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Prima di decidere della tua partenza mi avevi posto un'alternativa. O

vado un anno all'estero, oppure comincio ad andare da uno psicanalista. La mia reazione era stata dura, ricordi? Puoi andare via anche tre anni, ti ho detto, ma da uno psicanalista non ci andrai neanche una volta; non ti permetterei di andarci, neanche se lo pagassi tu. Eri rimasta molto colpita dalla mia reazione così estrema. In fondo, proponendomi lo psicanalista, credevi di propormi un male minore. Anche se non hai protestato in alcun modo, immagino che tu abbia pensato che ero troppo vecchia per capire queste cose o troppo poco informata. Invece ti sbagli. Di Freud io avevo già sentito parlare da bambina. Uno dei fratelli di mio padre era medico e, avendo studiato a Vienna, era entrato prestissimo in contatto con le sue teorie. Ne era entusiasta e ogni volta che veniva a pranzo, cercava di convincere i miei genitori della loro efficacia. «Non mi farai mai credere che se sogno di mangiare degli spaghetti, ho paura della morte», tuonava allora mia madre. «Se sogno gli spaghetti, vuol dire una cosa sola, che ho fame.» A nulla valevano i tentativi dello zio di spiegarle che questa sua caparbietà derivava da una rimozione, che era inequivocabile il suo terrore della morte, perché gli spaghetti altro non erano che vermi, e vermi era quello che un giorno saremmo diventati tutti quanti. A quel punto sai cosa faceva mia madre? Dopo un attimo di silenzio con la sua voce da soprano sbottava: «E allora, se sogno i maccheroni?»

I miei incontri con la psicanalisi, però, non si esauriscono a questo aneddoto infantile. Tua madre si è curata da uno psicanalista o supposto tale per quasi dieci anni, quand'è morta ci stava ancora andando, così, seppur di riflesso, ho avuto modo di seguire giorno dopo giorno l'intero svolgersi del rapporto. All'inizio, a dire il vero, non mi raccontava niente, su queste cose, lo sai, vige il segreto professionale. Quello però che mi ha colpito subito e in senso negativo è stato l'immediato e totale senso di

dipendenza. Già dopo un mese tutta la sua vita ruotava intorno a quell'appuntamento, a quello che succedeva in quell'ora tra lei e quel signore. Gelosia, dirai tu. Forse, è anche possibile, ma non era la cosa principale; quello che mi angustiava era piuttosto il disagio di vederla schiava di una nuova dipendenza, prima la politica e poi il rapporto con quel signore. Ilaria l'aveva conosciuto durante l'ultimo anno di soggiorno a Padova e infatti era proprio a Padova che si recava ogni settimana. Quando mi aveva comunicato questa nuova attività ero rimasta un po' perplessa e le avevo detto: «Credi proprio che sia necessario andare fino laggiù per trovare un buon medico?»

Da un lato la decisione di ricorrere a un medico per uscire dal suo stato di crisi perpetua mi dava una sensazione di sollievo. In fondo, mi dicevo, se Ilaria aveva deciso di domandare aiuto a qualcuno era già un passo avanti; dall'altro però, conoscendo la sua fragilità, ero in ansia per la scelta della persona a cui si era affidata. Entrare nella testa di qualcun altro è sempre un fatto di una delicatezza estrema. «Come l'hai trovato?» le chiedevo allora. «Te l'ha consigliato qualcuno?», ma lei come risposta alzava soltanto le spalle. «Cosa vuoi capire?» diceva troncando la frase con un silenzio di sufficienza.

Sebbene a Trieste vivesse in una casa per conto suo avevamo l'abitudine di vederci per pranzo almeno una volta la settimana. Fin dall'inizio della terapia i nostri dialoghi in queste occasioni erano stati di una grande e voluta superficialità. Parlavamo di cos'era accaduto in città, del tempo; se il tempo ero bello e in città non era successo niente, stavamo quasi completamente zitte.

Già dopo il suo terzo o quarto viaggio a Padova però, mi ero accorta di un cambiamento. Invece di parlare entrambe di niente, era lei a fare domande: voleva sapere tutto del passato, di me, di suo padre, dei nostri rapporti. Non c'era affetto nelle sue domande, curiosità: il tono era quello di un interrogatorio; ripeteva più volte la domanda insistendo su particolari minuscoli, insinuava dubbi su episodi che lei stessa aveva vissuto e ricordava benissimo; non mi sembrava di parlare con mia figlia, in quegli istanti, ma con un commissario che a ogni costo voleva farmi confessare un delitto. Un giorno, spazientita, le dissi: «Sii chiara, dimmi soltanto dove vuoi arrivare». Lei mi guardò con uno sguardo lievemente ironico, prese una forchetta, la batté sul bicchiere e quando il bicchiere fece cling, disse:

«In un posto solo, al capolinea. Voglio sapere quando e perché tu e tuo marito mi avete tarpato le ali».

Quel pranzo fu l'ultimo nel quale acconsentii a sottopormi a quel fuoco di fila di domande; già la settimana seguente per telefono le dissi di venire pure ma a un patto, che tra noi invece di un processo ci fosse un dialogo.

Avevo la coda di paglia? Certo, avevo la coda di paglia, c'erano molte cose di cui avrei dovuto parlare con Ilaria ma non mi sembrava giusto né sano svelare cose così delicate sotto la pressione di un interrogatorio; se fossi stata al suo gioco, invece di inaugurare un rapporto nuovo tra due persone adulte, io sarei stata soltanto e per sempre colpevole e lei per sempre vittima, senza possibilità di riscatto.

Riparlai con lei della sua terapia parecchi mesi dopo. Ormai con il suo dottore faceva dei ritiri che duravano l'intero fine settimana; era molto dimagrita e nei suoi discorsi c'era un che di farneticante che non le avevo mai sentito prima. Le raccontai del fratello di suo nonno, dei suoi primi contatti con la psicanalisi e poi, come se niente fosse le chiesi: «Di che scuola è il tuo analista?» «Di nessuna», rispose lei, «o meglio di una che ha fondato lui da solo.»

Da quel momento, quella che fino allora era stata una semplice ansia divenne una preoccupazione vera e profonda. Riuscii a scoprire il nome del medico e con una breve indagine scoprii anche che non era affatto medico. Le speranze che avevo nutrito all'inizio sugli effetti della terapia crollarono in un solo colpo. Naturalmente non era la mancanza della laurea in sé a insospettirmi, ma la mancanza della laurea unita alla constatazione delle sempre peggiori condizioni di Ilaria. Se la cura fosse valida, pensavo, a una fase iniziale di malessere sarebbe dovuta seguire una di maggiore benessere; lentamente, tra dubbi e ricadute, avrebbe dovuto farsi strada la consapevolezza. Piano piano invece, Ilaria aveva smesso di interessarsi a tutto quello che c'era intorno. Ormai da diversi anni aveva finito i suoi studi e non faceva niente, si era allontanata dai pochi amici che aveva, l'unica sua attività era scrutare i moti interiori con l'ossessione di un entomologo. Il mondo girava intorno a quello che aveva sognato la notte, a una frase che io o suo padre le avevamo detto vent'anni prima. Davanti a questo deterioramento della sua vita mi sentivo completamente impotente.

Soltanto tre estati dopo, per alcune settimane si aprì uno spiraglio di speranza. Poco dopo Pasqua le avevo proposto di fare un viaggio assieme; con mia grande sorpresa invece di rifiutare a priori l'idea, Ilaria, alzando gli occhi dal piatto, aveva detto: «E dove potremmo andare?» «Non lo so», avevo risposto, «dove vuoi tu, ovunque ci venga in mente di andare.»

Il pomeriggio stesso avevamo atteso con impazienza l'apertura delle

agenzie di viaggio. Per settimane le battemmo a tappeto alla ricerca di qualcosa che ci piacesse. Alla fine optammo per la Grecia – Creta e Santorini – alla fine di maggio. Le cose pratiche da fare prima della partenza ci unirono con una complicità mai avuta prima. Lei era ossessionata dalle valigie, dal terrore di dimenticare qualcosa di primaria importanza; per tranquillizzarla le avevo comprato un quadernetto:

«Scrivici sopra tutte le cose che ti servono», le avevo detto, «quando le hai già messe in valigia ci fai una croce accanto».

La sera, al momento di andare a dormire mi rammaricavo di non aver pensato prima che un viaggio assieme era un ottimo modo per provare a ricucire il rapporto. Il venerdì precedente alla partenza Ilaria mi telefonò con voce metallica. Credo si trovasse in una cabina per la strada. «Devo andare a Padova», mi disse, «torno al più tardi martedì sera.» «Devi proprio?» le chiesi, ma aveva già riagganciato.

Fino al giovedì seguente di lei non ebbi altre notizie. Alle due il telefono squillò, il suo tono era indeciso tra la durezza e il rammarico. «Mi dispiace», disse, «ma non vengo più in Grecia.» Aspettava la mia reazione, anch'io la aspettavo. Dopo qualche secondo risposi: «Dispiace molto anche a me. Io comunque ci vado lo stesso». Capì la mia delusione e tentò di darmi delle giustificazioni. «Se parto fuggo da me stessa», sussurrò.

Come puoi immaginare fu una vacanza tristissima, mi sforzavo di seguire le guide, di interessarmi al paesaggio, all'archeologia; in realtà pensavo soltanto a tua madre, a dove stava andando la sua vita.

Ilaria, mi dicevo, somiglia a un contadino che, dopo aver piantato l'orto e aver visto sbucare le prime piantine, viene preso dal timore che qualcosa possa nuocere loro. Allora, per proteggerle dalle intemperie, compra un bel telo di plastica resistente all'acqua e al vento e glielo sistema sopra; per tenere lontani gli afidi e le larve, le irrora con abbondanti dosi di insetticida. È un lavoro senza pause il suo, non c'è momento della notte e del giorno in cui non pensi all'orto e al modo di difenderlo. Poi una mattina, sollevando il telo, ha la brutta sorpresa di trovarle tutte marcite, morte. Se le avesse lasciate libere di crescere, alcune sarebbero morte lo stesso, ma altre sarebbero sopravvissute. Accanto a quelle da lui piantate, portate dal vento e dagli insetti ne sarebbero cresciute delle altre, alcune sarebbero state erbacce e le avrebbe strappate, ma altre, forse, sarebbero diventate dei fiori e con le loro tinte avrebbero rallegrato la monotonia dell'orto. Capisci? Così vanno le cose, ci vuole generosità nella vita: coltivare il proprio piccolo carattere senza vedere più niente di quello che

sta intorno vuol dire respirare ancora ma essere morti.

Imponendo un'eccessiva rigidità alla mente, Ilaria aveva soppresso dentro di sé la voce del cuore. A furia di discutere con lei persino io avevo timore di pronunciare questa parola. Una volta, quand'era adolescente le avevo detto: il cuore è il centro dello spirito. La mattina dopo sul tavolo della cucina avevo trovato il dizionario aperto alla parola spirito, con una matita rossa era sottolineata la definizione: liquido incolore atto a conservare la frutta.

Il cuore ormai fa subito pensare a qualcosa di ingenuo, dozzinale. Nella mia giovinezza era ancora possibile nominarlo senza imbarazzo, adesso invece è un termine che non usa più nessuno. Le rare volte in cui viene citato è soltanto per riferirsi al suo cattivo funzionamento: non è il cuore nella sua interezza ma soltanto un'ischemia coronarica, una lieve sofferenza atriale; ma di lui, del suo essere il centro dell'animo umano, non viene più fatto cenno. Tante volte mi sono interrogata sulla ragione di questo ostracismo. «Chi confida nel proprio cuore è uno stolto», diceva spesso Augusto citando la Bibbia. Perché mai dovrebbe essere stolto?

Forse perché il cuore somiglia a una camera di combustione? Perché c'è del buio là dentro, del buio e del fuoco? La mente è moderna quanto il cuore è antico. Chi bada al cuore – si pensa allora – è vicino al mondo animale, all'incontrollato, chi bada alla ragione è vicino alle riflessioni più alte. E se le cose invece non fossero così, se fosse vero proprio il contrario? Se fosse questo eccesso di ragione a denutrire la vita?

Durante il viaggio di ritorno dalla Grecia avevo preso l'abitudine di passare parte della mattina vicino alla plancia di comando. Mi piaceva sbirciare dentro, guardare il radar e tutte quelle apparecchiature complicate che dicevano dove stavamo andando. Lì, un giorno, osservando le varie antenne che vibravano nell'aria ho pensato che l'uomo somiglia sempre più a una radio capace di sintonizzarsi soltanto su una banda di frequenza.

Succede un po' la stessa cosa con le radioline che trovi in omaggio nei detersivi: sebbene sul quadrante siano disegnate tutte le stazioni, in realtà muovendo il sintonizzatore riesci a riceverne non più di una o due, tutte le altre continuano a ronzare nell'aria. Ho l'impressione che l'uso eccessivo della mente produca più o meno lo stesso effetto: di tutta la realtà che ci circonda si riesce a cogliere soltanto una parte ristretta. E in questa parte spesso impera la confusione perché è tutta piena di parole, e le parole, il più delle volte, invece di condurci in qualche luogo più ampio ci fanno soltanto fare un girotondo.

La comprensione esige il silenzio. Da giovane non lo sapevo, lo so adesso che mi aggiro per la casa muta e solitaria come un pesce nella sua boccia di cristallo. È un po' come pulire un pavimento sporco con una scopa o con uno straccio bagnato: se usi la scopa gran parte della polvere si solleva in aria e ricade sugli oggetti accanto; se invece usi lo straccio inumidito il pavimento resta splendente e liscio. Il silenzio è come lo straccio inumidito, allontana per sempre l'opacità della polvere. La mente è prigioniera delle parole, se un ritmo le appartiene è quello disordinato dei pensieri; il cuore invece respira, tra tutti gli organi è l'unico a pulsare, ed è questa pulsazione che gli consente di entrare in sintonia con pulsazioni più grandi. Qualche volta mi capita, più per distrazione che per altro, di lasciare la televisione accesa per l'intero pomeriggio; anche se non la guardo il suo rumore mi insegue per le stanze e la sera, quando vado a letto sono molto più nervosa del solito stento ad addormentarmi. Il rumore continuo, il fracasso sono una specie di droga, quando ci si è abituati non se ne può fare a meno.

Non voglio andare troppo oltre, non adesso. Nelle pagine che ho scritto oggi è un po' come se avessi preparato una torta mescolando diverse ricette un po' di mandorle e poi la ricotta, dell'uvetta e del rhum, dei savoiardi e del marzapane, cioccolata e fragole insomma una di quelle cose terribili che una volta mi hai fatto assaggiare dicendo che si chiamava nouvelle cuisine. Un pasticcio? Può darsi. Immagino che se le leggesse un filosofo non riuscirebbe a trattenersi dal segnare tutto con la matita rossa come le vecchie maestre. «Incongruente», scriverebbe, «fuori tema, dialetticamente insostenibile.»

Figurati se capitasse poi nelle mani di uno psicologo! Potrebbe scrivere un intero saggio sul rapporto fallito con mia figlia, su tutto ciò che rimuovo. Anche se avessi rimosso qualcosa, ormai che importanza ha?

Avevo una figlia e l'ho persa. È morta schiantandosi con la macchina: lo stesso giorno le avevo rivelato che quel padre che, secondo lei, le aveva causato tanti guai, non era il suo vero padre. Quella giornata è presente davanti a me come la pellicola di un film, solo che invece di muoversi nel proiettore è inchiodata su un muro. Conosco a memoria la sequenza delle scene, di ogni scena conosco il dettaglio. Non mi sfugge niente, sta tutto dentro di me, pulsa nei miei pensieri quando sono sveglia e quando dormo.

Pulserà ancora dopo la mia morte.

La merlotta si è svegliata, a intervalli regolari spunta con la testa dal foro ed emette un pio deciso. «Ho fame», sembra dire, «cosa aspetti a darmi da

mangiare?» Mi sono alzata, ho aperto il frigo, ho guardato se ci fosse qualcosa che andava bene per lei. Visto che non c'era niente, ho preso il telefono per chiedere al signor Walter se avesse dei vermi. Mentre facevo il numero le ho detto: «Beata te, piccolotta, che sei nata da un uovo e dopo il primo volo hai scordato l'aspetto dei tuoi genitori».

30 novembre

Questa mattina poco prima delle nove è arrivato Walter con la moglie e un sacchetto di vermi. È riuscito a procurarseli da un suo cugino con l'hobby della pesca. Erano larve della farina. Assistita da lui, ho estratto delicatamente la merlotta fuori dalla scatola, sotto le morbide piume del petto il suo cuore batteva come pazzo. Con una pinzetta di metallo ho preso i vermi dal piattino e glieli ho offerti. Per quanto glieli sventolassi in modo appetitoso davanti al becco, non ne voleva sapere. «Glielo apra con uno stecchino», mi incitava allora il signor Walter, «lo forzi con le dita», ma io naturalmente non avevo il coraggio di farlo. A un certo punto mi sono ricordata, visti i tanti uccellini che abbiamo allevato assieme, che bisogna stuzzicargli il becco di lato e così ho fatto. E infatti come se dietro ci fosse una molla, la merlotta ha subito spalancato il becco. Dopo tre larve era già sazia. La signora Razman ha messo su un caffè – io non lo posso più fare da quando ho la mano difettosa – e siamo rimasti a parlare un po'

del più e del meno. Senza la loro gentilezza e disponibilità, la mia vita sarebbe ben più difficile. Tra qualche giorno andranno in un vivaio a comprare bulbi e sementi per la primavera prossima. Mi hanno invitata ad andare con loro. Non gli ho detto né sì né no, siamo rimasti d'accordo di sentirci per telefono alle nove di domani.

Quel giorno era l'otto maggio. Avevo trascorso la mattina a curare il giardino, erano fiorite le aquilegie e il ciliegio era coperto di boccioli.

All'ora di pranzo senza essersi annunciata è comparsa tua madre. È arrivata alle mie spalle in silenzio. «Sorpresa!» ha gridato all'improvviso e io per lo spavento ho lasciato cadere il rastrello. L'espressione del suo volto contrastava con l'entusiasmo fintamente gioioso dell'esclamazione. Era gialla e aveva le labbra contratte. Parlando si passava in continuazione le mani tra i capelli, li allontanava dal viso, li tirava, si infilava una ciocca in bocca.

Negli ultimi tempi questo era il suo stato naturale, vedendola così non mi sono preoccupata, almeno non più delle altre volte. Le ho chiesto dov'eri. Mi ha detto che ti aveva lasciata a giocare da un'amica. Mentre andavamo verso casa, da una tasca ha tirato fuori un mazzolino di non-ti-scordar-di-me tutto stropicciato. «È la festa della mamma», ha detto, ed è rimasta immobile a guardarmi con i fiori in mano, senza decidersi a fare un passo. Allora il passo l'ho fatto io, le sono andata vicino e l'ho abbracciata con affetto dicendole grazie. Nel sentire il suo corpo a contatto con il mio sono rimasta turbata. C'era una terribile rigidità in lei, quando l'avevo stretta si era indurita ancora di più. Avevo la sensazione che il suo corpo, dentro, fosse completamente cavo, emanava aria fredda come la emanano le grotte. In quel momento ricordo benissimo di aver pensato a te. Che ne sarà della bambina, mi sono chiesta, con una madre ridotta in queste condizioni? Con il passare del tempo la situazione invece di migliorare peggiorava, ero preoccupata per te, per la tua crescita. Tua madre era molto gelosa e ti portava da me il meno possibile. Voleva preservarti dai miei influssi negativi. Se avevo rovinato lei, non sarei riuscita a rovinare te.

Era ora di pranzo e, dopo l'abbraccio, sono andata in cucina a preparare qualcosa. La temperatura era mite. Abbiamo apparecchiato la tavola all'aperto, sotto il glicine. Ho messo la tovaglia a quadretti verdi e bianchi e, in mezzo al tavolo, un vasetto con i non-ti-scordar-di-me. Vedi? Ricordo tutto con una precisione incredibile per la mia memoria ballerina. Intuivo che sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei vista viva? Oppure, dopo la tragedia, ho cercato di dilatare artificialmente il tempo trascorso assieme?

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