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È buffo a dirlo ma appena l'ho vista il cuore ha cominciato a battere in modo diverso, più che battere frullava, sembrava un animaletto contento, alla stessa maniera batteva soltanto quando vedevo Ernesto. Mi sono seduta sotto, l'ho accarezzata, ho posato la schiena e la nuca sul suo tronco.

Gnosei seauton, così da ragazza avevo scritto sul frontespizio del mio quaderno di greco. Ai piedi della quercia quella frase sepolta nella memoria all'improvviso mi è tornata in mente. Conosci te stesso. Aria, respiro.

16 dicembre

Questa notte è caduta la neve, appena mi sono svegliata ho visto tutto il giardino bianco. Buck correva sul prato come pazzo, saltava, abbaiava, prendeva un ramo in bocca e lo lanciava in aria. Più tardi è venuta a trovarmi la signora Razman, abbiamo bevuto un caffè, mi ha invitato a trascorrere la sera di Natale assieme. «Cosa fa tutto il tempo?» mi ha domandato prima di andarsene. Ho sollevato le spalle. «Niente», le ho risposto, «un po' guardo la televisione, un po' penso.»

Di te non mi chiede mai niente, gira intorno all'argomento con discrezione ma dal tono della sua voce capisco che ti considera un'ingrata.

«I giovani», dice spesso nel mezzo di un discorso «non hanno cuore, non hanno più il rispetto che avevano una volta.» Per non farla andare oltre annuisco, dentro di me però sono convinta che il cuore sia lo stesso di sempre, c'è solo meno ipocrisia, tutto qui. I giovani non sono naturalmente egoisti, così come i vecchi non sono naturalmente saggi. Comprensione e superficialità non appartengono agli anni ma al cammino che ognuno percorre. Da qualche parte che non ricordo, non molto tempo fa ho letto un motto degli indiani d'America che diceva: «Prima di giudicare una persona cammina per tre lune nei suoi mocassini». Mi è piaciuto talmente che per non dimenticarlo l'ho trascritto sul bloc-notes vicino al telefono. Viste dall'esterno molte vite sembrano sbagliate, irrazionali, pazze. Finché si sta fuori è facile fraintendere le persone, i loro rapporti. Soltanto da dentro, soltanto camminando tre lune con i loro mocassini si possono comprendere le motivazioni, i sentimenti, ciò che fa agire una persona in un modo piuttosto che in un altro. La comprensione nasce dall'umiltà non dall'orgoglio del sapere.

Chissà se infilerai le mie pantofole dopo aver letto questa storia? Spero di sì, spero che ciabatterai a lungo da una stanza all'altra, che farai più volte il giro del giardino, dal noce al ciliegio, dal ciliegio alla rosa, dalla rosa a quegli antipatici pini neri in fondo al prato. Lo spero, non per elemosinare la tua pietà, né per avere un'assoluzione postuma, ma perché è necessario per te, per il tuo futuro. Capire da dove si viene, cosa c'è stato dietro di noi è il primo passo per poter andare avanti senza menzogne.

Questa lettera avrei dovuto scriverla a tua madre, invece l'ho scritta a te.

Se non l'avessi scritta per niente allora sì che la mia esistenza sarebbe stata

davvero un fallimento. Fare errori è naturale, andarsene senza averli compresi vanifica il senso di una vita. Le cose che ci accadono non sono mai fini a se stesse, gratuite, ogni incontro, ogni piccolo evento racchiude in sé un significato, la comprensione di se stessi nasce dalla disponibilità ad accoglierli, dalla capacità in qualsiasi momento di cambiare direzione, lasciare la pelle vecchia come le lucertole al cambio di stagione.

Se quel giorno a quasi quarant'anni non mi fosse venuta in mente la frase del mio quaderno di greco, se lì non avessi messo un punto prima di andare di nuovo avanti, avrei continuato a ripetere gli stessi sbagli che avevo fatto fino a quell'istante. Per scacciare il ricordo di Ernesto avrei potuto trovare un altro amante e poi un altro e un altro ancora; nella ricerca di una sua copia, nel tentativo di ripetere quello che avevo già vissuto, ne avrei provati a decine. Nessuno sarebbe stato uguale all'originale e sempre più insoddisfatta sarei andata avanti, forse già vecchia e ridicola mi sarei contornata di giovanotti. Oppure avrei potuto odiare Augusto, in fondo anche a causa della sua presenza mi era stato impossibile prendere decisioni più drastiche. Capisci? Trovare scappatoie quando non si vuol guardare dentro se stessi è la cosa più facile al mondo. Una colpa esterna esiste sempre, è necessario avere molto coraggio per accettare che la colpa

– o meglio la responsabilità – appartiene a noi soltanto. Eppure, te l'ho detto, questo è l'unico modo per andare avanti. Se la vita è un percorso, è un percorso che si svolge sempre in salita.

A quarant'anni ho capito da dove dovevo partire. Capire dove dovevo arrivare è stato un processo lungo, pieno di ostacoli ma appassionante. Sai, adesso dalla televisione, dai giornali, mi capita di vedere, di leggere tutto questo proliferare di santoni: è pieno di gente che da un giorno all'altro si mette a seguire i loro dettami. A me fa paura il dilagare di tutti questi maestri, le vie che propugnano per trovare la pace in sé, l'armonia universale. Sono le antenne di un grande smarrimento generale. In fondo –

e neanche tanto in fondo – siamo alla fine di un millennio, anche se le date sono una pura convenzione intimorisce lo stesso, tutti si aspettano che succeda qualcosa di tremendo, vogliono essere pronti. Allora vanno dai santoni, si iscrivono a scuole per trovare se stessi e dopo un mese di frequenza sono già imbevuti dell'arroganza che contraddistingue i profeti, i falsi profeti. Che grande, ennesima, spaventosa menzogna!

L'unico maestro che esiste, l'unico vero e credibile è la propria coscienza. Per trovarla bisogna stare in silenzio da soli e in silenzio bisogna stare sulla nuda terra, nudi e senza nulla intorno come se si fosse

già morti. In principio non senti niente, l'unica cosa che provi è terrore ma poi, in fondo, lontana, cominci a sentire una voce, è una voce tranquilla e forse all'inizio con la sua banalità ti irrita. È strano, quando ti aspetti di sentire le cose più grandi davanti a te compaiono le piccole. Sono così piccole e così ovvie che ti verrebbe da gridare: «Ma come, tutto qui?» Se la vita ha un senso – ti dirà la voce – questo senso è la morte, tutte le altre cose vorticano solo intorno. Bella scoperta, osserverai a questo punto, bella macabra scoperta, che si deve morire lo sa anche l'ultimo degli uomini. È vero, con il pensiero lo sappiamo tutti, ma saperlo con il pensiero è una cosa, saperlo con il cuore è un'altra, completamente diversa.

Quando tua madre si scagliava contro di me con la sua arroganza le dicevo: «Mi fai male al cuore». Lei rideva. «Non essere ridicola», mi rispondeva, «il cuore è un muscolo, se non corri non può far male.»

Tante volte ho provato a parlarle quando era ormai abbastanza grande per capire, a spiegarle il percorso che mi aveva portato ad allontanarmi da lei. «È vero», le dicevo, «a un certo punto della tua infanzia ti ho trascurata, ho avuto una grave malattia. Se avessi continuato a occuparmi di te da malata forse sarebbe stato peggio. Adesso sto bene», le dicevo,

«possiamo parlarne, discutere, ricominciare da capo.» Lei non voleva saperne, «adesso sono io a stare male», diceva e si rifiutava di parlare.

Odiava la serenità che stavo raggiungendo, faceva tutto il possibile per incrinarla, per trascinarmi nei suoi piccoli inferni quotidiani. Aveva deciso che il suo stato era l'infelicità. Si era asserragliata in se stessa perché niente potesse offuscare l'idea che si era fatta della sua vita. Razionalmente, certo, diceva di voler essere felice, ma in realtà – nel profondo – a sedici, diciassette anni aveva già chiuso qualsiasi possibilità di cambiamento.

Mentre io lentamente mi aprivo a una dimensione diversa lei stava lì immobile con le mani sulla testa e aspettava che le cose le cadessero sopra.

La mia nuova tranquillità la irritava, quando vedeva i Vangeli sul mio comodino, diceva: «Di cosa ti devi consolare?»

Quando è morto Augusto non ha neanche voluto venire al suo funerale.

Negli ultimi anni era stato colpito da una forma non lieve di arteriosclerosi, girava per casa parlando come un bambino e lei non lo sopportava. «Cosa vuole questo signore?» gridava non appena lui, ciabattando, compariva sulla porta di una stanza. Quando se ne è andato lei aveva sedici anni, da quando ne aveva quattordici non lo chiamava più papà. È morto in ospedale un pomeriggio di novembre. L'avevano ricoverato il giorno prima per un attacco di cuore. Ero nella stanza con lui,

non aveva addosso il pigiama ma un camice bianco legato sulla schiena con dei lacci. Secondo i dottori il peggio era già passato.

L'infermiera aveva appena portato la cena quando lui, come se avesse visto qualcosa, si è alzato all'improvviso e ha fatto tre passi verso la finestra. «Le mani di Ilaria», ha detto con lo sguardo opaco, «così non ce l'ha nessun altro in famiglia», poi è tornato a letto ed è morto. Ho guardato fuori dalla finestra. Cadeva una pioggia sottile. Gli ho accarezzato la testa.

Per diciassette anni, senza mai far trasparire niente, si era tenuto quel segreto dentro.

È mezzogiorno, c'è il sole e la neve si sta sciogliendo. Sul prato davanti casa a chiazze compare l'erba gialla, dai rami degli alberi una dopo l'altra cadono gocce d'acqua. È strano, ma con la morte di Augusto mi sono resa conto che la morte in sé, da sola, non porta lo stesso tipo di dolore. C'è un vuoto improvviso – il vuoto è sempre uguale – ma è proprio in questo vuoto che prende forma la diversità del dolore. Tutto quello che non si è detto in questo spazio si materializza e si dilata, si dilata e si dilata ancora.

È un vuoto senza porte, senza finestre, senza vie di uscita, ciò che resta lì sospeso ci resta per sempre, sta sulla tua testa, con te, intorno a te, ti avvolge e ti confonde come una nebbia spessa. Il fatto che Augusto sapesse di Ilaria e non me l'avesse mai detto mi aveva gettato in uno sconforto gravissimo. A quel punto avrei voluto parlargli di Ernesto, di cosa era stato per me, avrei voluto parlargli di Ilaria, avrei voluto discutere con lui di tantissime cose ma non era più possibile.

Adesso forse puoi capire ciò che ti ho detto all'inizio: i morti pesano non tanto per assenza quanto per ciò che – tra loro e noi – non è stato detto.

Come dopo la scomparsa di Ernesto, così anche dopo la scomparsa di Augusto avevo cercato conforto nella religione. Da poco avevo conosciuto un gesuita tedesco, aveva appena qualche anno più di me. Accortosi del mio disagio per le funzioni religiose, dopo qualche incontro mi propose di vederci in un luogo diverso dalla chiesa.

Siccome entrambi amavamo camminare, decidemmo di fare delle passeggiate assieme. Veniva a prendermi tutti i mercoledì pomeriggio con indosso gli scarponi e un vecchio zaino, la sua faccia mi piaceva molto, aveva il volto scavato e serio di un uomo cresciuto tra i monti. All'inizio il suo essere prete mi intimoriva, ogni cosa che gli raccontavo gliela raccontavo a metà, avevo paura di provocare scandalo, di attirarmi condanne, giudizi impietosi. Poi un giorno, mentre ci riposavamo seduti su

una pietra mi disse: «Fa male a se stessa, sa. Soltanto a se stessa». Da quel momento smisi di mentire, gli aprii il cuore come dopo la scomparsa di Ernesto non l'avevo fatto con nessun altro. Parlando e parlando, molto presto mi dimenticai che avevo di fronte un uomo di chiesa.

Contrariamente agli altri preti che avevo incontrato, non conosceva parole di condanna né di consolazione, tutto il dolciastro dei messaggi più scontati gli era estraneo. C'era una specie di durezza in lui che a prima vista poteva sembrare respingente. «Solo il dolore fa crescere», diceva,

«ma il dolore va preso di petto, chi svicola o si compiange è destinato a perdere.»

Vincere, perdere, i termini guerreschi che impiegava servivano a descrivere una lotta silenziosa, tutta interiore. Secondo lui il cuore dell'uomo era come la terra, metà illuminato dal sole e metà in ombra.

Neanche i santi avevano luce dappertutto. «Per il semplice fatto che c'è il corpo», diceva, «siamo comunque ombra, siamo come le rane, anfibi, una parte di noi vive quaggiù in basso e l'altra tende all'alto. Vivere è soltanto essere coscienti di questo, saperlo, lottare perché la luce non scompaia sopraffatta dall'ombra. Diffidi di chi è perfetto», mi diceva, «di chi ha le soluzioni pronte in tasca, diffidi di tutto tranne di quello che le dice il suo cuore.» Io lo ascoltavo affascinata, non avevo mai trovato nessuno che esprimesse così bene ciò che si agitava da tempo in me senza riuscire a venir fuori. Con le sue parole i miei pensieri prendevano una forma, a un tratto c'era una via davanti, percorrerla non mi sembrava più impossibile.

Ogni tanto nello zaino portava qualche libro che gli era particolarmente caro; quando ci fermavamo me ne leggeva dei passaggi con la sua voce chiara e severa. Assieme a lui ho scoperto le preghiere dei monaci russi, l'orazione del cuore, ho compreso passi del Vangelo e della Bibbia che fino allora mi erano sembrati oscuri. In tutti gli anni passati dalla scomparsa di Ernesto avevo sì fatto un cammino interiore, ma era un cammino limitato alla conoscenza di me stessa. In quel cammino a un certo punto mi ero trovata davanti a un muro, sapevo che oltre quel muro la strada andava avanti più luminosa e più larga ma non sapevo come fare a superarlo. Un giorno, durante un acquazzone improvviso, ci riparammo nell'ingresso di una grotta. «Come si fa ad avere fede?» gli chiesi là dentro.

«Non si fa, viene. Lei ce l'ha già ma il suo orgoglio le impedisce di ammetterlo, si pone troppe domande, dov'è semplice complica. In realtà ha soltanto una paura tremenda. Si lasci andare e ciò che ha da venire verrà.»

Da quelle passeggiate tornavo a casa sempre più confusa, più incerta.

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