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In principio pensai che fosse andato da qualche parte con mio padre. Ma quando vidi mio padre tranquillamente seduto nello studio e senza Argo ai suoi piedi, mi nacque dentro una grande agitazione. Uscii e urlando a squarciagola lo chiamai per tutto il giardino, tornata dentro per due o tre volte esplorai la casa da cima a fondo. La sera, al momento di dare ai miei genitori il bacio obbligatorio della buonanotte, raccogliendo tutto il mio coraggio chiesi a mio padre: «Dov'è Argo?» «Argo», rispose lui senza distogliere lo sguardo dal giornale, «Argo è andato via.» «E perché?»

domandai io. «Perché era stufo dei tuoi dispetti.»

Indelicatezza? Superficialità? Sadismo? Cosa c'era in quella risposta?

Nell'istante preciso in cui sentii quelle parole, qualcosa dentro di me si ruppe. Cominciai a non dormire più la notte, di giorno bastava un nonnulla per farmi scoppiare in singhiozzi. Dopo un mese o due venne convocato il pediatra. «La bambina è esaurita», disse, e mi somministrò dell'olio di fegato di merluzzo. Perché non dormivo, perché andavo sempre in giro portandomi dietro la pallina smangiucchiata di Argo, nessuno me l'ha mai chiesto.

È a quell'episodio che faccio risalire il mio ingresso nell'età adulta. A sei anni? Sì, proprio a sei anni. Argo se ne era andato perché io ero stata cattiva, il mio comportamento dunque influiva su ciò che stava intorno.

Influiva facendo scomparire, distruggendo.

Da quel momento in poi le mie azioni non sono state più neutre, fini a se stesse. Nel terrore di fare qualche altro sbaglio le ho ridotte via via al minimo, sono diventata apatica, esitante. La notte stringevo la pallina tra le mani e piangendo dicevo: «Argo, ti prego, torna, anche se ho sbagliato ti voglio più bene di tutti». Quando mio padre portò a casa un altro cucciolo, non volli nemmeno guardarlo. Per me era, e doveva rimanere, un perfetto estraneo.

Nell'educazione dei bambini imperava l'ipocrisia. Ricordo benissimo che

una volta, passeggiando con mio padre vicino a una siepe, avevo trovato un pettirosso stecchito. Senza alcun timore l'avevo preso in mano e glielo avevo mostrato. «Mettilo giù», aveva subito gridato lui, «non vedi che dorme?» La morte, come l'amore, era un argomento che non andava affrontato. Non sarebbe stato mille volte meglio se mi avessero detto che Argo era morto? Mio padre avrebbe potuto prendermi in braccio e dirmi:

«L'ho ucciso io perché era malato e soffriva troppo. Dove sta adesso è molto più felice». Avrei certo pianto di più, mi sarei disperata, per mesi e mesi sarei andata nel luogo in cui era sepolto, attraverso la terra gli avrei parlato a lungo. Poi, piano piano, avrei cominciato a dimenticarlo, altre cose mi sarebbero interessate, avrei avuto altre passioni e Argo sarebbe scivolato in fondo ai miei pensieri come un ricordo, un bel ricordo della mia infanzia. In questo modo, invece, Argo è diventato un piccolo morto che mi porto dentro.

Perciò dico che a sei anni ero grande, perché al posto della gioia ormai avevo l'ansia, a quello della curiosità, l'indifferenza. Erano dei mostri mio padre e mia madre? No, assolutamente, per quei tempi erano delle persone assolutamente normali.

Soltanto da vecchia mia madre ha cominciato a raccontarmi qualcosa della sua infanzia. Sua madre era morta quando lei era ancora bambina, prima di lei aveva avuto un maschio stroncato a tre anni da una polmonite.

Lei era stata concepita subito dopo e aveva avuto la sventura di nascere non solo femmina, ma anche il giorno stesso in cui il fratello era morto.

Per ricordare questa triste coincidenza, fin da lattante era stata vestita con i colori del lutto. Sulla sua culla troneggiava un grande ritratto a olio del fratello. Serviva a farle presente, ogni volta che apriva gli occhi, di essere solo un rimpiazzo, una copia sbiadita di qualcuno migliore. Capisci? Come incolparla allora della sua freddezza, delle sue scelte sbagliate, del suo essere lontana da tutto? Persino le scimmie, se vengono allevate in un laboratorio asettico invece che dalla vera madre, dopo un poco diventano tristi e si lasciano morire. E se risalissimo ancora più su, a vedere sua madre o la madre di sua madre, chissà cos'altro troveremmo.

L'infelicità abitualmente segue la linea femminile. Come certe anomalie genetiche, passa di madre in figlia. Passando, invece di smorzarsi, diviene via via più intensa, più inestirpabile e profonda. Per gli uomini quella volta era molto diverso, avevano la professione, la politica, la guerra; la loro energia poteva andare fuori, espandersi. Noi no. Noi per generazioni e generazioni, abbiamo frequentato soltanto la stanza da letto, la cucina, il

bagno; abbiamo compiuto migliaia e migliaia di passi, di gesti, portandoci dietro lo stesso rancore, la stessa insoddisfazione. Sono diventata femminista? No, non temere, cerco soltanto di guardare con lucidità ciò che sta dietro.

Ti ricordi quando la notte di ferragosto andavamo sul promontorio a guardare i fuochi d'artificio che sparavano dal mare? Tra tutti, ogni tanto ce n'era uno che pur esplodendo non riusciva a raggiungere il cielo. Ecco, quando penso alla vita di mia madre, a quella di mia nonna, quando penso a tante vite di persone che conosco, mi viene in mente proprio quest'immagine – fuochi che implodono invece di salire in alto.

21 novembre

Da qualche parte ho letto che Manzoni, mentre scriveva I promessi sposi, si alzava ogni mattina contento di ritrovare tutti i suoi personaggi. Non posso dire altrettanto di me. Anche se sono passati tanti anni non mi fa nessun piacere parlare della mia famiglia, mia madre è rimasta nella mia memoria immobile e ostile come un giannizzero. Questa mattina, per cercare di mettere un po' di aria tra me e lei, tra me e i ricordi, sono andata a fare una passeggiata in giardino. Durante la notte era caduta la pioggia, verso occidente il cielo era chiaro mentre alle spalle della casa incombevano ancora delle nubi viola. Prima che cominciasse un altro scroscio sono tornata dentro. In breve è sopraggiunto un temporale, in casa era così buio che ho dovuto accendere le luci. Ho staccato la televisione e il frigorifero per non farli danneggiare dai fulmini, poi ho preso la torcia, l'ho messa in tasca e sono venuta in cucina per adempiere al nostro incontro quotidiano.

Appena mi sono seduta però, mi sono resa conto di non essere ancora pronta, forse nell'aria c'era troppa elettricità, i miei pensieri andavano qua e là come fossero scintille. Allora mi sono alzata e con l'impavido Buck dietro ho girato un po' per la casa senza una meta precisa. Sono andata nella camera dove dormivo con il nonno, poi nella mia di adesso – che una volta era di tua madre –, poi nella stanza da pranzo in disuso da tempo, e infine nella tua. Passando da una all'altra mi sono ricordata dell'effetto che mi aveva fatto la casa la prima volta in cui vi ero entrata: non mi era piaciuta affatto. Non ero io ad averla scelta ma mio marito Augusto e anche lui l'aveva scelta in fretta. Avevamo bisogno di un posto dove stare e

non si poteva aspettare oltre. Essendo abbastanza grande e avendo il giardino, gli era parso che questa soddisfacesse tutte le nostre esigenze.

Dall'istante in cui avevamo aperto il cancello mi era parsa subito di cattivo gusto, anzi di gusto pessimo; nei colori e nelle forme non c'era una sola parte che si accordasse con l'altra. Se la guardavi da un lato sembrava uno chalet svizzero, dall'altro, con il suo grande oblò centrale e la facciata del tetto a gradini, poteva essere una di quelle case olandesi che si affacciano sui canali. Se la guardavi da lontano con i suoi sette camini di forma diversa capivi che l'unico luogo in cui poteva esistere era una fiaba. Era stata costruita negli anni Venti ma non c'era un solo particolare che la potesse classificare come una casa di quell'epoca. Il fatto che non avesse un'identità mi inquietava, ho impiegato tanti anni per abituarmi all'idea che fosse mia, che l'esistenza della mia famiglia coincidesse con le sue pareti.

Proprio mentre stavo in camera tua un fulmine caduto più vicino degli altri ha fatto saltare la luce. Invece di accendere la torcia mi sono distesa sul letto. Fuori c'era lo scroscio della pioggia forte, le sferzate del vento, dentro c'erano suoni diversi, scricchiolii, piccoli tonfi, i rumori del legno che si assesta. Con gli occhi chiusi per un attimo la casa mi è parsa una nave, un grande veliero che avanzava sul prato. La tempesta si è calmata soltanto verso l'ora di pranzo, dalla finestra della tua stanza ho visto che dal noce erano caduti due grossi rami.

Adesso sono di nuovo in cucina, nel mio luogo di battaglia, ho mangiato e lavato i pochi piatti che avevo sporcato. Buck dorme ai miei piedi prostrato dalle emozioni di questa mattina. Più passano gli anni, più i temporali lo gettano in uno stato di terrore da cui stenta a riprendersi.

Nei libri che avevo comprato quando tu andavi all'asilo, a un certo punto avevo trovato scritto che la scelta della famiglia nella quale ci si trova a nascere è guidata dal ciclo delle vite. Si hanno quel padre e quella madre perché soltanto quel padre e quella madre ci permetteranno di capire qualcosa in più, di avanzare di un piccolo, piccolissimo passo. Ma se è così, mi ero chiesta allora, perché per tante generazioni si resta fermi?

Perché invece di procedere si torna indietro?

Di recente, sul supplemento scientifico di un giornale, ho letto che forse l'evoluzione non funziona come abbiamo sempre pensato funzionasse. I cambiamenti, secondo le ultime teorie, non avvengono in modo graduale.

La zampa più lunga, il becco di forma diversa per sfruttare un'altra risorsa, non si formano piano piano, millimetro dopo millimetro, generazione dopo generazione. No, compaiono all'improvviso: dalla madre al figlio tutto

cambia, tutto è diverso. A confermarlo ci sono i resti degli scheletri, mandibole, zoccoli, crani con denti diversi. Di tante specie non sono mai state trovate forme intermedie. Il nonno è così e il nipote è colà, tra una generazione e l'altra è avvenuto un salto. Se fosse così anche per la vita interiore delle persone?

I cambiamenti si accumulano in sordina, piano piano e poi a un certo punto esplodono. Tutt'a un tratto una persona rompe il cerchio, decide di essere diversa. Destino, ereditarietà, educazione, dove comincia una cosa, dove finisce l'altra? Se ti fermi anche un solo istante a riflettere vieni colta quasi subito dallo sgomento per il grande mistero racchiuso in tutto questo.

Poco prima che mi sposassi, la sorella di mio padre – l'amica degli spiriti

– mi aveva fatto fare un oroscopo da un suo amico astrologo. Un giorno mi è capitata davanti con un foglio in mano e mi ha detto: «Ecco, questo è il tuo futuro». C'era un disegno geometrico su quel foglio, le linee che univano il segno di un pianeta all'altro formavano molti angoli. Appena l'ho visto ricordo di aver pensato, non c'è armonia qua dentro, non c'è continuità, ma un susseguirsi di salti, di svolte così brusche da sembrare cadute. Dietro l'astrologo aveva scritto: «Un cammino difficile, dovrai armarti di tutte le virtù per compierlo fino in fondo».

Ero rimasta fortemente colpita, la mia vita, fino a quel momento mi era sembrata molto banale, c'erano state sì delle difficoltà ma mi erano parse difficoltà da nulla, più che baratri erano semplici increspature della giovinezza. Anche quando poi sono diventata adulta, moglie e madre, vedova e nonna, non mi sono mai scostata da questa apparente normalità.

L'unico evento straordinario, se così si può dire, è stata la tragica scomparsa di tua madre. Eppure a guardar bene, in fondo, quel quadro delle stelle non mentiva, dietro la superficie solida e lineare, dietro il mio tran tran quotidiano di donna borghese, in realtà c'era un movimento continuo, fatto di piccole ascese, di lacerazioni, di oscurità improvvise e precipizi profondissimi. Mentre vivevo, spesso la disperazione prendeva il sopravvento, mi sentivo come quei soldati che marciano battendo il passo, fermi nello stesso posto. Cambiavano i tempi, cambiavano le persone, tutto cambiava intorno a me e io avevo l'impressione di restare sempre ferma.

Alla monotonia di questa marcia, la morte di tua madre ha dato il colpo di grazia. L'idea già modesta che avevo di me crollò in un solo istante. Se fino a ora, mi dicevo, ho mosso un passo o due, adesso all'improvviso sono retrocessa, nel mio cammino ho raggiunto il punto più basso. In quei giorni ho temuto di non farcela più, mi sembrava che quella minima parte di cose

che avevo compreso fino ad allora fosse stata cancellata in un colpo solo.

Per fortuna non ho potuto abbandonarmi a lungo a questo stato depressivo, la vita con le sue esigenze continuava ad andare avanti.

La vita eri tu: sei arrivata piccola, indifesa, senza nessun altro al mondo, hai invaso questa casa silenziosa e triste delle tue risate improvvise, dei tuoi pianti. Nel vedere la tua testona di bambina oscillare tra la tavola e il divano ricordo di aver pensato che non tutto poi era finito. Il caso, nella sua imprevedibile generosità, mi aveva dato ancora una possibilità.

Il Caso. Una volta il marito della signora Morpurgo mi ha detto che in ebraico questa parola non esiste. Per indicare qualcosa di relativo alla casualità sono costretti a usare la parola azzardo che è araba. È buffo, non ti pare? È buffo ma anche rassicurante: dove c'è Dio non c'è posto per il caso, neppure per l'umile vocabolo che lo rappresenta. Tutto è ordinato, regolato dall'alto, ogni cosa che ti accade, ti accade perché ha un senso. Ho sempre provato una grande invidia per quelli che abbracciano questa visione del mondo senza esitazioni, per la loro scelta di levità. Per quel che mi riguarda con tutta la buona volontà non sono mai riuscita a farla mia per più di due giorni consecutivi: davanti all'orrore, da vanti all'ingiustizia ho sempre indietreggiato, invece di giustificarli con gratitudine mi è sempre nato dentro un gran senso di rivolta.

Adesso comunque mi appresto a compiere un'azione davvero azzardata come quella di mandarti un bacio. Quanto li detesti, eh? Rimbalzano sulla tua corazza come palle da tennis. Ma non ha nessuna importanza, che ti piaccia o no un bacio te lo mando lo stesso, non puoi farci niente perché in questo momento, trasparente e leggero, sta già volando sopra l'oceano.

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