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avrei precipitato tre vite nell'infelicità permanente. Così almeno pensavo quella volta. Adesso che c'è libertà di movimento, di scelta, può sembrare davvero orribile quello che ho fatto, ma allora – quando mi sono trovata a vivere questa situazione – era un caso molto comune, non dico che ce ne fosse uno in ogni coppia ma certo era piuttosto frequente che una donna concepisse un figlio con un altro uomo nell'ambito di un matrimonio. E

cosa succedeva? Quel che è successo a me assolutamente niente. Il bambino nasceva, cresceva uguale agli altri fratelli, diventava grande senza che lo sfiorasse mai neppure un sospetto. La famiglia a quei tempi aveva fondamenta saldissime, per distruggerla ci voleva molto più di un figlio diverso. Così andò con tua madre. Nacque e fu subito figlia mia e di Augusto. La cosa più importante per me era che Ilaria fosse il frutto dell'amore e non del caso, delle convenzioni o della noia; pensavo che questo avrebbe eliminato qualsiasi altro problema. Come mi sbagliavo!

Nei primi anni comunque tutto è andato avanti in modo naturale, senza scossoni. Vivevo per lei, ero – o credevo di essere – una madre molto affettuosa e attenta. Già dalla prima estate avevo preso l'abitudine di passare i mesi più caldi assieme alla bambina sulla riviera adriatica.

Avevamo preso una casa in affitto e ogni due o tre settimane Augusto veniva a passare il sabato e la domenica con noi.

Su quella spiaggia Ernesto vide sua figlia per la prima volta.

Naturalmente fingeva di essere un perfetto estraneo, durante la passeggiata camminava «per caso» vicino a noi, prendeva un ombrellone a pochi passi di distanza e da lì – quando non c'era Augusto – dissimulando la sua attenzione dietro un libro o un giornale ci osservava per ore. La sera poi mi scriveva lunghe lettere registrando tutto quello che gli era passato per la testa, i suoi sentimenti per noi, quello che aveva visto. Intanto anche a sua moglie era nato un altro figlio, lui aveva lasciato l'impiego stagionale delle terme e aveva aperto nella sua città, a Ferrara, uno studio medico privato.

Nei primi tre anni di Ilaria, a parte quegli incontri fintamente casuali, non ci siamo mai visti. Io ero molto presa dalla bambina, ogni mattina mi svegliavo con la gioia di sapere che lei c'era, anche volendo non avrei potuto dedicarmi a nient'altro.

Poco prima di lasciarci, durante l'ultimo soggiorno alle terme Ernesto e io avevamo stabilito un patto. «Ogni sera», aveva detto Ernesto, «alle undici in punto, in qualsiasi luogo mi trovi e in qualsiasi situazione, uscirò all'aperto e nel cielo cercherò Sirio. Tu farai altrettanto e così i nostri pensieri, anche se saremo lontanissimi, anche se non ci saremo visti da

tempo e ignoreremo tutto uno dell'altra, si ritroveranno lassù e staranno vicini.» Poi eravamo usciti sul balcone della pensione e da lì salendo con il dito tra le stelle, tra Orione e Betelgeuse, mi aveva mostrato Sirio.

12 dicembre

Questa notte sono stata svegliata all'improvviso da un rumore, ci ho messo un po' per capire che era il telefono. Quando mi sono alzata aveva già fatto parecchi squilli, ha smesso di suonare non appena l'ho raggiunto. Ho sollevato la cornetta lo stesso, con la voce incerta del sonno ho detto due o tre volte «pronto». Invece di tornare a letto mi sono seduta nella poltrona lì accanto. Eri tu? Chi altro poteva essere? Quel suono nel silenzio notturno della casa mi aveva scosso. Mi è venuta in mente la storia che mi aveva raccontato una mia amica alcuni anni prima. Aveva il marito in ospedale da tempo. A causa della rigidità degli orari il giorno in cui è morto lei non ha potuto essergli accanto. Affranta dal dolore per averlo perso in quel modo, la prima notte non era riuscita a dormire, stava lì nel buio quando all'improvviso aveva suonato il telefono. Era rimasta sorpresa, possibile che qualcuno le telefonasse per le condoglianze a quell'ora? Mentre avvicinava la mano al ricevitore era stata colpita da un fatto strano, dall'apparecchio si levava un alone di luce tremolante. Appena aveva risposto la sorpresa si era trasformata in terrore. C'era una voce lontanissima dall'altra parte del filo, parlava a fatica: «Marta», diceva tra sibili e rumori di fondo, «volevo salutarti prima di andarmene...» Era la voce di suo marito. Finita questa frase c'era stato per un istante un rumore forte di vento, subito dopo la linea si era interrotta ed era calato il silenzio.

Quella volta avevo compatito la mia amica per lo stato di profondo turbamento nel quale si trovava: l'idea che i morti per comunicare scegliessero i mezzi più moderni mi sembrava quanto meno bizzarra.

Tuttavia quella storia deve avere lasciato lo stesso una traccia nella mia emotività. In fondo in fondo, molto in fondo, nella parte di me più ingenua e più magica forse anch'io spero che prima o poi nel cuore della notte qualcuno mi telefoni per salutarmi dall'Aldilà. Ho seppellito mia figlia, mio marito e l'uomo che più di tutti amavo al mondo. Sono morti, non ci sono più, tuttavia continuo a comportarmi come fossi sopravvissuta a un naufragio. La corrente mi ha portato in salvo su un'isola, non so più niente dei miei compagni, li ho persi di vista nel momento stesso in cui la barca si

è ribaltata, potrebbero essere affogati – lo sono quasi per certo – ma potrebbero anche non esserlo. Nonostante siano trascorsi mesi e anni, continuo a scrutare le isole vicine in attesa di uno sbuffo, di un segnale di fumo, qualcosa che confermi il mio sospetto che vivano ancora tutti con me sotto lo stesso cielo.

La notte in cui è morto Ernesto sono stata svegliata all'improvviso da un forte rumore. Augusto ha acceso la luce e ha esclamato: «Chi è?» Nella stanza non c'era nessuno, niente era fuori posto. Soltanto la mattina aprendo la porta dell'armadio mi sono accorta che all'interno erano crollate tutte le mensole, calze, sciarpe e mutande erano precipitate le une sulle altre.

Adesso posso dire «la notte in cui è morto Ernesto». Quella volta però non lo sapevo, avevo appena ricevuto una sua lettera, non potevo neanche lontanamente immaginare che cosa fosse successo. Ho pensato unicamente che l'umidità avesse marcito i sostegni dei ripiani e che per il troppo peso avessero ceduto. Ilaria aveva quattro anni, da poco aveva cominciato ad andare all'asilo, la mia vita con lei e con Augusto si era ormai assestata in una tranquilla quotidianità. Quel pomeriggio, dopo la riunione dei latinisti, andai in un caffè a scrivere a Ernesto. Da lì a due mesi ci sarebbe stato un raduno a Mantova, era l'occasione che aspettavamo da tanto tempo per rivederci. Prima di rientrare a casa imbucai la lettera e dalla settimana dopo cominciai ad attendere la risposta. Non ricevetti la sua lettera la settimana seguente e neppure nelle settimane successive. Non mi era mai capitato di attendere tanto tempo. In principio pensai a qualche disguido postale, poi che forse si era ammalato e non aveva potuto andare allo studio a ritirare la posta. Un mese dopo gli scrissi un breve biglietto e anche quello rimase senza risposta. Con il passare dei giorni iniziai a sentirmi come una casa nelle cui fondamenta si è infiltrato un corso d'acqua. All'inizio era un corso sottile, discreto, lambiva appena le strutture di cemento ma poi, con il passare del tempo, si era fatto più grosso, più impetuoso, sotto la sua forza il cemento era diventato sabbia, anche se la casa stava ancora in piedi, anche se all'apparenza tutto era normale, io sapevo che non era vero, sarebbe bastato un urto anche minimo per far crollare la facciata e tutto il resto, per farla sedere su di sé come un castello di carte.

Quando partii per il convegno ero appena l'ombra di me stessa. Dopo aver fatto atto di presenza a Mantova andai dritta a Ferrara, lì cercai di capire cosa fosse successo. Allo studio non rispondeva nessuno, guardando

dalla strada si vedevano delle imposte sempre chiuse. Al secondo giorno andai in una biblioteca e chiesi di consultare i giornali dei mesi precedenti.

Lì in un trafiletto trovai scritto tutto. Tornando la notte da una visita a un malato aveva perso il controllo dell'auto ed era andato a sbattere contro un grande platano, la morte era giunta quasi subito. Il giorno e l'ora corrispondevano esattamente a quelle del crollo del mio armadio.

Una volta su una di quelle rivistacce che mi porta ogni tanto la signora Razman ho letto nella rubrica delle stelle che alle morti violente presiede Marte nell'ottava casa. Secondo quello che diceva l'articolo, chi nasce con questa configurazione di stelle è destinato a non morire sereno nel proprio letto. Chissà se nel cielo di Ernesto e di Ilaria brillava quel sinistro accoppiamento. A più di vent'anni di distanza padre e figlia se ne sono andati nello stesso identico modo, sbattendo con l'auto contro un albero.

Dopo la morte di Ernesto scivolai in un esaurimento profondissimo.

Tutt'a un tratto mi ero resa conto che la luce di cui avevo brillato negli ultimi anni non veniva dal mio interno, era soltanto riflessa. La felicità, l'amore per la vita che avevo provato in realtà non mi appartenevano veramente, avevo soltanto funzionato come uno specchio. Ernesto emanava luce e io la riflettevo. Scomparso lui tutto era tornato opaco. La vista di Ilaria non mi provocava più gioia ma irritazione, ero talmente scossa che giunsi persino a dubitare che fosse davvero figlia di Ernesto.

Questo cambiamento non le sfuggì, con le sue antenne di bambina sensibile si accorse della mia ripulsa, divenne capricciosa, prepotente.

Ormai era lei la pianta giovane e vitale, io il vecchio albero pronto a venire soffocato. Fiutava i miei sensi di colpa come un segugio, li usava per arrivare più in alto. La casa era diventata un piccolo inferno di battibecchi e strilli.

Per sollevarmi di quel peso Augusto assunse una donna affinché si occupasse della bambina. Per un po' aveva provato ad appassionarla agli insetti, ma dopo tre o quattro tentativi – visto che lei ogni volta urlava «che schifo!» – lasciò perdere. All'improvviso i suoi anni vennero fuori, più che il padre di sua figlia sembrava il nonno, con lei era gentile ma distante.

Quando passavo davanti alla specchiera anch'io mi vedevo molto invecchiata, dai miei lineamenti traspariva una durezza che non c'era mai stata prima. Trascurarmi era un modo per manifestare il disprezzo che provavo per me stessa. Tra la scuola e la donna di servizio avevo ormai molto tempo libero. L'inquietudine mi spingeva a passarlo per lo più in movimento, prendevo la macchina e andavo avanti e indietro per il Carso,

guidavo in una specie di trance.

Ripresi alcune delle letture religiose che avevo fatto durante la mia permanenza a L'Aquila. Tra quelle pagine cercavo con furore una risposta.

Camminando ripetevo tra me e me la frase di sant'Agostino per la morte della madre: «Non rattristiamoci di averla persa, ma ringraziamo di averla avuta».

Un'amica mi aveva fatto incontrare due o tre volte il suo confessore, da quegli incontri uscivo ancora più sconsolata di prima. Le sue parole erano dolciastre, inneggiavano alla forza della fede come se la fede fosse un genere alimentare in vendita nel primo negozio sulla strada. Non riuscivo a farmi una ragione della perdita di Ernesto, la scoperta di non possedere una luce mia rendeva ancora più difficili i tentativi di trovare una risposta.

Vedi, quando lo avevo incontrato, quando era nato il nostro amore, all'improvviso mi ero convinta che tutta la mia vita fosse risolta, ero felice di esistere, felice di tutto ciò che assieme a me esisteva, mi sentivo arrivata al punto più alto del mio cammino, al punto più stabile, ero certa che da lì niente e nessuno sarebbe riuscito a smuovermi. Dentro di me c'era la sicurezza un po' orgogliosa delle persone che hanno capito tutto. Per molti anzi ero stata certa di aver percorso la strada con le mie gambe, invece non avevo fatto neanche un passo da sola. Anche se non me ne ero mai accorta, sotto di me c'era un cavallo, era stato lui a procedere nel cammino, non io.

Nel momento in cui il cavallo è scomparso mi sono accorta dei miei piedi, di quanto fossero deboli volevo camminare e le caviglie cedevano, i passi che facevo erano i passi malfermi di un bambino molto piccolo o di un vecchio. Per un attimo ho pensato di aggrapparmi a un bastone qualsiasi: la religione poteva essere uno, un altro il lavoro. È un'idea che è durata pochissimo. Quasi subito ho capito che sarebbe stato l'ennesimo sbaglio. A quarant'anni non c'è più spazio per gli errori. Se a un tratto ci si trova nudi, bisogna avere il coraggio di guardarsi nello specchio così come si è.

Dovevo cominciare tutto da capo. Già, ma da dove? Da me stessa. Tanto era facile dirlo, altrettanto era difficile farlo. Dov'ero io? Chi ero?

Quand'era l'ultima volta che ero stata me stessa?

Te l'ho già detto, giravo per pomeriggi interi per l'altipiano. Alle volte, quando intuivo che la solitudine avrebbe peggiorato ancora di più il mio umore, scendevo giù in città, mischiata tra la folla facevo avanti e indietro le vie più note cercando un qualche tipo di sollievo. Ormai era come se avessi un lavoro, uscivo quando usciva Augusto e tornavo quando lui rientrava. Il medico che mi curava gli aveva detto che in certi esaurimenti

era normale desiderare di muoversi tanto. Visto che in me non c'erano idee suicide, non c'era nessun rischio a lasciarmi correre in giro; correndo e correndo secondo lui, alla fine mi sarei calmata. Augusto aveva accettato le sue spiegazioni, non so se vi credesse davvero o in lui ci fosse soltanto ignavia e quieto vivere, comunque gli ero grata di quel suo tirarsi da parte, di quel non ostacolare la mia grande inquietudine.

Su una cosa comunque il medico aveva ragione, in quel grande esaurimento depressivo non avevo idee suicide. È strano ma era proprio così, neanche per un istante dopo la morte di Ernesto ho pensato di uccidermi, non credere che fosse Ilaria a trattenermi. Te l'ho detto, di lei in quel momento non me ne importava assolutamente niente. Piuttosto in qualche parte di me intuivo che quella perdita così improvvisa non era –

non doveva, non poteva essere – fine a se stessa. C'era un senso là dentro, questo senso lo scorgevo davanti a me come un gradino gigante. Era lì perché lo superassi? Probabilmente sì, ma non riuscivo a immaginare cosa ci fosse dietro, cosa avrei visto una volta salita.

Un giorno con la macchina arrivai in un posto dove non ero mai stata prima. C'era una chiesetta con un piccolo cimitero intorno, ai lati delle colline coperte di boscaglia, sulla cima di una di queste s'intravedeva la sommità chiara di un castelliere. Poco più in là della chiesa c'erano due o tre case di contadini, galline razzolavano liberamente per la strada, un cane nero abbaiava. Sul cartello c'era scritto Samatorza. Samatorza, il suono somigliava a solitudine, il posto giusto dove raccogliere i pensieri. Da lì partiva un sentiero sassoso, cominciai a camminare senza chiedermi dove mai portasse. Il sole stava già scendendo ma più andavo avanti meno avevo voglia di fermarmi, ogni tanto una ghiandaia mi faceva trasalire.

C'era qualcosa che mi chiamava avanti, cosa fosse lo capii soltanto quando arrivai nello spazio aperto di una radura, quando vidi là in mezzo, placida e maestosa, con i rami aperti come braccia pronte ad accogliermi, una quercia enorme.

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