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Il giorno seguente non l'ho voluto vedere. L'amicizia si stava trasformando in qualcos'altro e avevo bisogno di riflettere. Non ero più una ragazzina ma una donna sposata con tutte le sue responsabilità, anche lui

era sposato e per di più aveva un figlio. Da lì alla vecchiaia avevo ormai previsto tutta la mia vita, il fatto che irrompesse qualcosa che non avevo calcolato mi metteva addosso una grande ansia. Non sapevo come comportarmi. Il nuovo al primo impatto spaventa, per riuscire ad andare avanti bisogna superare questa sensazione di allarme. Così un momento pensavo: «È una grande sciocchezza, la più grande della mia vita, devo dimenticare tutto, cancellare quel poco che c'è stato». Il momento dopo mi dicevo che la sciocchezza più grande sarebbe stata proprio quella di lasciar perdere perché per la prima volta da quando ero bambina mi sentivo di nuovo viva, tutto vibrava intorno a me, dentro a me, mi sembrava impossibile dover rinunciare a questo nuovo stato. Oltre a ciò naturalmente avevo un sospetto, quel sospetto che hanno o perlomeno avevano tutte le donne: cioè che lui mi prendesse in giro, che volesse divertirsi e basta.

Tutti questi pensieri si agitavano nella mia testa mentre stavo da sola in quella triste stanza di pensione.

Quella notte non riuscii a prendere sonno fino alle quattro, ero troppo eccitata. La mattina dopo però non mi sentivo per niente stanca, vestendomi cominciai a cantare; in quelle poche ore era nata in me una tremenda voglia di vivere. Al decimo giorno di permanenza mandai una cartolina ad Augusto: Aria ottima, cibo mediocre. Speriamo, avevo scritto e l'avevo salutato con un abbraccio affettuoso. La notte prima l'avevo trascorsa con Ernesto.

In quella notte all'improvviso mi ero accorta di una cosa, e cioè che tra la nostra anima e il nostro corpo ci sono tante piccole finestre, da lì, se sono aperte, passano le emozioni, se sono socchiuse filtrano appena, solo l'amore le può spalancare tutte assieme e di colpo, come una raffica di vento.

Nell'ultima settimana del mio soggiorno a Porretta siamo stati sempre assieme, facevamo lunghe passeggiate, parlavamo fino ad avere la gola secca. Com'erano diversi i discorsi di Ernesto da quelli di Augusto! Tutto in lui era passione, entusiasmo, sapeva entrare negli argomenti più difficili con una semplicità assoluta. Parlavamo spesso di Dio, della possibilità che, oltre la realtà tangibile, esistesse qualcos'altro. Lui aveva fatto la Resistenza, più di una volta aveva visto la morte in faccia. In quegli istanti gli era nato il pensiero di qualcosa di superiore, non per la paura ma per il dilatarsi della coscienza in uno spazio più ampio. «Non posso seguire i riti», mi diceva, «non andrò mai in un luogo di culto, non potrò mai credere ai dogmi, alle storie inventate da altri uomini come me.» Ci

rubavamo le parole di bocca, pensavamo le stesse cose, le dicevamo allo stesso modo, sembrava che ci conoscessimo da anni anziché da due settimane.

Ci restava poco tempo ancora, le ultime notti non abbiamo dormito più di un'ora, ci assopivamo il tempo minimo per riprendere le forze. Ernesto era molto appassionato all'argomento della predestinazione. «Nella vita di ogni uomo», diceva, «esiste solo una donna assieme alla quale raggiungere l'unione perfetta e, nella vita di ogni donna, esiste un solo uomo assieme al quale essere completa.» Trovarsi però era un destino di pochi, di pochissimi. Tutti gli altri erano costretti a vivere in uno stato di insoddisfazione, di nostalgia perpetua. «Quanti incontri ci saranno così», diceva nel buio della stanza, «uno su diecimila, uno su un milione, su dieci milioni?» Uno su dieci milioni, sì. Tutti gli altri sono aggiustamenti, simpatie epidermiche, transitorie, affinità fisiche o di carattere, convenzioni sociali. Dopo queste considerazioni non faceva altro che ripetere: «Come siamo stati fortunati, eh? Chissà cosa c'è dietro, chi lo sa?»

Il giorno della partenza, aspettando il treno nella minuscola stazione, mi ha abbracciato e mi ha bisbigliato in un orecchio: «In quale vita ci siamo già conosciuti?» «In tante», gli ho risposto io, e ho cominciato a piangere.

Nascosto nella borsetta avevo il suo recapito di Ferrara.

Inutile che ti descriva i miei sentimenti in quelle lunghe ore di viaggio, erano troppo convulsi, troppo «l'un contro l'altro armati». Sapevo, in quelle ore, di dover effettuare una metamorfosi, andavo avanti e indietro dalla toilette per controllare l'espressione del mio volto. La luce negli occhi, il sorriso, dovevano andare via, spegnersi. A conferma della bontà dell'aria doveva restare soltanto il colorito delle guance. Sia mio padre che Augusto mi trovarono straordinariamente migliorata. «Sapevo che le acque fanno miracoli», ripeteva mio padre in continuazione mentre Augusto, cosa per lui quasi incredibile, mi circondava di piccole galanterie.

Quando anche tu proverai l'amore per la prima volta capirai quanto vari e buffi possano essere i suoi effetti. Fino a che non sei innamorata, fino a che il tuo cuore è libero e il tuo sguardo di nessuno, di tutti gli uomini che ti potrebbero interessare, neppure uno ti degna di attenzione; poi, nel momento in cui sei presa da un'unica persona e non ti importa assolutamente niente degli altri, tutti ti inseguono, dicono parole dolci, ti fanno la corte. È l'effetto delle finestre di cui parlavo prima, quando sono aperte il corpo dà una gran luce all'anima e così l'anima al corpo, con un

sistema di specchi si illuminano l'un l'altro. In breve tempo si forma intorno a te una specie di alone dorato e caldo e quest'alone attira gli altri uomini come il miele attira gli orsi. Augusto non era sfuggito a quell'effetto e anch'io, anche se ti parrà strano, non trovavo difficoltà a essere gentile con lui. Certo, se Augusto fosse stato soltanto un po' più dentro alle cose del mondo, un po' più malizioso, non ci avrebbe messo molto per capire cos'era successo. Per la prima volta da quando eravamo sposati mi sono trovata a ringraziare i suoi orripilanti insetti.

Pensavo a Ernesto? Certo, non facevo praticamente altro. Pensare però non è il termine esatto. Più che pensare, esistevo per lui, lui esisteva in me, in ogni gesto, in ogni pensiero eravamo una sola persona. Lasciandoci, ci eravamo accordati che la prima a scrivere sarei stata io; perché lui potesse farlo, dovevo prima trovare un indirizzo di un'amica fidata alla quale farmi mandare le lettere. La prima lettera gliela inviai alla vigilia dei morti. Il periodo che seguì fu il più terribile di tutta la nostra relazione. Neanche gli amori più grandi, i più assoluti, nella lontananza sono esenti dal dubbio. La mattina aprivo gli occhi di colpo quando fuori era ancora buio e restavo immobile e in silenzio vicino ad Augusto. Erano gli unici momenti in cui non dovevo nascondere i miei sentimenti. Ripensavo a quelle tre settimane. E se Ernesto, mi chiedevo, fosse stato soltanto un seduttore, uno che per noia alle terme si divertiva con le signore sole? Più passavano i giorni e non arrivava la lettera più questo sospetto si trasformava in certezza. Va bene, mi dicevo allora, anche se è andata così, anche se mi sono comportata come la più ingenua delle donnette, non è stata un'esperienza negativa né inutile. Se non mi fossi lasciata andare sarei invecchiata e morta senza mai sapere cosa può provare una donna. In qualche modo, capisci, cercavo di mettere le mani avanti, di attutire il colpo.

Sia mio padre che Augusto notarono il mio peggioramento d'umore: scattavo per un nonnulla, appena uno di loro entrava in una stanza io uscivo per andare in un'altra, avevo bisogno di stare sola. Ripassavo in continuazione le settimane trascorse assieme, le esaminavo con frenesia minuto per minuto per trovare un indizio, una prova che mi spingesse definitivamente in un senso o nell'altro. Quanto durò questo supplizio? Un mese e mezzo, quasi due. La settimana prima di Natale, a casa dell'amica che faceva da tramite finalmente arrivò la lettera, cinque pagine scritte con una calligrafia grande e ariosa.

Tornai improvvisamente di buon umore. Tra scrivere e attendere le

risposte l'inverno volò via e così la primavera. Il pensiero fisso di Ernesto alterava la mia percezione del tempo, tutte le mie energie erano concentrate su un futuro imprecisato, sul momento in cui avrei potuto rivederlo.

La profondità della sua lettera mi aveva resa ormai sicura del sentimento che ci legava. Il nostro era un amore grande, grandissimo e, come tutti gli amori davvero grandi, era anche in buona misura lontano dall'accadere degli eventi strettamente umani. Forse ti sembrerà strano che la lunga lontananza non provocasse in noi una grande sofferenza e forse dire che non soffrivamo affatto non è esattamente vero. Sia io che Ernesto soffrivamo per la forzata distanza, ma era una sofferenza mista ad altri sentimenti, dietro l'emozione dell'attesa il dolore scivolava in secondo piano. Eravamo due persone adulte e sposate, sapevamo che le cose non potevano andare in modo diverso. Probabilmente se tutto ciò fosse avvenuto ai nostri giorni, dopo neanche un mese io avrei chiesto la separazione da Augusto e lui l'avrebbe chiesta da sua moglie e già prima di Natale avremmo abitato nella stessa casa. Sarebbe stato meglio? Non lo so.

In fondo non riesco a togliermi dalla mente l'idea che la facilità dei rapporti banalizzi l'amore, che trasformi l'intensità del trasporto in passeggera infatuazione. Lo sai come succede quando, nelle torte, mescoli male il lievito nella farina? Il dolce invece di alzarsi in modo uniforme si alza solo da una parte, più che alzarsi esplode, la pasta si rompe e cola dallo stampo come lava. Così è l'unicità della passione. Traborda.

Avere un amante a quei tempi, e riuscire a vederlo, non era una cosa molto semplice. Per Ernesto certo era già più facile, essendo medico poteva sempre inventare un convegno, un concorso, qualche caso urgente, ma per me che oltre a quella della casalinga non avevo nessun'altra attività era quasi impossibile. Dovevo inventarmi un impegno, qualcosa che mi consentisse assenze di poche ore o anche di giorni senza destare nessun sospetto. Così prima di Pasqua mi iscrissi a una società di latinisti dilettanti. Si riunivano una volta alla settimana e facevano frequenti gite culturali. Conoscendo la mia passione per le lingue antiche Augusto non sospettò nulla né trovò niente da ridire, anzi era contento che riprendessi gli interessi di una volta.

L'estate quell'anno arrivò in un baleno. A fine giugno, come ogni anno, Ernesto partì per la stagione alle terme e io per il mare assieme a mio padre e a mio marito. In quel mese riuscii a convincere Augusto che non avevo smesso di desiderare un figlio. Il trentun agosto di buon'ora, con la stessa

valigia e lo stesso vestito dell'anno precedente, mi accompagnò a prendere il treno per Porretta. Durante il viaggio per l'eccitazione non riuscii a stare ferma un istante, dal finestrino vedevo lo stesso paesaggio che avevo visto l'anno prima eppure tutto mi sembrava diverso.

Mi fermai alle terme tre settimane, in quelle tre settimane vissi di più e più profondamente che in tutto il resto della mia vita. Un giorno, mentre Ernesto era al lavoro, passeggiando per il parco pensai che la cosa più bella in quell'istante sarebbe stata morire. Pare strano ma la felicità massima, coma la massima infelicità porta con sé sempre questo desiderio contraddittorio. Avevo la sensazione di essere in cammino da tanto tempo, di avere marciato per anni e anni per strade sterrate, per la boscaglia; per andare avanti mi ero aperta un cunicolo con l'accetta, avanzavo e di quello che mi stava intorno – oltre a ciò che stava davanti ai miei piedi – non avevo visto niente; non sapevo dove stavo andando, poteva esserci un baratro davanti a me, una forra, una grande città o il deserto; poi a un tratto la boscaglia si era aperta, senza accorgermene ero salita in alto.

All'improvviso mi trovavo sulla cima di un monte, da poco era sorto il sole e davanti a me con sfumature diverse altri monti degradavano verso l'orizzonte; tutto era blu azzurrino, una brezza leggera sfiorava la vetta, la vetta e la mia testa, la mia testa e i pensieri dentro. Ogni tanto da sotto saliva un rumore, l'abbaiare di un cane, lo scampanio di una chiesa. Ogni cosa era a un tempo stranamente leggera e intensa. Dentro e fuori di me tutto era diventato chiaro, niente più si sovrapponeva, niente si faceva ombra, non avevo più voglia di scendere, di andare giù nella boscaglia; volevo tuffarmi in quell'azzurrino e restarci per sempre, lasciare la vita nel momento più alto. Conservai quel pensiero fino alla sera, al momento di rivedere Ernesto. Durante la cena però non ebbi il coraggio di dirglielo, avevo paura che si sarebbe messo a ridere. Soltanto la sera tardi, quando mi raggiunse nella mia stanza, quando venne e mi abbracciò, avvicinai la bocca al suo orecchio per parlargli. Volevo dirgli: «Voglio morire». Invece sai cosa dissi? «Voglio un figlio.»

Quando lasciai Porretta sapevo di essere incinta. Credo che anche Ernesto lo sapesse, negli ultimi giorni era molto turbato, confuso, stava spesso zitto. Io non lo ero affatto. Il mio corpo aveva cominciato a modificarsi fin dal mattino seguente al concepimento, il seno era improvvisamente più gonfio, più sodo, la pelle del viso più luminosa. È

davvero incredibile il poco tempo che il fisico impiega ad adeguarsi al nuovo stato. Per questo posso dirti che, anche se non avevo fatto le analisi,

anche se la pancia era ancora piatta, sapevo benissimo cosa era successo.

All'improvviso mi sentivo invasa da una grande solarità, il mio corpo si modificava, cominciava a espandersi, a divenire possente. Prima di allora non avevo mai provato niente di simile.

I pensieri gravi mi assalirono soltanto quando rimasi sola in treno.

Finché ero stata vicina a Ernesto non avevo avuto nessun dubbio sul fatto che avrei tenuto il bambino: Augusto, la mia vita di Trieste, le chiacchiere della gente, tutto era lontanissimo. A quel punto però tutto quel mondo si stava avvicinando, la rapidità con cui la gravidanza sarebbe andata avanti mi imponeva di prendere delle decisioni al più presto e – una volta prese –

di mantenerle per sempre. Capii subito, paradossalmente, che abortire sarebbe stato molto più difficile che tenere il figlio. Ad Augusto un aborto non sarebbe sfuggito. Come potevo giustificarlo ai suoi occhi dopo che per tanti anni avevo insistito sul desiderio di avere un figlio? E poi io non volevo abortire, quella creatura che mi cresceva dentro non era stato uno sbaglio, qualcosa da eliminare al più presto. Era il compiersi di un desiderio, forse il desiderio più grande e più intenso di tutta la mia vita.

Quando si ama un uomo — quando lo si ama con la totalità del corpo e dell'anima — la cosa più naturale è desiderare un figlio. Non si tratta di un desiderio intelligente, di una scelta basata su criteri di razionalità. Prima di conoscere Ernesto immaginavo di volere un figlio e sapevo esattamente perché lo volevo e quali sarebbero stati i pro e i contro dell'averlo. Era una scelta razionale insomma, volevo un figlio perché avevo una certa età ed ero molto sola, perché ero una donna e se le donne non fanno niente, almeno possono fare i figli. Capisci? Nell'acquistare una macchina avrei adottato esattamente lo stesso criterio.

Ma quando quella notte ho detto a Ernesto: «Voglio un figlio», era qualcosa di assolutamente diverso tutto il buon senso andava contro questa decisione eppure questa decisione era più forte di tutto il buon senso. E

poi, in fondo, non era neanche una decisione, era una frenesia, un'avidità di possesso perpetuo. Volevo Ernesto dentro di me, con me, accanto a me per sempre. Adesso, leggendo come mi sono comportata, probabilmente rabbrividirai per l'orrore, ti domanderai come mai non ti sei accorta prima che nascondevo dei lati così bassi, così spregevoli. Quando sono arrivata alla stazione di Trieste ho fatto l'unica cosa che potevo fare, sono scesa dal treno come una moglie tenera e innamoratissima. Augusto è rimasto subito colpito dal mio cambiamento, invece di farsi domande si è lasciato coinvolgere.

Dopo un mese era ormai plausibilissimo che quel figlio fosse suo. Il giorno in cui gli annunciai il risultato delle analisi lasciò l'ufficio a metà mattina e passò tutta la giornata con me a progettare cambiamenti in casa per l'arrivo del bambino. Quando avvicinando la mia testa alla sua gli gridai la notizia, mio padre prese le mie mani tra le sue mani secche e stette così, fermo per un po', mentre gli occhi gli diventavano umidi e rossi. Già da tempo la sordità l'aveva escluso da gran parte della vita e i suoi ragionamenti procedevano a scossoni, tra una frase e l'altra c'erano vuoti improvvisi, scarti o spezzoni di ricordi che non c'entravano niente.

Non so perché ma davanti a quelle sue lacrime, invece di commozione provai un sottile senso di fastidio. Vi leggevo dentro retorica e non altro.

La nipotina, comunque, non riuscì a vederla. Morì nel sonno senza soffrire quando ero al sesto mese di gravidanza. Vedendolo composto nella bara fui colpita da quanto fosse rinsecchito e decrepito. Sul viso aveva la stessa espressione di sempre, distante e neutra.

Naturalmente, dopo aver ricevuto il responso delle analisi, scrissi anche a Ernesto; la sua risposta arrivò in meno di dieci giorni. Aspettai alcune ore prima di aprire la lettera, ero molto agitata, temevo ci fosse dentro qualcosa di sgradevole. Mi decisi a leggere il contenuto solo nel tardo pomeriggio, per poterlo fare liberamente mi chiusi nel gabinetto di un caffè. Le sue parole erano pacate e ragionevoli. «Non so se questa sia la cosa migliore da farsi», diceva, «ma se tu hai deciso così, rispetto la tua decisione.»

Da quel giorno, appianati ormai tutti gli ostacoli, cominciò la mia tranquilla attesa di madre. Mi sentivo un mostro? Lo ero? Non lo so.

Durante la gravidanza e per molti degli anni che sono seguiti non ho mai avuto un dubbio né un rimorso. Come facevo a fingere di amare un uomo mentre nel ventre portavo il figlio di un altro che amavo davvero? Ma vedi, in realtà le cose non sono mai così semplici, non sono mai o nere o bianche, ogni tinta porta in sé tante sfumature diverse. Non facevo nessuna fatica a essere gentile e affettuosa con Augusto perché gli volevo davvero bene. Gliene volevo in modo molto diverso da come lo volevo a Ernesto, lo amavo non come una donna ama un uomo, ma come una sorella ama un fratello maggiore un po' noioso. Se lui fosse stato cattivo tutto sarebbe stato diverso, non mi sarei mai sognata di fare un figlio e vivergli accanto, ma lui era soltanto mortalmente metodico e prevedibile; a parte questo, nel profondo era gentile e buono. Era felice di avere quel figlio e io ero felice di darglielo. Per quale motivo avrei dovuto svelargli il segreto? Nel farlo

Are sens

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