espressione dei tuoi occhi. Sei felice? È questo più di ogni altra cosa che mi sta a cuore.

Ti ricordi quante discussioni abbiamo fatto per decidere se fosse giusto o meno che io finanziassi questo tuo lungo soggiorno di studio all'estero? Tu sostenevi che ti era assolutamente necessario, che per crescere e aprire la mente avevi bisogno di andartene, lasciare l'ambiente asfittico in cui eri cresciuta. Avevi appena finito il liceo e brancolavi nel buio più totale su quello che avresti voluto fare da grande. Da piccola avevi tante passioni:

volevi diventare veterinario, esploratore, medico dei bambini poveri. Di questi desideri non era rimasta la minima traccia. L'apertura iniziale che avevi manifestato verso i tuoi simili con gli anni si è andata chiudendo; tutto quello che era filantropia, desiderio di comunione, in un tempo brevissimo è diventato cinismo, solitudine, concentrazione ossessiva sul tuo destino infelice. Se alla televisione capitava di vedere qualche notizia particolarmente cruda, irridevi la compassione delle mie parole dicendo:

«Alla tua età di cosa ti meravigli? Non sai ancora che è la selezione della specie a governare il mondo?»

Le prime volte davanti a questo tipo di osservazioni restavo senza fiato, mi sembrava di avere un mostro accanto a me; osservandoti con la coda dell'occhio mi chiedevo da dove fossi venuta fuori, se era questo, con il mio esempio, che ti avevo insegnato. Non ti ho mai risposto però intuivo che il tempo del dialogo era finito, qualsiasi cosa avessi detto ci sarebbe stato soltanto uno scontro. Da un lato avevo paura della mia fragilità, dell'inutile perdita di forze, dall'altro intuivo che lo scontro aperto era proprio ciò che cercavi, che dopo il primo ce ne sarebbero stati altri, sempre di più, sempre più violenti. Sotto le tue parole percepivo ribollire l'energia, un'energia arrogante, pronta a esplodere e trattenuta a stento; il mio smussare le asperità, la finta indifferenza agli attacchi ti hanno costretta a cercare altre strade.

Allora mi hai minacciato di andartene, di sparire dalla mia vita senza dare più notizie. Ti aspettavi forse la disperazione, le suppliche umili di una vecchia. Quando ti ho detto che partire sarebbe stata un'ottima idea hai cominciato a traballare, sembravi un serpente che alzata la testa di scatto con le fauci aperte e pronto a colpire, a un tratto non vede più davanti a sé la cosa contro cui scagliarsi. Allora hai cominciato a patteggiare, a fare proposte, ne hai fatte di diverse e incerte fino al giorno in cui, con una nuova sicurezza, davanti al caffè mi hai annunciato: «Vado in America».

Ho accolto questa decisione come le altre, con un gentile interessamento. Non volevo, con la mia approvazione, spingerti a fare scelte affrettate, che non sentivi fino in fondo. Nelle settimane seguenti hai continuato a parlarmi dell'idea dell'America. «Se vado un anno là», ripetevi con ossessione, «almeno imparo una lingua e non perdo tempo.»

Ti irritavi in modo terribile quando ti facevo notare che perdere tempo non è per niente grave. Il massimo dell'irritazione però l'hai raggiunto nel momento in cui ti ho detto che la vita non è una corsa ma un tiro al bersaglio: non è il risparmio di tempo che conta, bensì la capacità di

trovare un centro. C'erano due tazze sul tavolo che subito hai fatto volare spazzandole con un braccio, poi sei scoppiata a piangere. «Sei stupida», dicevi, nascondendo con le mani il volto. «Sei stupida. Non capisci che è proprio quello che voglio?» Per settimane eravamo state come due soldati che dopo aver sepolto una mina in un campo stanno attenti a non montarci sopra. Sapevamo dov'era, cos'era e camminavamo distanti, fingendo che la cosa da temere fosse un'altra. Quando è deflagrata e tu singhiozzavi dicendomi non capisci niente, non capirai mai niente, ho dovuto fare degli sforzi grossissimi per non farti intuire il mio smarrimento. Tua madre, il modo in cui ti ha concepito, la sua morte, di tutto questo non ti ho mai parlato e il fatto che ne tacessi ti ha portata a credere che per me la cosa non esistesse, che fosse poco importante. Ma tua madre era mia figlia, di questo forse non tieni conto. O forse ne tieni conto, ma invece di dirlo, lo covi dentro, altrimenti non posso spiegarmi certi tuoi sguardi, certe parole cariche di odio. Di lei, a parte il vuoto, tu non hai altri ricordi: eri ancora troppo piccola il giorno che è morta. Io, invece, nella mia memoria conservo trentatre anni di ricordi, trentatre più i nove mesi che l'ho portata in grembo.

Come puoi pensare che la questione mi lasci indifferente?

Nel non affrontare prima l'argomento, da parte mia c'era soltanto pudore e una buona dose di egoismo. Pudore perché era inevitabile che parlando di lei avrei dovuto parlare di me, delle mie colpe vere o presunte; egoismo perché speravo che il mio amore sarebbe stato così grande da coprire la mancanza del suo, da impedirti un giorno di avere nostalgia di lei e di domandarmi: «Chi era mia madre, perché è morta?»

Finché eri bambina, assieme eravamo felici. Eri una bambina piena di gioia ma nella tua gioia non c'era nulla di superficiale, di scontato. Era una gioia su cui stava sempre in agguato l'ombra della riflessione, dalle risate passavi al silenzio con una facilità sorprendente. «Cosa c'è, cosa pensi?» ti chiedevo allora e tu, come se parlassi della merenda, mi rispondevi:

«Penso se il cielo finisce o va avanti per sempre». Ero orgogliosa del tuo essere così, la tua sensibilità somigliava alla mia, non mi sentivo grande o distante ma teneramente complice. Mi illudevo, volevo illudermi che così sarebbe stato per sempre. Ma purtroppo non siamo esseri sospesi in bolle di sapone, vaganti felici per l'aria; c'è un prima e un dopo nelle nostre vite e questo prima e dopo intrappola i nostri destini, si posa su di noi come una rete sulla preda. Si dice che le colpe dei padri cadano sui figli. È vero, verissimo, le colpe dei padri cadono sui figli, quelle dei nonni sui nipoti,

quelle dei bisnonni sui bisnipoti. Ci sono verità che portano in sé un senso di liberazione e altre che impongono il senso del tremendo. Questa appartiene alla seconda categoria. Dove finisce la catena delle colpe? A Caino? Possibile che tutto debba andare così lontano? C'è qualcosa dietro tutto questo? Una volta, in un libro indiano ho letto che il fato possiede tutto il potere mentre lo sforzo della volontà è solo un pretesto. Dopo averlo letto una gran pace mi è scesa dentro. Già il giorno dopo però, poche pagine più in là, ho trovato scritto che il fato non è altro che il risultato delle azioni passate, siamo noi, con le nostre mani, a forgiare il nostro stesso destino. Così sono tornata al punto di partenza. Dov'è il bandolo di tutto questo, mi sono chiesta. Qual è il filo che si dipana? È un filo o una catena? Si può tagliare, rompere oppure ci avvolge per sempre?

Intanto taglio io. La mia testa non è più quella di una volta, le idee ci sono sempre, certo, non è cambiato il modo di pensare ma la capacità di sostenere uno sforzo prolungato. Adesso sono stanca, la testa mi gira come quando da giovane cercavo di leggere un libro di filosofia. Essere, non essere, immanenza... dopo poche pagine provavo lo stesso stordimento che si prova viaggiando su una corriera per strade di montagna. Per il momento ti lascio, vado un po' a istupidirmi davanti a quella amata odiata scatoletta che sta in salotto.

20 novembre

Di nuovo qui, terzo giorno del nostro incontro. O meglio, quarto giorno e terzo incontro. Ieri ero così stanca che non sono riuscita a scrivere niente e neppure a leggere. Essendo inquieta e non sapendo cosa fare ho girato tutto il giorno tra la casa e il giardino. L'aria era abbastanza mite e nelle ore più calde mi sono seduta sulla panchina accanto alla forsizia. Intorno a me il prato e le aiuole erano nel più completo disordine. Guardandole mi è venuta in mente la lite per le foglie cadute. Quand'è stata? L'anno scorso?

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