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Due anni fa? Avevo avuto una bronchite che stentava ad andarsene, le foglie erano già tutte sull'erba, vorticavano di qua e di là trasportate dal vento. Affacciandomi alla finestra mi era venuta una grande tristezza, il cielo era cupo, c'era una gran aria di abbandono fuori. Ti ho raggiunta in camera, stavi distesa sul letto con le cuffie attaccate alle orecchie. Ti ho chiesto per favore di rastrellare le foglie. Per farmi sentire ho dovuto ripetere la frase diverse volte con voce sempre più forte. Hai alzato le

spalle dicendo: «E perché mai? In natura nessuno le raccoglie, stanno lì a marcire e va bene così». La natura a quel tempo era la tua grande alleata, riuscivi a giustificare ogni cosa con le sue incrollabili leggi. Invece di spiegarti che un giardino è una natura addomesticata, una natura-cane che ogni anno somiglia di più al suo padrone e che proprio come un cane ha bisogno di continue attenzioni, mi sono ritirata in salotto senza aggiungere altro. Poco dopo, quando mi sei passata davanti per andare a mangiare qualcosa dal frigo hai visto che piangevo ma non ci hai fatto caso. Solo all'ora di cena quando sei sbucata un'altra volta dalla stanza e hai detto

«cosa si mangia?» ti sei accorta che ero ancora lì e ancora stavo piangendo. Allora sei andata in cucina e hai cominciato ad armeggiare ai fornelli. «Cosa preferisci», gridavi da stanza a stanza, «un budino di cioccolata o della frittata?» Avevi capito che il mio dolore era vero e cercavi di essere carina, di farmi in qualche modo piacere. La mattina dopo appena aperti gli scuri ti ho vista sul prato, pioveva forte, avevi indosso la cerata gialla e rastrellavi le foglie. Quando verso le nove sei tornata dentro ho fatto finta di niente, sapevo che più di ogni altra cosa detestavi quella parte di te che ti portava a essere buona.

Stamattina guardando desolata le aiuole del giardino, ho pensato che dovrei chiamare proprio qualcuno per eliminare la trasandatezza in cui sono scivolata durante e dopo la malattia. Lo penso da quando sono uscita dall'ospedale eppure non mi risolvo mai a farlo. Con gli anni è nata in me una grande gelosia per il giardino, non rinuncerei per nulla al mondo a innaffiare le dalie, a togliere da un ramo una foglia morta. È strano perché da giovane mi seccava molto occuparmi della sua cura: avere un giardino, più che un privilegio, mi sembrava una seccatura. Era sufficiente infatti che allentassi l'attenzione per un giorno o due perché subito, su quell'ordine così faticosamente raggiunto, si inserisse un'altra volta il disordine e il disordine più di ogni altra cosa mi dava fastidio. Non avevo un centro dentro di me, di conseguenza non sopportavo di vedere all'esterno ciò che avevo al mio interno. Avrei dovuto ricordarmelo quando ti ho chiesto di rastrellare le foglie!

Ci sono cose che si possono comprendere a una certa età e non prima: tra queste il rapporto con la casa, con tutto ciò che ci sta dentro e intorno.

A sessanta, a settant'anni improvvisamente capisci che il giardino e la casa non sono più un giardino e una casa dove vivi per comodità o per caso o per bellezza, ma sono il tuo giardino e la tua casa, ti appartengono come la conchiglia appartiene al mollusco che ci vive dentro. Hai formato la

conchiglia con le tue secrezioni, incisa nelle sue volute c'è la tua storia, la casa-guscio ti avvolge, ti sta sopra, intorno, forse neanche la morte la libererà dalla tua presenza, dalle gioie e dalle sofferenze che hai provato al suo interno.

Ieri sera non avevo voglia di leggere, così ho guardato la televisione. Più che guardarla, a dire il vero, l'ho ascoltata perché dopo neanche mezz'ora di programma mi sono assopita. Sentivo le parole a tratti, un po' come quando in treno si scivola nel dormiveglia e i discorsi degli altri viaggiatori ci giungono intermittenti e privi di senso. Trasmettevano un'inchiesta giornalistica sulle sette di fine millennio. C'erano diverse interviste a santoni veri e finti e dal loro fiume di parole più volte il termine karma è giunto fino alle mie orecchie. Appena l'ho sentito mi è tornato in mente il volto del mio professore di filosofia del liceo.

Era giovane e per quei tempi molto anticonformista. Spiegando Schopenhauer ci aveva parlato un po' delle filosofie orientali e parlando di queste ci aveva introdotto al concetto di karma. Quella volta non avevo prestato molta attenzione alla cosa, la parola e ciò che esprimeva mi erano entrate da un orecchio e uscite dall'altro. Per tanti anni in sottofondo mi è rimasta la sensazione che fosse una specie di legge del taglione, qualcosa del tipo occhio per occhio, dente per dente o chi la fa, l'aspetti. Soltanto quando la direttrice dell'asilo mi chiamò per parlarmi dei tuoi strani comportamenti, il karma – e ciò che a lui è legato – mi tornò in mente.

Avevi messo in subbuglio l'intera scuola materna. Di punto in bianco, durante l'ora dedicata ai racconti liberi, ti eri messa a parlare della tua precedente vita. Le maestre, in un primo momento, avevano pensato a un'eccentricità infantile. Davanti alla tua storia avevano cercato di minimizzare, di farti cadere in contraddizione. Ma tu non c'eri caduta per niente, avevi detto persino parole in una lingua che non era nota a nessuno.

Quando il fatto si ripeté per la terza volta fui convocata dalla direttrice dell'istituto. Per il bene tuo e del tuo futuro, mi consigliarono di farti seguire da uno psicologo. «Con il trauma che ha avuto», diceva, «è normale che si comporti così, che cerchi di evadere la realtà.»

Naturalmente dallo psicologo non ti ho mai portata, mi sembravi una bambina felice, ero più propensa a credere che quella tua fantasia non fosse da imputare a un disagio presente ma a un ordine diverso delle cose.

Dopo il fatto non ti ho mai spinto a parlarmene, né tu, di tua iniziativa, hai sentito il bisogno di farlo. Forse ti sei scordata tutto il giorno stesso in cui l'hai detto davanti alle maestre esterrefatte.

Ho la sensazione che negli ultimi anni sia diventato molto di moda parlare di queste cose: una volta questi erano argomenti per pochi eletti, adesso invece sono sulla bocca di tutti. Tempo fa, su un giornale, ho letto che in America esistono persino dei gruppi di autocoscienza sulla reincarnazione. La gente si riunisce e parla delle esistenze precedenti. Così la casalinga dice: «Nell'Ottocento a New Orleans ero una donna di strada per questo adesso non riesco a essere fedele a mio marito», mentre il benzinaio razzista trova ragione del suo odio nel fatto di essere stato divorato dai bantù durante una spedizione nel secolo sedicesimo. Che tristi stupidaggini! Perdute le radici della propria cultura si cerca di rattoppare con le esistenze passate il grigiore e l'incertezza del presente. Se il ciclo delle vite ha un senso, credo, è certo un senso ben diverso.

Al tempo dei fatti dell'asilo mi ero procurata dei libri, per capirti meglio avevo cercato di saperne qualcosa di più. Proprio in uno di quei saggi c'era scritto che i bambini che ricordano con precisione la loro vita anteriore sono quelli morti precocemente e in modo violento. Certe ossessioni inspiegabili alla luce delle tue esperienze di bambina – il gas che usciva dai tubi, il timore che tutto da un momento all'altro potesse esplodere – mi facevano propendere per questo tipo di spiegazione. Quand'eri stanca o in ansia o nell'abbandono del sonno venivi presa da terrori irragionevoli. Non era l'uomo nero a spaventarti né le streghe né i lupi mannari, ma il timore improvviso che da un momento all'altro l'universo delle cose venisse attraversato da una deflagrazione. Le prime volte, appena comparivi terrorizzata nel cuore della notte nella mia stanza mi alzavo e con parole dolci ti riaccompagnavo nella tua. Lì, distesa nel letto, tenendomi la mano volevi che ti raccontassi delle storie che finivano bene. Per timore che dicessi qualcosa di inquietante mi descrivevi prima la trama per filo e per segno, io non facevo altro che ripetere pedissequamente le tue istruzioni.

Ripetevo la fiaba una, due, tre volte: quando mi alzavo per tornare nella mia stanza, convinta che ti fossi calmata, sulla porta mi giungeva la tua voce flebile: «Va così?» chiedevi, «è vero, finisce sempre così?» Allora tornavo indietro, ti baciavo sulla fronte e baciandoti dicevo: «Non può finire in nessun altro modo, tesoro, te lo giuro».

Qualche altra notte invece, pur essendo contraria al fatto che dormissi con me – non fa bene ai bambini dormire con i vecchi – non avevo coraggio di rimandarti nel tuo letto. Appena sentivo la tua presenza accanto al comodino, senza voltarmi ti rassicuravo: «È tutto sotto controllo, non esplode niente, torna pure nella tua stanza». Poi fingevo di

scivolare in un sonno immediato e profondo. Sentivo allora il tuo respiro leggero per un po' immobile, dopo qualche secondo il bordo del letto cigolava debolmente, con movimenti cauti mi scivolavi accanto e ti addormentavi esausta come un topolino che dopo un grande spavento finalmente raggiunge il caldo della tana. All'alba, per stare al gioco, ti prendevo in braccio, tiepida, abbandonata, e ti riportavo a finire il sonno in camera tua. Al risveglio era rarissimo che ti ricordassi qualcosa, quasi sempre eri convinta di aver trascorso tutta la notte nel tuo letto.

Quando questi attacchi di panico ti prendevano durante il giorno ti parlavo con dolcezza. «Non vedi com'è forte la casa», ti dicevo, «guarda come sono grossi i muri, come vuoi che possano esplodere?» Ma i miei sforzi per rassicurarti erano assolutamente inutili, con gli occhi sbarrati continuavi a osservare il vuoto davanti a te ripetendo: «Tutto può esplodere». Non ho mai smesso di interrogarmi su questo tuo terrore.

Cos'era l'esplosione? Poteva essere il ricordo di tua madre, della sua fine tragica e improvvisa? Oppure apparteneva a quella vita che con insolita leggerezza avevi raccontato alle maestre dell'asilo? O erano le due cose assieme mischiate in qualche luogo irraggiungibile della tua memoria?

Chissà. Nonostante ciò che si dice, credo che nella testa dell'uomo ci siano ancora più ombre che luce. Nel libro che avevo comprato quella volta comunque c'era anche scritto che i bambini che ricordano altre vite sono molto più frequenti in India e in Oriente, nei paesi in cui il concetto stesso è tradizionalmente accettato. Non stento proprio a crederlo. Pensa un po' se un giorno io fossi andata da mia madre e senza alcun preavviso avessi cominciato a parlare in un'altra lingua oppure le avessi detto: «Non ti sopporto, stavo molto meglio con la mia mamma nell'altra vita». Puoi stare sicura che non avrebbe aspettato neanche un giorno per rinchiudermi in una casa per lunatici.

Esiste uno spiraglio per liberarsi dal destino che impone l'ambiente di origine, da ciò che i tuoi avi ti hanno tramandato per la via del sangue?

Chissà. Forse nel susseguirsi claustrofobico delle generazioni a un certo punto qualcuno riesce a intravedere un gradino un po' più alto e con tutte le sue forze cerca di arrivarci. Spezzare un anello, far entrare nella stanza aria diversa, è questo, credo, il minuscolo segreto del ciclo delle vite.

Minuscolo ma faticosissimo, pauroso per la sua incertezza.

Mia madre si è sposata a sedici anni, a diciassette mi ha partorito. In tutta la mia infanzia, anzi, in tutta la mia vita, non le ho mai visto fare un solo gesto affettuoso. Il suo matrimonio non era stato d'amore. Nessuno

l'aveva costretta, si era costretta da sola perché, più di ogni altra cosa, lei, ricca ma ebrea e per di più convertita, ambiva a possedere un titolo nobiliare. Mio padre, più anziano di lei, barone e melomane, si era invaghito delle sue doti di cantante. Dopo aver procreato l'erede che il buon nome richiedeva, hanno vissuto immersi in dispetti e ripicche fino alla fine dei loro giorni. Mia madre è morta insoddisfatta e rancorosa, senza mai essere sfiorata dal dubbio che almeno qualche colpa fosse sua.

Era il mondo a essere crudele perché non le aveva offerto delle scelte migliori. Io ero molto diversa da lei e già a sette anni, passata la dipendenza della prima infanzia, ho cominciato a non sopportarla.

Ho sofferto molto a causa sua. Si agitava in continuazione e sempre e soltanto per delle cause esterne. La sua presunta «perfezione» mi faceva sentire cattiva e la solitudine era il prezzo della mia cattiveria. All'inizio facevo anche dei tentativi per provare a essere come lei, ma erano tentativi maldestri che naufragavano sempre. Più mi sforzavo, più mi sentivo a disagio. La rinuncia di sé conduce al disprezzo. Dal disprezzo alla rabbia il passo è breve. Quando capii che l'amore di mia madre era un fatto legato alla sola apparenza, a come dovevo essere e non a com'ero davvero, nel segreto della mia stanza e in quello del mio cuore cominciai a odiarla.

Per sfuggire a questo sentimento mi rifugiai in un mondo tutto mio. La sera, nel letto, coprendo il lume con uno straccio leggevo libri di avventura fino a ore piccole. Mi piaceva molto fantasticare. Per un periodo ho sognato di fare la piratessa, vivevo nel mare della Cina ed ero una piratessa molto particolare, perché rubavo non per me stessa ma per dare tutto ai poveri. Dalle fantasie banditesche passavo a quelle filantropiche, pensavo che dopo una laurea in medicina, sarei andata in Africa a curare i negretti.

A quattordici anni ho letto la biografia di Schliemann e leggendola ho capito che mai e poi mai avrei potuto curare le persone perché la mia unica vera passione era l'archeologia. Di tutte le altre infinite attività che ho immaginato di intraprendere credo che questa fosse la sola davvero mia.

E infatti, per realizzare questo sogno, ho combattuto la prima e unica battaglia con mio padre: quella per andare al liceo classico. Non ne voleva sentire parlare, diceva che non serviva a niente, che, se proprio volevo studiare, era meglio che imparassi le lingue. Alla fine, però, la spuntai. Nel momento in cui varcai il portone del ginnasio, ero assolutamente certa di aver vinto. Mi illudevo. Quando alla fine degli studi superiori gli comunicai la mia intenzione di fare l'università a Roma, la sua risposta fu perentoria: «Non se ne parla neanche». E io, come si usava allora, obbedii

senza neanche fiatare. Non bisogna credere che aver vinto una battaglia significhi aver vinto la guerra. È un errore di giovinezza. Ripensandoci adesso, penso che se avessi lottato ancora, se mi fossi impuntata, alla fine mio padre avrebbe ceduto. Quel suo rifiuto categorico faceva parte del sistema educativo di quei tempi. In fondo non si credevano i giovani capaci di decisioni proprie. Di conseguenza, quando manifestavano qualche volontà diversa, si cercava di metterli alla prova. Visto che avevo capitolato al primo scoglio, per loro era stato più che evidente che non si trattava di una vera vocazione ma di un desiderio passeggero.

Per mio padre, come per mia madre, i figli prima di ogni altra cosa erano un dovere mondano. Tanto trascuravano il nostro sviluppo interiore, altrettanto trattavano con rigidità estrema gli aspetti più banali dell'educazione. Dovevo sedermi dritta a tavola con i gomiti vicino al corpo. Se, nel farlo, dentro di me pensavo soltanto al modo migliore per darmi la morte, non aveva nessuna importanza. L'apparenza era tutto, al di là di essa esistevano soltanto cose sconvenienti.

Così sono cresciuta con il senso di essere qualcosa di simile a una scimmia da addestrare bene e non un essere umano, una persona con le sue gioie, i suoi scoramenti, il suo bisogno di essere amata. Da questo disagio molto presto è nata dentro di me una grande solitudine, una solitudine che con gli anni è diventata enorme, una specie di vuoto pneumatico in cui mi muovevo con i gesti lenti e goffi di un palombaro. La solitudine nasceva anche dalle domande, da domande che mi ponevo e alle quali non sapevo rispondere. Già a quattro, cinque anni mi guardavo intorno e mi chiedevo:

«Perché mi trovo qui? Da dove vengo io, da dove vengono tutte le cose che vedo intorno a me, cosa c'è dietro, sono sempre state qui anche se io non c'ero, ci saranno per sempre?» Mi facevo tutte le domande che si fanno i bambini sensibili quando s'affacciano alla complessità del mondo.

Ero convinta che anche i grandi se le facessero, che fossero capaci di rispondere, invece dopo due o tre tentativi con mia madre e la tata ho intuito non solo che non sapevano rispondere, ma che non se le erano neanche mai poste.

Così si è accresciuto il senso di solitudine, capisci, ero costretta a risolvere ogni enigma con le mie sole forze, più passava il tempo, più mi interrogavo su ogni cosa, erano domande sempre più grandi, sempre più terribili, al solo pensarle facevano spavento.

Il primo incontro con la morte l'ho avuto verso i sei anni. Mio padre possedeva un cane da caccia, Argo; aveva un temperamento mite e

affettuoso ed era il mio compagno di giochi preferito. Per pomeriggi interi lo imboccavo con pappine di fango e di erbe, oppure lo costringevo a fare la cliente della parrucchiera, e lui senza ribellarsi girava per il giardino con le orecchie ornate di forcine. Un giorno, però, proprio mentre gli provavo un nuovo tipo di acconciatura, mi sono accorta che sotto la gola c'era qualcosa di gonfio. Già da alcune settimane non aveva più voglia di correre e di saltare come una volta, se mi mettevo in un angolo a mangiare la merenda, non si piazzava più davanti a sospirare speranzoso.

Una mattina, al ritorno da scuola, non lo trovai ad attendermi al cancello.

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