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Stavo lì a letto e trattenevo il fiato aspettando che da sotto lo spiraglio, della porta entrassero nella mia stanza. Ad Augusto cercavo di nascondere questo mio stato. La mattina, con il sorriso sulle labbra, gli annunciavo ciò che avrei fatto per pranzo, continuavo a sorridere finché non era uscito

dalla porta. Con lo stesso sorriso stereotipato lo accoglievo al ritorno.

Come il mio matrimonio, anche la guerra era al suo quinto anno, nel mese di febbraio le bombe erano cadute anche su Trieste. Durante l'ultimo attacco la casa della mia infanzia era stata completamente distrutta. L'unica vittima era stato il cavallo da calesse di mio padre, l'avevano trovato in mezzo al giardino privo di due zampe.

A quei tempi non c'era la televisione, le notizie viaggiavano in modo più lento. Che avevamo perso la casa l'ho saputo il giorno dopo, mi aveva telefonato mio padre. Già da come aveva detto «pronto» avevo capito che era accaduto qualcosa di grave, aveva la voce di una persona che da tempo ha smesso di vivere. Senza più un luogo mio dove tornare mi sentii davvero persa. Per due o tre giorni vagai per casa come in trance. Non c'era niente che riuscisse a scuotermi dal torpore, in un'unica sequenza, monotona e monocroma, vedevo svolgersi i miei anni uno dopo l'altro fino alla morte.

Sai qual è un errore che si fa sempre? Quello di credere che la vita sia immutabile, che una volta preso un binario lo si debba percorrere fino in fondo. Il destino invece ha molta più fantasia di noi. Proprio quando credi di trovarti in una situazione senza via di scampo, quando raggiungi il picco di disperazione massima, con la velocità di una raffica di vento tutto cambia, si stravolge, e da un momento all'altro ti trovi a vivere una nuova vita.

Due mesi dopo il bombardamento della casa, la guerra era finita. Io avevo subito raggiunto Trieste, mio padre e mia madre si erano già trasferiti in un appartamento provvisorio con altre persone. C'erano talmente tante cose pratiche di cui occuparsi che dopo solo una settimana mi ero quasi scordata degli anni passati a L'Aquila. Un mese più tardi era arrivato anche Augusto. Doveva riprendere in mano l'azienda acquistata da mio padre, in tutti quegli anni di guerra l'aveva lasciata in gestione e non aveva lavorato quasi per niente. E poi c'erano mio padre e mia madre senza più casa e ormai vecchi davvero. Con una rapidità che mi sorprese, Augusto decise di lasciare la sua città per trasferirsi a Trieste, comprò questo villino sull'altipiano e prima dell'autunno ci venimmo a vivere tutti assieme.

Contrariamente a tutte le previsioni, mia madre fu la prima ad andarsene, morì poco dopo l'inizio dell'estate. La sua tempra caparbia era rimasta minata da quel periodo di solitudine e di paura. Con la sua scomparsa si rifece vivo in me con prepotenza il desiderio di un figlio. Dormivo di

nuovo con Augusto e nonostante questo tra noi, di notte, succedeva poco o niente. Passavo molto tempo seduta in giardino in compagnia di mio padre. Fu proprio lui, durante un pomeriggio assolato, a dirmi: «Al fegato e alle donne, le acque possono fare miracoli».

Due settimane più tardi Augusto mi accompagnò al treno per Venezia.

Lì, nella tarda mattinata, avrei preso un altro treno per Bologna, e dopo aver cambiato un'altra volta, verso sera sarei arrivata a Porretta Terme. A dire il vero credevo poco negli effetti delle terme, se avevo deciso di partire era soprattutto per un grande desiderio di solitudine, sentivo il bisogno di stare in compagnia di me stessa in modo diverso da com'ero stata negli anni passati. Avevo sofferto. Dentro di me quasi ogni parte era morta, ero come un prato dopo un incendio, tutto era nero, carbonizzato.

Soltanto con la pioggia, con il sole, con l'aria, quel poco che era rimasto sotto piano piano avrebbe potuto trovare l'energia per ricrescere.

10 dicembre

Da quando sei andata via non leggo più il giornale, non ci sei tu che lo compri e nessun altro me lo porta. All'inizio provavo un po' di disagio per questa mancanza ma poi, piano piano, il disagio si è trasformato in sollievo. Mi sono ricordata allora del padre di Isaac Singer. Tra tutte le abitudini dell'uomo moderno, diceva, la lettura dei quotidiani è una delle peggiori. Al mattino, nell'attimo in cui l'anima è più aperta, riversa nella persona tutto il male che il mondo ha prodotto nel giorno precedente. Ai suoi tempi non leggere i giornali bastava per salvarsi, oggi non è più possibile; ci sono la radio, la televisione, basta aprirle per un secondo perché il male ci raggiunga, ci entri dentro.

Così è successo questa mattina. Mentre mi vestivo ho sentito al notiziario regionale che hanno dato il permesso ai convogli di profughi di varcare la frontiera. Stavano lì fermi da quattro giorni, non li facevano andare avanti e non potevano più tornare indietro. A bordo c'erano vecchi, malati, donne sole con i loro bambini. Il primo contingente, ha detto lo speaker, ha già raggiunto il campo della Croce Rossa e ricevuti i primi generi di conforto. La presenza di una guerra così vicina e così primordiale provoca in me un grande turbamento. Da quando è scoppiata vivo come con una spina conficcata nel cuore. È un'immagine banale, ma nella sua banalità, rende bene la sensazione. Dopo un anno, al dolore si univa

l'indignazione, mi pareva impossibile che nessuno intervenisse per porre fine a questo eccidio. Poi ho dovuto rassegnarmi: non ci sono pozzi di petrolio lì ma soltanto montagne pietrose. L'indignazione col tempo è diventata rabbia e questa rabbia continua a pulsare dentro di me come un tarlo testardo.

È ridicolo che alla mia età io resti ancora così colpita da una guerra. In fondo sulla terra se ne combattono decine e decine nello stesso giorno, in ottant'anni avrei dovuto formare qualcosa di simile a un callo, un'abitudine. Da quando sono nata l'erba alta e gialla del Carso è stata attraversata da profughi ed eserciti vittoriosi o allo sbando: prima le tradotte dei fanti della grande guerra con lo scoppio delle bombe sull'altipiano; poi lo sfilare dei reduci della campagna di Russia e di Grecia, gli eccidi fascisti e nazisti, le stragi delle foibe; e adesso, ancora una volta il rumore dei cannoni sulla linea di confine, questo esodo di innocenti in fuga dalla grande mattanza dei Balcani.

Qualche anno fa andando in treno da Trieste a Venezia ho viaggiato nello stesso scompartimento di una medium. Era una signora un po' più giovane di me con in testa un cappellino a focaccia. Non sapevo naturalmente che fosse una medium, l'ha svelato lei parlando con la sua vicina.

«Sa», le diceva mentre attraversavamo l'altipiano carsico, «se io cammino qua sopra sento tutte le voci dei morti, non posso fare due passi senza restare assordata. Tutti urlano in modo terribile, più sono morti giovani, più urlano forte.» Poi le spiegò che dove c'era stato un atto di violenza, nell'atmosfera restava qualcosa di alterato per sempre: l'aria diventa corrosa, non è più compatta, e quella corrosione anziché per contrappasso scatenare sentimenti miti, favorisce il compiersi di altri eccessi. Dove si è versato del sangue, insomma, se ne verserà dell'altro e su quell'altro dell'altro ancora. «La terra», aveva detto la medium finendo il discorso, «è come un vampiro, appena assaggia del sangue ne vuole di nuovo, di fresco, sempre di più.»

Per tanti anni mi sono chiesta se questo luogo dove ci siamo trovate a vivere non covi in sé una maledizione, me lo sono chiesta e me lo continuo a chiedere senza riuscire a darmi una risposta. Ti ricordi quante volte siamo andate assieme alla rocca di Monrupino? Nelle giornate di bora trascorrevamo ore intere a osservare il paesaggio, era un po' come stare su un aereo e guardare sotto. La vista era a 360 gradi, facevamo a gara su chi per prima identificava una cima delle Dolomiti, su chi distingueva Grado

da Venezia. Adesso che non mi è più possibile andarci materialmente, per vedere lo stesso paesaggio devo chiudere gli occhi.

Grazie alla magia della memoria compare tutto davanti e intorno a me come se fossi sul belvedere della rocca. Non manca niente, neppure il rumore del vento, gli odori della stagione che ho scelto. Sto lì, guardo i piloni di calcare erosi dal tempo, il grande spazio brullo in cui si esercitano i carri armati, il promontorio scuro dell'Istria tuffato nell'azzurro del mare, guardo tutte le cose intorno e mi chiedo per l'ennesima volta, se c'è una nota stridente, dov'è?

Amo questo paesaggio e quest'amore forse mi impedisce di risolvere la questione, l'unica cosa di cui sono certa è l'influsso dell'aspetto esterno sul carattere di chi vive in questi luoghi. Se sono spesso così aspra e brusca, se lo sei anche tu, lo dobbiamo al Carso, alla sua erosione, ai suoi colori, al vento che lo sferza. Se fossimo nate, chessò, tra le colline dell'Umbria, forse saremmo state più miti, l'esasperazione non avrebbe fatto parte del nostro temperamento. Sarebbe stato meglio? Non lo so, non si può immaginare una condizione che non si è vissuta.

Comunque una piccola maledizione oggi c'è stata, questa mattina, quando sono venuta in cucina, ho trovato la merla esanime tra i suoi stracci. Già negli ultimi due giorni aveva mostrato segni di malessere, mangiava meno e tra un'imboccata e l'altra s'assopiva spesso. Il decesso deve essere avvenuto poco prima dell'alba perché quando l'ho presa in mano la testa le ciondolava da una parte e dall'altra come se all'interno la molla si fosse rotta. Era leggera, fragile, fredda. L'ho accarezzata per un po' prima di avvolgerla in uno straccetto, volevo darle un po' di calore.

Fuori cadeva un fitto nevischio, ho chiuso Buck in una stanza e sono uscita. Non ho più le energie per prendere la vanga e scavare, così ho scelto l'aiuola dalla terra più soffice. Con il piede ho fatto una piccola fossa, ho messo dentro la merla, l'ho ricoperta e prima di rientrare in casa ho detto la preghiera che ripetevamo sempre alla sepoltura dei nostri uccellini. «Signore accogli questa piccolissima vita, come hai accolto tutte le altre.»

Ti ricordi quand'eri bambina, quanti ne abbiamo soccorsi e tentato di salvare? Dopo ogni giornata di vento ne trovavamo uno ferito, erano fringuelli, cince, passeri, merli, una volta persino un crociere. Facevamo di tutto per risanarli ma le nostre cure non sortivano quasi mai esito felice, da un giorno all'altro, senza nessun segno premonitore, li trovavamo morti.

Che tragedia allora quel giorno, anche se era già accaduto tante volte

restavi comunque turbata. A sepoltura avvenuta ti asciugavi il naso e gli occhi con il palmo aperto, poi ti chiudevi nella tua stanza «a fare spazio».

Un giorno mi avevi chiesto come avremmo fatto a trovare la mamma, il cielo era così grande che era facilissimo perdersi. Ti avevo detto che il cielo era una specie di grande albergo, ognuno lassù aveva una stanza e in quella stanza tutte le persone che si erano volute bene, dopo la morte si trovavano di nuovo e stavano assieme per sempre. Per un po' questa mia spiegazione ti aveva rasserenata. Soltanto alla morte del tuo quarto o quinto pesce rosso eri tornata sull'argomento e mi avevi chiesto: «E se non c'è più spazio?» «Se non c'è spazio», ti avevo risposto, «bisogna chiudere gli occhi e dire per un minuto intero "stanza allargati". Allora, subito la stanza diventava più grande.»

Conservi ancora nella memoria queste immagini infantili oppure la tua corazza le ha mandate in esilio? Io me ne sono ricordata solo oggi mentre seppellivo la merla. Stanza allargati, che bella magia! Certo che tra la mamma, i criceti, i passeri, i pesci rossi, la tua stanza deve essere già affollata come gli spalti di uno stadio. Presto ci andrò anch'io, mi vorrai nella tua stanza o ne dovrò prendere in affitto una accanto? Potrò invitare la prima persona che ho amato, potrò finalmente farti conoscere il tuo vero nonno?

Che cosa ho pensato, che cosa ho immaginato in quella sera di settembre, scendendo dal treno alla stazione di Porretta? Assolutamente niente. Si sentiva l'odore dei castagni nell'aria e la mia prima preoccupazione era stata quella di trovare la pensione nella quale avevo prenotato una stanza. Allora ero ancora molto ingenua, ignoravo l'incessante lavorio del destino, se avevo una convinzione era soltanto quella che le cose accadessero unicamente grazie all'uso buono o meno buono della mia volontà. Nell'istante in cui avevo posato i piedi e la valigia sulla pensilina, la mia volontà si era azzerata, non volevo niente, o meglio volevo una sola cosa, starmene in pace.

Tuo nonno l'ho incontrato già la prima sera, mangiava nella sala da pranzo della mia pensione assieme a un'altra persona. A parte un vecchio signore, non c'erano altri ospiti. Stava discutendo in modo piuttosto infervorato di politica, il tono della sua voce mi ha dato subito fastidio.

Durante la cena l'ho fissato un paio di volte con un'espressione piuttosto seccata. Che sorpresa il giorno dopo quando ho scoperto che era proprio lui il medico delle terme! Per una decina di minuti mi ha fatto domande sul

mio stato di salute, al momento di spogliarmi mi è successa una cosa molto imbarazzante, ho cominciato a sudare come se stessi facendo un grande sforzo. Ascoltandomi il cuore ha esclamato: «Ollalà, che spavento!» ed è scoppiato a ridere in maniera piuttosto indisponente. Appena ha cominciato a premere il manometro della pressione, la colonnina di mercurio è subito schizzata ai valori massimi. «Soffre di ipertensione?» mi ha chiesto allora. Ero furibonda con me stessa, cercavo di ripetermi cosa c'è da spaventarsi tanto, è solo un medico che fa il suo lavoro, non è normale né serio che io mi agiti in questo modo. Però, per quanto lo ripetessi, non riuscivo a calmarmi. Sulla porta, dandomi il foglio con le cure, mi ha stretto la mano. «Si riposi, prenda fiato», ha detto, «altrimenti neanche le acque potranno niente.»

La sera stessa, dopo cena, è venuto a sedersi al mio tavolo. Il giorno seguente già passeggiavamo assieme chiacchierando per le strade del paese. Quella vivacità irruenta che all'inizio tanto mi aveva irritato, adesso cominciava a incuriosirmi. In tutto quello che diceva c'era passione, trasporto, era impossibile stargli vicino e non sentirsi contagiati dal calore che emanava ogni sua frase, dal calore del suo corpo.

Tempo fa ho letto su un giornale che, secondo le ultime teorie, l'amore non nasce dal cuore ma dal naso. Quando due persone si incontrano e si piacciono cominciano a inviarsi dei piccoli ormoni di cui non ricordo il nome, questi ormoni entrano dal naso e salgono fino al cervello e lì, in qualche meandro segreto, scatenano la tempesta dell'amore. I sentimenti insomma, concludeva l'articolo, non sono nient'altro che delle invisibili puzze. Che assurda sciocchezza! Chi nella vita ha provato l'amore vero, quello grande e senza parole, sa che queste affermazioni non sono altro che l'ennesimo tiro mancino per cacciare il cuore in esilio. Certo, l'odore della persona amata provoca grandi turbamenti. Ma per provocarli, prima ci deve essere stato qualcos'altro, qualcosa che, sono sicura è molto diverso da una semplice puzza.

Stando vicina a Ernesto in quei giorni per la prima volta nella mia vita ho avuto la sensazione che il mio corpo non avesse confini. Intorno sentivo una sorta di alone impalpabile, era come se i contorni fossero più ampi e quest'ampiezza vibrasse nell'aria a ogni movimento. Sai come si comportano le piante quando non le innaffi per qualche giorno? Le foglie diventano molli, invece di levarsi verso la luce cascano in basso come le orecchie di un coniglio depresso. Ecco, la mia vita negli anni precedenti era stata proprio simile a quella di una pianta senz'acqua, la rugiada della

notte mi aveva dato il nutrimento minimo per sopravvivere ma a parte quello non ricevevo altro, avevo la forza per stare in piedi e basta. È

sufficiente bagnare la pianta una sola volta perché questa si riprenda, perché tiri su le foglie. Così era successo a me la prima settimana. Sei giorni dopo il mio arrivo, guardandomi la mattina allo specchio mi sono accorta di essere un'altra. La pelle era più liscia, gli occhi più luminosi, mentre mi vestivo ho cominciato a cantare, non l'avevo più fatto da quando ero bambina.

Sentendo la storia dall'esterno forse ti verrà naturale pensare che sotto quell'euforia ci fossero delle domande, un'inquietudine, un tormento. In fondo ero una donna sposata, come potevo accettare a cuor leggero la compagnia di un altro uomo? Invece non c'era nessuna domanda, nessun sospetto e non perché fossi particolarmente spregiudicata. Piuttosto perché quello che vivevo riguardava il corpo, soltanto il corpo. Ero come un cucciolo che dopo aver vagato a lungo per le strade d'inverno trova una tana calda, non si domanda niente, sta lì e gode del tepore. Inoltre la stima che avevo del mio fascino femminile era molto bassa, di conseguenza non mi sfiorava neanche l'idea che un uomo potesse provare per me quel tipo di interesse.

La prima domenica, andando a messa a piedi, Ernesto si è accostato alla guida di un'auto. «Dove va?» mi ha chiesto sporgendosi dal finestrino e non appena gliel'ho detto lui ha aperto la portiera dicendo: «Mi creda, Dio è molto più contento se invece di andare in chiesa viene a fare una bella passeggiata nei boschi». Dopo lunghi giri e molte curve siamo arrivati all'inizio di un sentiero che si inoltrava tra i castagni. Io non avevo le scarpe giuste per camminare su una strada sconnessa, inciampavo in continuazione. Quando Ernesto mi ha preso la mano, mi è sembrata la cosa più naturale del mondo. Abbiamo camminato a lungo in silenzio. Nell'aria c'era già l'odore dell'autunno, la terra era umida, sugli alberi molte foglie erano gialle, la luce, passando attraverso, si smorzava in tonalità diverse. A un certo punto, in mezzo alla radura, abbiamo incontrato un castagno enorme. Ricordandomi della mia quercia gli sono andata incontro, prima l'ho accarezzato con una mano, poi vi ho posato una guancia sopra. Subito dopo Ernesto ha posato la testa accanto alla mia. Da quando ci eravamo conosciuti non eravamo mai stati così vicini con gli occhi.

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