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A sostegno della loro tesi tua madre e le sue amiche citavano il mondo animale: «Le femmine», dicevano, «incontrano i maschi soltanto al momento dell'accoppiamento, poi ognuno va per la sua strada e i cuccioli restano con la madre». Se questo sia vero o meno non sono in grado di verificarlo. So però che noi siamo esseri umani, ognuno di noi nasce con una faccia diversa da tutte le altre e questa faccia ce la portiamo dietro per tutta la vita. Un'antilope nasce con il muso di antilope, un leone con quello di leone, sono uguali identici a tutti gli altri animali della loro specie. In natura l'aspetto resta sempre lo stesso, mentre il volto ce l'ha l'uomo e nessun altro. Il volto, capisci? Nel volto c'è tutto. C'è la tua storia, ci sono tuo padre, tua madre, i tuoi nonni e i bisnonni, magari anche uno zio lontano di cui non si ricorda più nessuno. Dietro al volto c'è la personalità, le cose buone e quelle meno buone che hai ricevuto dai tuoi antenati. Il volto è la nostra prima identità, ciò che ci permette di sistemarci nella vita dicendo: ecco, sono qui. Così, quando verso i tredici, quattordici anni, hai cominciato a trascorrere ore intere davanti allo specchio, ho capito che era proprio quello che stavi cercando. Guardavi certo i brufoli e i punti neri, o il naso all'improvviso troppo grande, ma anche qualcos'altro. Sottraendo ed eliminando i lineamenti della tua famiglia materna, cercavi di farti un'idea sul volto dell'uomo che ti aveva messo al mondo. La cosa su cui tua madre e le sue amiche non avevano riflettuto abbastanza era proprio questo: che un giorno il figlio, osservandosi allo specchio, avrebbe capito che dentro di lui c'era qualcun altro e che – di questo qualcun altro – avrebbe voluto sapere tutto. Ci sono persone che inseguono anche per tutta la vita il volto della propria madre, del proprio padre.

Ilaria era convinta che il peso della genetica nello sviluppo di una vita fosse pressoché nullo. Per lei le cose importanti erano l'educazione,

l'ambiente, il modo di crescere. Io non condividevo questa sua idea, per me i due fattori andavano di pari passo: metà l'ambiente, metà ciò che abbiamo dentro di noi fin dalla nascita.

Fino a che non sei andata a scuola non ho avuto nessun problema, non ti interrogavi mai su tuo padre e io mi guardavo bene dal parlartene. Con l'ingresso nelle elementari, grazie alle compagne e a quei temi malefici che davano le maestre, improvvisamente ti sei accorta che nella tua vita di tutti i giorni mancava qualcosa. Nella tua classe c'erano naturalmente molti figli di separati, situazioni irregolari, ma nessuno, riguardo al padre, aveva quel vuoto totale che avevi tu. Come potevo spiegarti, all'età di sei anni, di sette, quello che aveva fatto tua madre? E poi, in fondo, anch'io non ne sapevo niente, tranne che eri stata concepita laggiù, in Turchia. Così, per inventare una storia appena un po' credibile, ho sfruttato l'unico dato certo, il paese d'origine.

Avevo comprato un libro di fiabe orientali e ogni sera te ne leggevo una.

Sulla base di quelle, ne avevo inventata una apposta per te, te la ricordi ancora? Tua madre era una principessa e tuo padre un principe della Mezzaluna. Come tutti i principi e le principesse si amavano al punto tale da essere pronti a morire uno per l'altro. Di questo amore però a corte molti erano invidiosi. Il più invidioso di tutti era il Gran Visir, un uomo potente e malefico. Era stato proprio lui a scagliare un sortilegio terribile sulla principessa e sulla creatura che portava in grembo. Per fortuna il principe era stato avvertito da un servo fedele e così tua madre di notte, vestita con i panni di una contadina, aveva lasciato il castello e si era rifugiata quassù, nella città dove tu hai visto la luce.

«Sono figlia di un principe?» mi chiedevi allora con occhi raggianti.

«Certo», ti rispondevo io, «però è un segreto segretissimo, un segreto che non devi dire a nessuno.» Cosa speravo di fare con quella bizzarra bugia?

Niente, solo regalarti qualche anno in più di serenità. Sapevo che un giorno avresti smesso di credere alla mia stupida fiaba. Sapevo anche che quel giorno, molto probabilmente, avresti cominciato a detestarmi. Tuttavia mi era assolutamente impossibile non raccontartela. Anche raccogliendo tutto il mio poco coraggio, non sarei mai riuscita a dirti: «Ignoro chi sia tuo padre, forse lo ignorava persino tua madre».

Erano gli anni della liberazione sessuale, l'attività erotica veniva considerata come una normale funzione del corpo: andava fatta ogni volta che se ne aveva voglia, un giorno con uno, un giorno con l'altro. Ho visto comparire al fianco di tua madre decine di giovanotti, non ne ricordo uno

solo che sia durato più di un mese. Da questa precarietà amorosa Ilaria, già instabile di per sé, era rimasta travolta più di altri. Anche se non le ho mai impedito nulla, né mai l'ho criticata in alcun modo, ero piuttosto turbata da questa improvvisa libertà nei costumi. Non era tanto la promiscuità a colpirmi, quanto il grande impoverimento dei sentimenti. Caduti i divieti e l'unicità della persona, era caduta anche la passione. Ilaria e le sue amiche mi sembravano delle ospiti di un banchetto afflitte da un forte raffreddore, per educazione mangiavano tutto quello che veniva loro offerto senza però sentirne il gusto: carote, arrosti e bigné per loro avevano lo stesso sapore.

Nella scelta di tua madre c'entrava certo la nuova libertà di costumi, ma forse c'era anche lo zampino di qualcos'altro. Quante cose sappiamo del funzionamento della mente? Molte, ma non tutte. Chi può dire allora se lei, in qualche luogo oscuro dell'inconscio, non abbia intuito che quell'uomo che le stava davanti non era suo padre? Molte inquietudini, molte instabilità non le venivano forse da questo? Finché lei era piccola, finché era adolescente e ragazza non mi sono mai posta questa domanda, la finzione in cui l'avevo fatta crescere era perfetta. Ma quando è tornata da quel viaggio, con la pancia di tre mesi, allora tutto mi è tornato in mente.

Non si sfugge alla falsità, alle bugie. O meglio, si può sfuggire per un po', poi, quando meno ce lo si aspetta, riaffiorano, non sono più docili come nel momento in cui le hai dette, apparentemente innocue, no; nel periodo di lontananza si sono trasformate in orribili mostri, in orchi mangiatutto.

Le scopri e, un secondo dopo, vieni travolto, divorano te e tutto quello che ti sta intorno con un'avidità tremenda. Un giorno, a dieci anni, sei tornata da scuola piangendo. «Bugiarda!» mi hai detto e subito ti sei chiusa nella tua stanza. Avevi scoperto la menzogna della fiaba. Bugiarda potrebbe essere il titolo della mia autobiografia. Da quando sono nata ho detto una sola bugia. Con essa ho distrutto tre vite.

4 dicembre

La merla è ancora davanti a me sul tavolo. Ha un po' meno appetito dei giorni scorsi. Invece di chiamarmi senza sosta, sta ferma al suo posto, non sporge più la testa dal buco della scatola, vedo spuntare appena le piume della sommità del capo. Questa mattina, nonostante il freddo, sono andata al vivaio con i signori Razman. Sono rimasta indecisa fino all'ultimo momento, la temperatura era tale da scoraggiare persino un orso e poi, in

una nicchia scura del mio cuore, c'era una voce che mi diceva che te ne importa di piantare altri fiori? Ma mentre formavo il numero dei Razman per disdire l'impegno, ho visto dalla finestra i colori spenti del giardino e mi sono pentita del mio egoismo. Forse io non vedrò un'altra primavera, ma tu altre ne vedrai di certo.

Che disagio in questi giorni! Quando non scrivo, mi aggiro per le stanze senza trovare pace in nessun posto. Non c'è una sola attività, delle poche che sono in grado di fare, che mi consenta di avvicinarmi a uno stato di quiete, di distogliere per un attimo i pensieri dai ricordi tristi. Ho l'impressione che il funzionamento della memoria somigli un po' a quello del congelatore. Hai in mente quando tiri fuori un cibo lasciato a lungo là dentro? All'inizio è rigido come una mattonella non ha odore, non ha sapore, è coperto da una patina bianca; appena lo metti sul fuoco, però, piano piano riprende la sua forma il suo colore, riempie la cucina del suo aroma. Così i ricordi tristi sonnecchiano per tanto tempo in una delle innumerevoli caverne del ricordo, stanno lì anche per anni, per decenni, per tutta una vita. Poi, un bel giorno, tornano in superficie, il dolore che li aveva accompagnati è di nuovo presente, intenso e pungente come lo era quel giorno di tanti anni fa.

Ti stavo raccontando di me, del mio segreto. Ma per raccontare una storia bisogna partire dall'inizio, e l'inizio sta nella mia giovinezza, nell'isolamento un po' anomalo nel quale ero cresciuta e continuavo a vivere. Ai miei tempi, l'intelligenza per una donna era una dote assai negativa ai fini del matrimonio; per i costumi dell'epoca una moglie non doveva essere altro che una fattrice statica e adorante. Una donna che facesse domande, una moglie curiosa, inquieta, era l'ultima cosa da augurarsi. Per questo la solitudine della mia giovinezza è stata veramente grande. A dire il vero, verso i diciotto-vent'anni, dato che ero carina e anche piuttosto benestante, avevo nugoli di spasimanti intorno a me.

Appena dimostravo di saper parlare però, appena aprivo loro il cuore con i pensieri che vi si agitavano dentro, intorno a me si formava il vuoto.

Naturalmente avrei anche potuto stare zitta e fingermi quello che non ero ma purtroppo – o per fortuna – nonostante l'educazione avuta una parte di me era ancora viva e quella parte si rifiutava di mostrarsi falsa.

Terminato il liceo, come sai, non proseguii gli studi perché mio padre si oppose. Si trattò di una rinuncia molto difficile per me. Proprio per questo ero assetata di sapere. Appena un giovanotto dichiarava di studiare medicina lo bersagliavo di domande, volevo sapere tutto. Così facevo

anche con i futuri ingegneri, con i futuri avvocati. Questo mio comportamento disorientava molto, sembrava che mi interessasse più l'attività che la persona, e così forse era effettivamente. Quando parlavo con le mie amiche, con le mie compagne di scuola, avevo la sensazione di appartenere a mondi distanti anni luce. Il grande spartiacque tra me e loro era la malizia femminile. Tanto io ne ero completamente priva, altrettanto loro l'avevano sviluppata alla massima potenza. Dietro l'apparente arroganza, dietro l'apparente sicurezza, gli uomini sono estremamente fragili, ingenui; hanno al loro interno delle leve molto primitive, basta premerne una per farli cadere nella padella come pesciolini fritti. Io l'ho capito abbastanza tardi, ma le mie amiche lo sapevano già allora, a quindici anni, a sedici.

Con talento naturale accettavano bigliettini o li respingevano, ne scrivevano di un tono o dell'altro, davano appuntamenti e non ci andavano, o ci andavano molto tardi. Durante i balli, strusciavano la parte giusta del corpo e, strusciandosi, guardavano l'uomo negli occhi con l'espressione intensa delle giovani cerbiatte. Questa è la malizia femminile, queste sono le lusinghe che portano al successo con gli uomini. Ma io, capisci, ero come una patata, non capivo assolutamente niente di ciò che mi succedeva intorno. Anche se ti può sembrare strano, c'era un profondo senso di lealtà in me e questa lealtà mi diceva che mai e poi mai avrei potuto imbrogliare un uomo. Pensavo che un giorno avrei trovato un giovanotto con il quale avrei potuto parlare fino a notte fonda senza mai stancarmi; parlando e parlando ci saremmo accorti di vedere le cose nello stesso modo, di provare le stesse emozioni. Allora sarebbe nato l'amore, sarebbe stato un amore basato sull'amicizia, sulla stima, non sulla facilità dell'inghippo.

Volevo un'amicizia amorosa e in questo ero molto virile, virile nel senso antico. Era il rapporto paritario, credo, che incuteva terrore ai miei corteggiatori. Così, lentamente, mi ero ridotta al ruolo che di solito spetta alle brutte. Ero piena di amici, ma erano amicizie a senso unico; venivano da me soltanto per confessarmi le loro pene d'amore. Una dopo l'altra, le mie compagne si sposavano. A un certo punto della mia vita mi sembra di non aver fatto altro che andare a matrimoni. Alle mie coetanee nascevano i bambini e io ero sempre la zia nubile, vivevo a casa con i miei genitori ormai quasi rassegnata a restare signorina in eterno. «Ma cosa mai avrai nella testa», diceva mia madre, «possibile che Tizio non ti piaccia e neppure Caio?» Per loro era evidente che le difficoltà che incontravo con l'altro sesso derivavano dalla bizzarria del mio carattere. Mi dispiaceva?

Non lo so.

In verità, non sentivo dentro di me un ardente desiderio di famiglia.

L'idea di mettere al mondo un figlio mi provocava una certa diffidenza.

Avevo sofferto troppo da bambina e temevo di far soffrire altrettanto una creatura innocente. Inoltre, pur vivendo ancora a casa, ero completamente indipendente, padrona di ogni ora delle mie giornate. Per guadagnare un po' di soldi davo ripetizioni di greco e di latino, le mie materie preferite. A parte questo, non avevo altri impegni, potevo passare pomeriggi interi alla biblioteca comunale senza dover rendere conto a nessuno, potevo andare in montagna tutte le volte che ne avevo voglia.

Insomma la mia vita, rispetto a quella delle altre donne, era libera e avevo molta paura di perdere questa libertà. Eppure tutta questa libertà, questa apparente felicità, col passare del tempo la sentivo sempre più falsa, più forzata. La solitudine, che all'inizio mi era sembrata un privilegio, cominciava a pesarmi. I miei genitori stavano diventando vecchi, mio padre aveva avuto un colpo apoplettico e camminava male. Tutti i giorni, tenendolo a braccetto, lo accompagnavo a comprare il giornale, avrò avuto ventisette o ventott'anni. Vedendo la mia immagine riflettersi assieme alla sua nelle vetrine, ad un tratto, mi sono sentita vecchia anch'io e ho capito che corso stava prendendo la mia vita: di lì a poco lui sarebbe morto, mia madre l'avrebbe seguito, sarei rimasta sola in una grande casa piena di libri, per passare il tempo mi sarei messa forse a ricamare oppure a fare acquerelli e gli anni sarebbero volati via uno dopo l'altro. Finché una mattina qualcuno, preoccupato dal non vedermi da un po' di giorni, avrebbe chiamato i pompieri, i pompieri avrebbero sfondato la porta e avrebbero trovato il mio corpo disteso sul pavimento. Ero morta e ciò che restava di me non era molto diverso dalla carcassa secca che resta a terra quando muoiono gli insetti.

Sentivo il mio corpo di donna sfiorire senza avere vissuto e questo mi dava una grande tristezza. E poi mi sentivo sola, molto sola. Da quando ero nata non avevo mai avuto nessuno con cui parlare, con cui parlare davvero, intendo. Certo ero molto intelligente, leggevo molto, come diceva mio padre, alla fine, con un certo orgoglio: «Olga non si sposerà mai perché ha troppa testa». Ma tutta questa supposta intelligenza non portava da nessuna parte, non ero capace, chessò, di partire per un grande viaggio, di studiare in profondità qualcosa. Per il fatto di non aver frequentato l'università mi sentivo le ali tarpate. In realtà la causa della mia inettitudine, della incapacità a far fruttare le doti, non veniva da questo. In

fondo Schliemann aveva scoperto Troia da autodidatta, no? Il mio freno era un altro, il piccolo morto dentro, ricordi? Era lui che mi frenava, era lui che mi impediva di andare avanti. Stavo ferma e aspettavo. Cosa? Non ne avevo la minima idea.

Il giorno in cui venne Augusto la prima volta a casa nostra era caduta la neve. Lo ricordo perché la neve da queste parti cade di rado e perché, proprio a causa della neve, quel giorno il nostro ospite era arrivato a pranzo in ritardo. Augusto, come mio padre, si occupava dell'importazione del caffè. Era venuto a Trieste per trattare la vendita della nostra azienda.

Dopo il colpo apoplettico mio padre, privo di eredi maschi, aveva deciso di liberarsi della ditta per trascorrere gli ultimi anni in pace. Al primo impatto Augusto mi era sembrato molto antipatico. Veniva dall'Italia, come si diceva da noi e, come tutti gli italiani aveva una leziosità che trovavo irritante. È strano ma succede spesso che persone importanti della nostra vita, a prima vista non piacciano per niente. Dopo pranzo mio padre si era ritirato a riposare e io ero stata lasciata in salotto a tenere compagnia all'ospite in attesa che giungesse il momento per lui di prendere il treno.

Ero seccatissima. In quell'ora o poco più che siamo rimasti assieme l'ho trattato con sgarberia. A ogni sua domanda rispondevo con un monosillabo, se lui stava zitto, stavo zitta anch'io. Quando, sulla porta, mi ha detto: «Allora la saluto, signorina», gli ho offerto la mano con lo stesso distacco con cui una nobildonna la concede a un uomo di rango inferiore.

«Per essere un italiano è simpatico il signor Augusto», aveva detto la sera a cena mia madre. «È una persona onesta», aveva risposto mio padre.

«Ed è anche bravo in affari.» A quel punto indovina cos'è successo? La mia lingua è partita da sola: «E non ha la fede al dito!» ho esclamato con vivacità improvvisa. Quando mio padre ha risposto: «Infatti, poverino, è vedovo», ero già rossa come un peperone e in profondo imbarazzo con me stessa.

Due giorni dopo, di ritorno da una lezione, trovai nell'ingresso un pacco dalla carta argentata. Era il primo pacco che ricevevo nella mia vita. Non riuscivo a capire chi mai me l'avesse mandato. Infilato sotto la carta c'era un biglietto. Conosce questi dolci? Sotto c'era la firma di Augusto.

La sera, con quei dolci sul comodino, non riuscivo a prendere sonno. Li avrà mandati per cortesia verso mio padre, mi dicevo, e intanto mangiavo un marzapane dietro l'altro. Tre settimane dopo tornò a Trieste, «per affari» disse durante il pranzo, ma invece di ripartire subito, come l'altra

volta, si fermò un po' in città. Prima di congedarsi chiese a mio padre il permesso di portarmi a fare un giro in macchina e mio padre, senza neppure interpellarmi, glielo concesse. Girammo tutto il pomeriggio per le strade della città, lui parlava poco, mi chiedeva notizie dei monumenti e poi stava in silenzio ad ascoltarmi. Mi ascoltava, questo per me era un vero miracolo.

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