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La mattina in cui partì mi fece recapitare un mazzo di rose rosse. Mia madre era tutta agitata, io fingevo di non esserlo ma per aprire il biglietto e leggerlo attesi parecchie ore. In breve tempo le sue visite divennero settimanali. Tutti i sabati veniva a Trieste e tutte le domeniche ripartiva per la sua città. Ti ricordi cosa faceva il Piccolo Principe per addomesticare la volpe? Andava tutti i giorni davanti alla sua tana e aspettava che lei uscisse. Così, piano piano, la volpe imparò a conoscerlo e a non avere paura. Non solo, imparò anche a emozionarsi alla vista di tutto ciò che le ricordava il suo piccolo amico. Sedotta dallo stesso tipo di tattica, anch'io aspettandolo cominciavo ad agitarmi già dal giovedì. Il processo di addomesticamento era iniziato. Di lì a un mese tutta la mia vita ruotava intorno all'attesa del fine settimana. In poco tempo si era creata tra noi una grande confidenza. Con lui finalmente potevo parlare, apprezzava la mia intelligenza e il mio desiderio di sapere; io in lui apprezzavo la pacatezza, la disponibilità all'ascolto, quel senso di sicurezza e protezione che possono dare a una giovane donna gli uomini più grandi di età.

Ci sposammo con una cerimonia sobria il primo giugno del '40. Dieci giorni dopo l'Italia entrò in guerra. Per ragioni di sicurezza, mia madre si rifugiò in un paesino di montagna, in Veneto, mentre io, con mio marito, raggiunsi L'Aquila.

A te che hai letto la storia di quegli anni soltanto sui libri, che l'hai studiata invece di viverla, sembrerà strano che di tutti i tragici avvenimenti di quel periodo non abbia mai fatto cenno. C'era il fascismo, le leggi razziali, era scoppiata la guerra e io continuavo soltanto a occuparmi delle piccole infelicità personali, dei millimetrici spostamenti della mia anima.

Non credere però che il mio atteggiamento fosse eccezionale, al contrario.

Tranne una piccola minoranza politicizzata, tutti nella nostra città si sono comportati in questo modo. Mio padre, ad esempio, considerava il fascismo una pagliacciata. Quand'era a casa definiva il duce «quel venditore di cocomeri». Poi, però, andava a cena con i gerarchi e restava a parlare con loro fino a tardi. Allo stesso modo io trovavo assolutamente ridicolo e fastidioso andare al sabato italiano, marciare e cantare vestita

con i colori di una vedova. Tuttavia ci andavo lo stesso, pensavo che fosse soltanto una seccatura alla quale bisognava sottoporsi per vivere tranquilli.

Non è certo grandioso un comportamento del genere, ma è molto comune.

Vivere tranquilli è una delle massime aspirazioni dell'uomo, lo era a quei tempi e probabilmente lo è anche adesso.

A L'Aquila andammo ad abitare nella casa della famiglia di Augusto, un grande appartamento al primo piano di un palazzo nobiliare del centro. Era arredato con mobili cupi, pesanti, la luce era scarsa, l'aspetto sinistro.

Appena entrata mi sentii stringere il cuore. È qui che dovrò vivere mi chiesi, con un uomo che conosco da appena sei mesi, in una città in cui non ho neanche un amico? Mio marito capì subito lo stato di smarrimento in cui mi trovavo e per le prime due settimane fece tutto il possibile per distrarmi. Un giorno sì e un giorno no prendeva la macchina e andavamo a fare delle passeggiate sui monti dei dintorni. Avevamo entrambi una grande passione per le escursioni. Vedendo quelle montagne così belle, quei paesi arroccati sui cocuzzoli come nei presepi mi ero un po'

rasserenata, in qualche modo mi sembrava di non aver lasciato il Nord, la mia casa. Continuavamo a parlare molto. Augusto amava la natura, gli insetti in particolare, e camminando mi spiegava un mucchio di cose. Gran parte del mio sapere sulle scienze naturali lo devo proprio a lui.

Al termine di quelle due settimane che erano state il nostro viaggio di nozze, lui riprese il lavoro e io cominciai la mia vita, sola nella grande casa. Con me c'era una vecchia domestica, era lei che si occupava delle principali faccende. Come tutte le mogli borghesi dovevo soltanto programmare il pranzo e la cena, per il resto non avevo niente da fare.

Presi l'abitudine di uscire ogni giorno da sola a fare delle lunghe passeggiate. Percorrevo le strade avanti e indietro con passo furioso, avevo tanti pensieri in testa e tra tutti questi pensieri non riuscivo a fare chiarezza. Lo amo, mi chiedevo fermandomi all'improvviso, oppure è stato tutto un grande abbaglio? Quando stavamo seduti a tavola o la sera in salotto lo guardavo e guardandolo mi chiedevo: cosa provo? Provavo tenerezza, questo era certo, e anche lui sicuramente la provava per me. Ma era questo l'amore? Era tutto qui? Non avendo mai provato nient'altro non riuscivo a rispondermi.

Dopo un mese arrivarono le prime chiacchiere alle orecchie di mio marito. «La tedesca», avevano detto delle voci anonime, «va in giro da sola per le strade a tutte le ore.» Ero strabiliata. Cresciuta con delle abitudini diverse, non avrei mai potuto immaginare che delle innocenti

passeggiate potessero dare scandalo. Augusto era dispiaciuto, capiva che per me la cosa era incomprensibile, tuttavia per la pace cittadina e il suo buon nome mi pregò lo stesso di interrompere le mie uscite solitarie. Dopo sei mesi di quella vita mi sentivo completamente spenta. Il piccolo morto dentro era diventato un morto enorme, agivo come un automa, avevo gli occhi opachi. Quando parlavo, sentivo le mie parole distanti come se uscissero dalla bocca di un altro. Intanto avevo conosciuto le mogli dei colleghi di Augusto e il giovedì mi incontravo con loro in un caffè del centro.

Benché fossimo pressappoco coetanee avevamo veramente poche cose da dirci. Parlavamo la stessa lingua ma questo era l'unico punto in comune.

Rientrato nel suo ambiente, in breve tempo Augusto cominciò a comportarsi come un uomo delle sue parti. Durante i pranzi stavamo ormai quasi in silenzio, quando mi sforzavo di raccontargli qualcosa rispondeva sì e no con un monosillabo. La sera poi andava spesso al circolo, quando rimaneva a casa si chiudeva nel suo studio a riordinare le collezioni di coleotteri. Il suo grande sogno era di scoprire un insetto che ancora non fosse noto a nessuno, così il suo nome si sarebbe tramandato per sempre nei libri di scienze. Io il nome l'avrei voluto tramandare in un altro modo, cioè con un figlio, ormai avevo trent'anni e sentivo il tempo scivolarmi alle spalle sempre più svelto. Da quel punto di vista le cose andavano molto male. Dopo una prima notte piuttosto deludente, non era successo molto altro. Avevo la sensazione che, più di ogni altra cosa, Augusto volesse trovare qualcuno a casa alle ore dei pasti, qualcuno da esibire con orgoglio la domenica in Duomo; della persona che c'era dietro a quell'immagine tranquillizzante sembrava non importargli un granché. Dov'era finito l'uomo piacevole e disponibile del corteggiamento? Possibile che l'amore dovesse finire in questo modo? Augusto mi aveva raccontato che gli uccelli in primavera cantano più forte per compiacere le femmine, per indurle a fare il nido assieme a loro. Aveva fatto anche lui così, una volta assicuratami al nido aveva smesso di interessarsi alla mia esistenza. Stavo lì, lo tenevo caldo e basta.

Lo odiavo? No, ti parrà strano ma non riuscivo a odiarlo. Per odiare qualcuno bisogna che ti ferisca, che ti faccia del male. Augusto non mi faceva niente, questo era il guaio. È più facile morire di niente che di dolore, al dolore ci si può ribellare, al niente no.

Quando sentivo i miei genitori naturalmente dicevo che andava tutto bene, mi sforzavo di fare la voce della giovane sposa felice. Erano sicuri di

avermi lasciata in buone mani e non volevo incrinare questa loro sicurezza.

Mia madre stava nascosta sempre in montagna, mio padre era rimasto solo nella villa di famiglia con una lontana cugina che lo accudiva. «Novità?»

mi chiedeva una volta al mese e io regolarmente rispondevo no, ancora no.

Ci teneva molto ad avere un nipotino, con la senilità gli era venuta una tenerezza che non aveva mai avuto prima. Lo sentivo un po' più vicino a me con questo cambiamento e mi dispiaceva deludere le sue aspettative.

Allo stesso tempo, però, non avevo abbastanza confidenza per raccontargli i motivi di quella prolungata sterilità. Mia madre inviava lunghe lettere grondanti di retorica. Mia adorata figlia, scriveva in cima al foglio, e sotto elencava con minuzia tutte le poche cose che le erano successe quel giorno. Alla fine mi comunicava sempre di aver terminato ai ferri l'ennesimo completino per il nipote in arrivo. Intanto io mi accartocciavo su me stessa, ogni mattina guardandomi nello specchio mi trovavo più brutta. Ogni tanto la sera dicevo ad Augusto: «Perché non parliamo?» «Di cosa?» rispondeva lui senza sollevare gli occhi dalla lente con la quale stava esaminando un insetto. «Non so», dicevo io, «magari ci raccontiamo qualcosa.» Allora lui scuoteva il capo: «Olga», diceva, «tu hai proprio la fantasia malata».

È un luogo comune che i cani dopo una lunga convivenza con il padrone finiscano piano piano per assomigliargli. Avevo l'impressione che a mio marito stesse succedendo la stessa cosa, più passava il tempo più in tutto e per tutto somigliava a un coleottero. I suoi movimenti non avevano più nulla di umano, non erano fluidi ma geometrici, ogni gesto procedeva a scatti. E così la voce era priva di timbro, saliva con rumore metallico da qualche luogo imprecisato della gola. Si interessava degli insetti e del suo lavoro in modo ossessivo ma, oltre a quelle due cose, non c'era nient'altro che gli provocasse un benché minimo trasporto. Una volta, tenendolo sospeso tra le pinze, mi aveva mostrato un orribile insetto, mi pare si chiamasse grillo talpa. «Guarda che mandibole», mi aveva detto, «con queste può mangiare davvero di tutto.» La notte stessa l'avevo sognato in quella forma, era enorme e divorava il mio vestito da sposa come fosse cartone.

Dopo un anno abbiamo cominciato a dormire in stanze separate, lui stava alzato con i suoi coleotteri fino a tardi e non voleva disturbarmi, così almeno aveva detto. Raccontato così il mio matrimonio ti sembrerà qualcosa di straordinariamente terribile ma di straordinario non c'era proprio niente. I matrimoni, a quel tempo, erano quasi tutti così, dei piccoli

inferni domestici in cui uno dei due prima o poi doveva soccombere.

Perché non mi ribellavo, perché non prendevo la mia valigia per tornare a Trieste?

Perché quella volta non c'era né la separazione, né il divorzio. Per rompere un matrimonio ci dovevano essere dei gravi maltrattamenti, oppure bisognava avere un temperamento ribelle, fuggire, andarsene per sempre raminghi per il mondo. Ma la ribellione, come sai, non fa parte del mio carattere e Augusto con me non ha mai alzato non dico un dito, ma neanche la voce. Non mi ha mai fatto mancare niente. La domenica, tornando dalla messa, ci fermavamo alla pasticceria dei fratelli Nurzia e mi faceva comprare tutto ciò di cui avevo voglia. Non ti sarà difficile immaginare con quali sentimenti mi svegliavo ogni mattina. Dopo tre anni di matrimonio avevo un solo pensiero in mente ed era quello della morte.

Della sua moglie precedente Augusto non mi parlava mai, le rare volte che, con discrezione, l'avevo interrogato, aveva cambiato discorso. Con il tempo, camminando nei pomeriggi di inverno tra quelle stanze spettrali mi ero convinta che Ada — così si chiamava la prima moglie — non era morta di malattia o di disgrazia ma si era suicidata. Quando la domestica era fuori passavo il mio tempo a svitare assi, a smontare i cassetti, cercavo con furore una traccia, un segno che confermasse il mio sospetto. Un giorno di pioggia, nel sottofondo di un armadio, trovai dei vestiti da donna, erano i suoi. Ne tirai fuori uno scuro e lo indossai, avevamo la stessa taglia. Guardandomi allo specchio, cominciai a piangere. Piangevo in modo sommesso, senza un singhiozzo, come chi sa già che il suo destino è segnato. In un angolo della casa c'era un inginocchiatoio di legno massiccio che era appartenuto alla madre di Augusto, una donna molto devota. Quando non sapevo cosa fare mi chiudevo in quella stanza e stavo per ore lì, con le mani giunte. Pregavo? Non lo so. Parlavo o cercavo di parlare con Qualcuno che supponevo stare più in alto della mia testa.

Dicevo, Signore fammi trovare la mia via, se la mia via è questa aiutami a sopportarla. La frequentazione abituale della chiesa – alla quale ero stata costretta dal mio stato di moglie – mi aveva spinto a pormi di nuovo tante domande, domande che avevo sepolto dentro di me fin dall'infanzia.

L'incenso mi stordiva e così la musica dell'organo. Ascoltando le Sacre Scritture qualcosa vibrava debolmente dentro di me. Quando però incontravo il parroco per la strada senza i paramenti sacri, quando guardavo il suo naso a spugna e gli occhi un po' porcini, quando ascoltavo le sue domande banali e irrimediabilmente false, non vibrava più niente e

mi dicevo ecco, non è che un imbroglio, un modo per far sopportare alle menti deboli l'oppressione nella quale si trovano a vivere. Ciononostante, nel silenzio della casa, amavo leggere il Vangelo. Molte parole di Gesù le trovavo straordinarie, mi infervoravano al punto da ripeterle più volte a voce alta.

La mia famiglia non era per niente religiosa, mio padre si considerava un libero pensatore e mia madre, convertita già da due generazioni, come ti ho già detto, frequentava la messa per puro e semplice conformismo sociale.

Le rare volte che l'avevo interrogata sui fatti della fede mi aveva detto:

«Non lo so, la nostra famiglia è senza religione». Senza religione. Questa frase ha avuto il peso di un macigno sulla fase più delicata della mia infanzia, quella in cui mi interrogavo sulle cose più grandi. C'era un specie di marchio di infamia in quelle parole, avevamo abbandonato una religione per abbracciarne un'altra verso la quale non nutrivamo il minimo rispetto.

Eravamo traditori e come traditori per noi non c'era posto né in cielo né in terra, da nessuna parte.

Così, a parte i pochi aneddoti imparati dalle suore, fino a trent'anni, del sapere religioso non avevo conosciuto altro. Il regno di Dio sta dentro di voi, mi ripetevo camminando per la casa vuota. Lo ripetevo e cercavo di immaginarmi dove fosse. Vedevo il mio occhio come un periscopio scendere all'interno di me, scrutare le anse del corpo, le pieghe ben più misteriose della mente. Dove stava il regno di Dio? Non riuscivo a vederlo, c'era nebbia intorno al mio cuore, una nebbia pesante, non le colline verdeggianti e luminose che immaginavo essere il paradiso. Nei momenti di lucidità mi dicevo sto impazzendo, come tutte le zitelle e le vedove, lentamente, impercettibilmente, sono caduta nel delirio mistico.

Dopo quattro anni di quella vita, distinguevo sempre più a fatica le cose false da quelle vere. Le campane del Duomo vicino battevano il tempo ogni quarto d'ora, per non sentirle o sentirle meno mi infilavo del cotone nelle orecchie.

Mi era presa l'ossessione che gli insetti di Augusto non fossero affatto morti, di notte sentivo il crepitio delle loro zampe in giro per la casa, camminavano dappertutto, si arrampicavano sulla carta da parati, stridevano sulle piastrelle della cucina, strusciavano sui tappeti del salotto.

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