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Chissà. Chi lo può dire?

Siccome non avevo niente di pronto, ho preparato una salsa di pomodoro. Mentre finiva di cuocersi, ho chiesto a Ilaria se voleva le penne o i fusilli. Da fuori ha risposto «indifferente» e allora ho buttato i fusilli.

Quando ci siamo sedute le ho fatto qualche domanda su di te, domande alle quali lei ha risposto in modo evasivo. Sopra le nostre teste c'era un via vai continuo di insetti. Entravano e uscivano dai fiori, il loro ronzio copriva quasi le nostre parole. A un certo punto, qualcosa di scuro è piombato nel piatto di tua madre. «È una vespa. Uccidila, uccidila!» ha urlato, balzando dalla sedia e ribaltando tutto. Allora io mi sono sporta per controllare, ho visto ch'era un bombo e gliel'ho detto: «Non è una vespa, è un bombo, è innocuo». Dopo averlo allontanato dalla tovaglia, le ho rimesso la pasta nel piatto. Con l'espressione ancora sconvolta si è riseduta

al suo posto, ha preso la forchetta, ci ha giocherellato un po' passandosela da una mano all'altra, poi ha puntato i gomiti sul tavolo e ha detto: «Ho bisogno di soldi». Sulla tovaglia dov'erano caduti i fusilli era rimasta una macchia larga di colore rosso.

La questione dei soldi andava ormai avanti da parecchi mesi. Già prima di Natale dell'anno precedente, Ilaria mi aveva confessato di aver firmato delle carte a favore del suo analista. Davanti alla mia richiesta di maggiori spiegazioni, era sfuggita come sempre. «Delle garanzie», aveva detto, «una pura e semplice formalità.» Questo era il suo atteggiamento terrorista, quando mi doveva dire una cosa la diceva a metà. In questo modo scaricava la sua ansia su di me e, dopo averlo fatto, non mi dava le informazioni necessarie per permettermi di aiutarla. C'era un sottile sadismo in tutto ciò. Oltre al sadismo, una necessità furiosa di essere sempre al centro di qualche preoccupazione. Il più delle volte però, queste sue uscite erano soltanto boutade.

Diceva, ad esempio: «Ho un cancro alle ovaie», e io, dopo una breve e affannosa indagine, scoprivo che era andata soltanto a fare un test di controllo, quel test che fanno tutte le donne. Capisci? Era un po' come la storia di al lupo al lupo. Negli ultimi anni aveva annunciato talmente tante tragedie che io, alla fine, avevo smesso di crederci o ci credevo un po'

meno. Così quando mi aveva detto di aver firmato delle carte non le avevo prestato molta attenzione, né avevo insistito per avere altre notizie. Più di ogni altra cosa, ero stanca di quel gioco al massacro. Anche se avessi insistito, anche se ne fossi venuta a conoscenza prima, sarebbe stato comunque inutile perché quelle carte le aveva già firmate da tempo, senza chiedermi niente.

Il patatrac vero e proprio successe alla fine di febbraio. Soltanto allora venni a sapere che, con quelle carte, Ilaria aveva garantito gli affari del suo medico per un valore di trecento milioni. In quei due mesi la società per la quale aveva firmato la fideiussione era fallita, c'era un buco di quasi due miliardi e le banche avevano cominciato a chiedere di far rientrare il denaro impegnato. A quel punto tua madre era venuta da me a piangere, a domandarmi cosa mai dovesse fare. La garanzia infatti era costituita dalla casa nella quale viveva insieme a te, era quella che le banche volevano indietro. Puoi immaginare il mio furore. A trent'anni passati tua madre non solo non era affatto capace di mantenersi da sola, ma aveva anche messo in gioco l'unico bene in suo possesso, l'appartamento che le avevo intestato al momento della tua nascita. Ero furibonda ma non glielo avevo fatto

vedere. Per non turbarla ulteriormente mi ero finta serena e avevo detto:

«Vediamo cosa si può fare».

Visto che lei era caduta in una totale apatia, avevo cercato un buon avvocato. Mi ero improvvisata detective, avevo raccolto tutte le informazioni che ci sarebbero state utili per vincere la causa con le banche.

Così venni a sapere che già da diversi anni lui le somministrava dei forti psicofarmaci. Durante le sedute, se lei era un po' giù, le offriva del whisky.

Non faceva altro che ripeterle che lei era l'allieva prediletta, la più dotata, e presto avrebbe potuto mettersi in proprio, aprire uno studio dove curare le persone a sua volta. Mi vengono i brividi solo a ripetere queste frasi. Ti rendi conto Ilaria, con la sua fragilità, con la sua confusione, con la sua assoluta mancanza di centro, da un giorno all'altro avrebbe potuto curare le persone. Se non fosse accaduto quel crac, quasi sicuramente sarebbe successo: senza dirmi niente si sarebbe messa a esercitare la stessa arte del suo santone.

Naturalmente non aveva mai osato parlarmi in modo esplicito di questo suo progetto. Quando le chiedevo perché non utilizzasse in alcun modo la sua laurea in lettere, rispondeva con un sorrisetto furbo: «Vedrai che la utilizzerò...»

Ci sono cose molto dolorose a pensarsi. A dirsi, poi, provocano una pena ancora maggiore. In quei mesi impossibili avevo capito una cosa di lei, una cosa che fino a quel momento non mi aveva mai sfiorata e che non so neanche se faccio bene a riferirti; comunque, dato che ho deciso di non nasconderti niente, vuoto il sacco. Ecco, vedi, ad un tratto, avevo capito questo: che tua madre non era per niente intelligente. Ho fatto tanta fatica a comprenderlo, ad accettarlo, un po' perché sui figli ci si inganna sempre, un po' perché con tutto il suo finto sapere, con tutta la sua dialettica, era riuscita molto bene a confondere le acque. Se avessi avuto il coraggio di accorgermene in tempo, l'avrei protetta di più, le avrei voluto bene in modo più fermo. Proteggendola forse sarei riuscita a salvarla.

Questa era la cosa più importante e me ne sono accorta quando ormai non c'era quasi niente da fare. Vista la situazione nel suo complesso, a quel punto l'unica azione possibile da fare era dichiararla incapace di intendere e di volere, intentare un processo per plagio. Il giorno in cui le comunicai che avevamo deciso – con l'avvocato – di intraprendere questa strada, tua madre scoppiò in una crisi isterica. «Lo fai apposta», gridava, «è tutto un piano per portarmi via la bambina.» Dentro di sé però sono sicura che pensava soprattutto a una cosa, e cioè che se fosse stata riconosciuta

incapace di intendere e di volere la sua carriera sarebbe stata bruciata per sempre. Camminava bendata sull'orlo di un baratro e ancora credeva di trovarsi sul prato per fare un picnic. Dopo quella crisi mi ordinò di liquidare l'avvocato e di lasciar perdere. Di sua iniziativa ne consultò un altro e fino a quel giorno dei non-ti-scordar-di-me non mi fece sapere altro.

Capisci il mio stato d'animo quando, puntando i gomiti sul tavolo, mi chiese i soldi? Certo, lo so, sto parlando di tua madre e adesso forse nelle mie parole senti soltanto una vuota crudeltà, pensi che aveva ragione a odiarmi. Ma ricordati quello che ti ho detto all'inizio: tua madre era mia figlia, io ho perso molto più di quello che hai perso tu. Mentre tu della sua perdita sei innocente io no, non lo sono per niente. Se ogni tanto ti sembra che ne parli con distacco, cerca di immaginare quanto grande possa essere il mio dolore, quanto questo dolore sia privo di parole. Così il distacco è solo apparente, è il vuoto pneumatico grazie al quale posso continuare a parlare.

Quando mi domandò di pagare i suoi debiti, per la prima volta nella mia vita le dissi no, assolutamente no. «Non sono una banca svizzera», le risposi, «non ho quella cifra. Anche se l'avessi non te la darei, sei abbastanza grande per essere responsabile delle tue azioni. Avevo una sola casa e te l'ho intestata, se l'hai persa la cosa non mi riguarda più.» A quel punto, si era messa a piagnucolare. Iniziava una frase, la lasciava a metà, ne iniziava un'altra; nel contenuto e nel modo in cui si susseguivano, non riuscivo a scorgere nessun senso, nessuna logica. Dopo una decina di minuti di lamentele era arrivata al suo chiodo fisso: il padre e le sue presunte colpe, prima tra tutte la poca attenzione nei suoi confronti. «Ci vuole un risarcimento, lo capisci o no?» mi gridava con una luce terribile negli occhi. Allora, non so come, esplosi. Il segreto che ormai avevo giurato a me stessa di portare nella tomba mi salì alle labbra. Appena uscito ero già pentita, volevo richiamarlo dentro, avrei fatto qualsiasi cosa per rimangiarmi quelle parole, ma era troppo tardi. Quel «tuo padre non è il tuo vero padre» era già arrivato alle sue orecchie. Il suo volto divenne ancora più terreo. Si alzò lentamente in piedi, fissandomi. «Cosa hai detto?» La sua voce si sentiva appena. Io stranamente ero di nuovo calma.

«Hai sentito bene», le risposi. «Ho detto che tuo padre non era mio marito.»

Come reagì Ilaria? Semplicemente andandosene. Si girò con un'andatura più simile a quella di un robot che a quella di un essere umano e si avviò verso l'uscita del giardino. «Aspetta! Parliamo», le gridai con una voce

odiosamente stridula.

Perché non mi sono alzata, perché non le sono corsa dietro, perché in fondo non ho fatto niente per fermarla? Perché anch'io ero rimasta impietrita dalle mie stesse parole. Cerca di capire, ciò che avevo custodito per tanti anni, e con tanta fermezza, all'improvviso era venuto fuori. In meno di un secondo, come un canarino che all'improvviso trova la porta della gabbia aperta, era volato via e aveva raggiunto l'unica persona che non volevo raggiungesse.

Quel pomeriggio stesso, alle sei, mentre ancora frastornata stavo innaffiando le ortensie, una pattuglia della polizia stradale venne ad avvisarmi dell'incidente.

È sera tardi adesso, ho dovuto fare una pausa. Ho dato da mangiare a Buck e alla merla, ho mangiato io, ho guardato per un po' la televisione. La mia corazza a brandelli non mi consente di sopportare a lungo le emozioni forti. Per andare avanti devo svagarmi, riprendere fiato.

Come sai, tua madre non morì subito, passò dieci giorni sospesa tra la vita e la morte. In quei giorni le fui sempre accanto, speravo che almeno per un momento aprisse gli occhi, che mi fosse data un'ultima possibilità di chiederle perdono. Stavamo sole in una stanzetta piena di macchine, un piccolo televisore diceva che il suo cuore andava ancora avanti, un altro che il suo cervello era quasi fermo. Il medico che si occupava di lei mi aveva detto che, alle volte, i pazienti in quello stato trovano beneficio nel sentire qualche suono che avevano amato. Allora mi ero procurata la sua canzone preferita di quand'era bambina. Con un piccolo mangianastri gliela facevo sentire per ore. In effetti qualcosa le deve essere arrivato perché, già dopo le prime note, l'espressione del suo volto era cambiata, il viso si era disteso e le labbra avevano cominciato a fare i movimenti che fanno i lattanti dopo aver mangiato. Sembrava un sorriso di soddisfazione.

Chissà, forse nella piccola parte del suo cervello ancora attiva era custodita la memoria di un'epoca serena ed era là che si era rifugiata in quel momento. Quella piccola modifica mi aveva riempito di gioia. In questi casi ci si aggrappa a un nonnulla; non mi stancavo di accarezzarle la testa, di ripeterle: «Tesoro devi farcela, abbiamo ancora tutta una vita davanti da vivere assieme, ricominceremo tutto da capo, in modo diverso». Mentre le parlavo, tornava davanti a me un'immagine: aveva quattro o cinque anni, la vedevo aggirarsi per il giardino tenendo per un braccio la sua bambola preferita, le parlava in continuazione. Io ero in cucina, non sentivo la sua

voce. Ogni tanto da qualche punto del prato mi giungeva la sua risata, una risata forte, allegra. Se una volta è stata felice, mi dicevo allora, lo potrà essere ancora. Per farla rinascere bisogna partire da lì, da quella bambina.

Naturalmente, la prima cosa che mi avevano comunicato i medici dopo l'incidente era che, se anche fosse sopravvissuta, le sue funzioni non sarebbero più state quelle di una volta, poteva restare paralizzata oppure cosciente solo in parte. E sai una cosa? Nel mio egoismo materno mi preoccupavo soltanto del fatto che continuasse a vivere. In che modo non aveva nessuna importanza. Anzi, spingerla in carrozzella, lavarla, imboccarla, occuparmi di lei come unico scopo della mia vita, sarebbe stato il modo migliore per espiare interamente la mia colpa. Se il mio amore fosse stato vero, se fosse stato veramente grande, avrei pregato per la sua morte. Alla fine però Qualcuno le volle più bene di me: nel tardo pomeriggio del nono giorno, dal suo volto scomparve quel vago sorriso e morì. Me ne accorsi subito, ero lì accanto, tuttavia non avvertii l'infermiera di turno perché volevo stare ancora un po' con lei. Le carezzai il volto, le strinsi le mani tra le mie come quando era bambina, «tesoro», continuavo a ripeterle, «tesoro». Poi, senza lasciare la sua mano, mi sono inginocchiata ai piedi del letto e ho cominciato a pregare. Pregando ho cominciato a piangere.

Quando l'infermiera mi ha toccato una spalla stavo ancora piangendo.

«Andiamo, venga», mi ha detto, «le do un calmante». Il calmante non l'ho voluto, non volevo che qualcosa attutisse il mio dolore. Sono rimasta lì fino a che l'hanno portata all'obitorio. Poi ho preso un taxi e ti ho raggiunto dall'amica dove eri ospite. La sera stessa eri già a casa mia. «Dov'è la mamma?» mi hai chiesto durante la cena. «La mamma è partita», ti ho detto allora, «è andata a fare un viaggio, un lungo viaggio fino in cielo.»

Con la tua testona bionda hai continuato a mangiare in silenzio. Appena hai finito con voce seria mi hai chiesto: «Possiamo salutarla, nonna?» «Ma certo, amore», ti ho risposto e prendendoti in braccio ti ho portato in giardino. Siamo rimaste a lungo in piedi sul prato mentre tu con la manina facevi ciao ciao alle stelle.

1° dicembre

In questi giorni mi è venuto addosso un gran malumore. A scatenarlo non c'è stato niente di preciso, il corpo è così, ha i suoi equilibri interni, basta

un niente per alterarli. Ieri mattina, quando la signora Razman è venuta con la spesa e mi ha vista nera in volto ha detto che secondo lei la colpa è della luna. La notte scorsa infatti c'era la luna piena. E se la luna può smuovere i mari e far crescere più svelto il radicchio nell'orto perché mai non dovrebbe avere il potere di influire anche sui nostri umori? Di acqua, di gas, di minerali, di cos'altro siamo fatti? Prima di andarsene comunque mi ha lasciato in dono un cospicuo pacco di giornalacci e così ho passato una giornata intera a inebetirmi tra le loro pagine. Ci casco ogni volta!

Appena li vedo mi dico, va bene, li sfoglio un po', non più di mezz'ora e poi vado a fare qualcosa di più serio e importante. Invece ogni volta non mi stacco fino a che non ho letto l'ultima parola. Mi rattristo per la vita infelice della principessa di Monaco, mi indigno per gli amori proletari di sua sorella, palpito per qualsiasi notizia strappacuore che mi venga raccontata con abbondanza di particolari. E poi le lettere! Non smetto di strabiliarmi per quello che la gente ha il coraggio di scrivere! Non sono una vecchia bacchettona, almeno non credo di esserlo, tuttavia non ti nego che certe libertà mi lasciano piuttosto perplessa.

La temperatura oggi si è ulteriormente abbassata. Non sono andata a fare la passeggiata in giardino, avevo paura che l'aria fosse troppo rigida, unita al gelo che mi porto dentro avrebbe potuto spezzarmi come un vecchio ramo ghiacciato. Chissà se mi stai ancora leggendo oppure se, conoscendomi meglio, ti ha preso una ripulsa tale da non poter proseguire la lettura. L'urgenza che in questo momento mi possiede non mi permette deroghe, non posso fermarmi proprio adesso, svicolare. Anche se ho conservato quel segreto per tanti anni, adesso non è più possibile farlo. Ti ho detto, all'inizio che davanti al tuo smarrimento per il fatto di non avere un centro io provavo uno smarrimento simile al tuo, forse anche più grande. So che il tuo riferimento al centro – o meglio, alla mancanza di esso – è strettamente legato al fatto che tu non hai mai saputo chi fosse tuo padre. Tanto mi era stato tristemente naturale dirti dov'era andata tua madre, altrettanto, davanti alle domande su tuo padre, non sono mai stata in grado di rispondere. Come potevo? Non avevo la minima idea di chi fosse. Un'estate Ilaria aveva fatto una lunga vacanza da sola in Turchia, da quella vacanza era tornata in stato interessante. Aveva già passato i trent'anni e a quell'età alle donne, se ancora non hanno figli, prende una strana frenesia, a tutti i costi ne vogliono uno, in che modo e con chi non ha nessuna importanza.

In quel periodo, poi, erano quasi tutte femministe; tua madre con un

gruppo di amiche aveva fondato un circolo. C'erano molte cose giuste in quel che dicevano, cose che condividevo, ma tra queste cose giuste, c'erano anche molte forzature, idee malsane e distorte. Una di queste era che le donne fossero completamente padrone della gestione del loro corpo, e quindi fare un figlio o meno, dipendeva soltanto da loro. L'uomo non era altro che una necessità biologica, e come semplice necessità andava usato.

Tua madre non era stata l'unica a comportarsi così, altre due o tre sue amiche hanno avuto dei figli nello stesso modo. Non è del tutto incomprensibile, sai. La capacità di poter dare la vita dona un senso di onnipotenza. La morte, il buio e la precarietà si allontanano, immetti nel mondo un'altra parte di te, davanti a questo miracolo scompare tutto.

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