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Sono stanca. Ho riletto quello che ho scritto fino a qui con una certa ansia. Capirai qualcosa? Tante cose si affollano nella mia testa, per uscire si spingono una con l'altra come le signore davanti ai saldi di stagione.

Quando ragiono non riesco mai ad avere un metodo, un filo che con senso logico si dipani dall'inizio alla fine. Chissà, alle volte penso che sia perchè non sono mai andata all'università. Ho letto tanti libri, sono stata curiosa di molte cose, ma sempre con un pensiero ai pannolini, un altro ai fornelli, un terzo ai sentimenti. Se un botanico passeggia per un prato sceglie i fiori con un ordine preciso, sa quello che gli interessa e quello che non gli interessa affatto; decide, scarta, stabilisce relazioni. Ma se per il prato passeggia un gitante, i fiori vengono scelti in modo diverso, uno perché è giallo, l'altro perché azzurro, un terzo perché è profumato, il quarto perché

sta sul bordo del sentiero. Credo che il mio rapporto con il sapere sia stato proprio così. Tua madre me lo rimproverava sempre. Quando ci trovavamo a discutere io soccombevo quasi subito. «Non hai dialettica», mi diceva.

«Come tutte le persone borghesi non sai difendere seriamente ciò che pensi.»

Tanto tu sei pervasa da un'inquietudine selvatica e priva di nome, altrettanto tua madre era pervasa dall'ideologia. Per lei il fatto che parlassi di cose piccole anziché grandi era fonte di riprovazione. Mi chiamava reazionaria e malata di fantasie borghesi. Secondo il suo punto di vista io ero ricca e, in quanto tale, dedita al superfluo, al lusso, naturalmente incline al male.

Da come mi guardava certe volte ero sicura che se ci fosse stato un tribunale del popolo, e lei ne fosse stata a capo, mi avrebbe condannato a morte. Avevo il torto di vivere in una villetta con il giardino invece che in una baracca o in un appartamento di periferia. A quel torto s'aggiungeva il fatto che avevo avuto in eredità una piccola rendita che permetteva a entrambe di vivere. Per non fare gli errori che avevano fatto i miei genitori, mi interessavo a quello che diceva o perlomeno mi sforzavo a farlo. Non l'ho mai derisa né mai le ho fatto capire quanto fossi estranea a qualsiasi idea totalizzante, ma lei doveva percepire ugualmente la mia diffidenza verso le sue frasi fatte.

Ilaria frequentò l'università a Padova. Avrebbe potuto benissimo farla a Trieste, ma era troppo insofferente per continuare a vivermi accanto. Ogni volta che le proponevo di andarla a trovare mi rispondeva con un silenzio carico di ostilità. I suoi studi andavano molto a rilento, non sapevo con chi divideva la casa, non aveva mai voluto dirmelo. Conoscendo la sua fragilità ero preoccupata. C'era stato il maggio francese, le università occupate, il movimento studentesco. Ascoltando i suoi rari resoconti al telefono, mi rendevo conto che non riuscivo più a seguirla, era sempre infervorata per qualcosa e questo qualcosa cambiava di continuo.

Ubbidiente al mio ruolo di madre cercavo di capirla, ma era molto difficile: tutto era convulso, sfuggente, c'erano troppe idee nuove, troppi concetti assoluti. Invece di parlare con frasi proprie Ilaria infilava uno slogan dietro l'altro. Avevo paura per il suo equilibrio psichico: il sentirsi partecipe di un gruppo con il quale divideva le stesse certezze, gli stessi dogmi assoluti, rafforzava in modo preoccupante la sua naturale tendenza all'arroganza.

Al suo sesto anno di università, preoccupata da un silenzio più lungo

degli altri, presi il treno e andai a trovarla. Da quando stava a Padova non l'avevo mai fatto. Appena aprì la porta restò esterrefatta. Invece di salutarmi mi aggredì: «Chi ti ha invitata?» e senza neanche darmi il tempo di rispondere aggiunse: «Avresti dovuto avvertirmi, stavo proprio uscendo.

Stamattina ho un esame importante». Indossava ancora la camicia da notte, era evidente che si trattava di una bugia. Finsi di non accorgermene, dissi:

«Pazienza, vuol dire che ti aspetterò e poi festeggeremo il risultato assieme». Di lì a poco uscì davvero, con una tale fretta che lasciò i libri sul tavolo.

Rimasta sola a casa feci quello che avrebbe fatto qualsiasi altra madre, mi misi a curiosare tra i cassetti, cercavo un segno, qualcosa che mi aiutasse a capire che direzione aveva preso la sua vita. Non avevo intenzionale di spiarla, di compiere opere di censura o inquisizione, queste cose non hanno mai fatto parte del mio carattere. C'era solo una grande ansia in me e per placarla avevo bisogno di qualche punto di contatto. A parte volantini e opuscoli di propaganda rivoluzionaria, per le mani non mi capitò altro, non una lettera, non un diario. Su una parete della sua stanza da letto c'era un manifesto con sopra scritto «La famiglia è ariosa e stimolante come una camera a gas». A suo modo quello era un indizio.

Ilaria rientrò nel primo pomeriggio, aveva la stessa aria trafelata con la quale era uscita. «Come è andato l'esame?» le domandai con il tono più affettuoso possibile. Sollevò le spalle. «Come tutti gli altri», e dopo una pausa aggiunse, «sei venuta per questo, per controllarmi?» Volevo evitare lo scontro, così con tono quieto e disponibile le risposi che avevo un solo desiderio ed era quello di parlare un po' assieme.

«Parlare?» ripeté incredula. «E di cosa? Delle tue passioni mistiche?»

«Di te, Ilaria», dissi allora piano, cercando di incontrare i suoi occhi. Si avvicinò alla finestra, teneva lo sguardo fisso su un salice un po' spento:

«Non ho niente da raccontare, non a te almeno. Non voglio perdere tempo in chiacchiere intimiste e piccolo borghesi». Poi spostò gli occhi dal salice all'orologio da polso e disse: «È tardi, ho una riunione importante. Te ne devi andare». Non le ubbidii, mi alzai ma invece di uscire la raggiunsi, presi le sue mani tra le mie. «Cosa succede?» le domandai, «cosa ti fa soffrire?» Sentivo il suo respiro farsi più svelto. «Vederti in questo stato mi fa male al cuore», aggiunsi. «Anche se mi rifiuti come madre io non ti rifiuto come figlia. Vorrei aiutarti, se tu non mi vieni incontro non posso farlo.» A quel punto il mento cominciò a tremarle come faceva da bambina quando stava per piangere, strappò le sue mani dalle mie e si voltò di

scatto verso l'angolo. Il suo corpo magro e contratto era scosso da singhiozzi profondi. Le accarezzai i capelli, tanto le sue mani erano ghiacciate altrettanto la sua testa era bollente. Si girò di scatto, mi abbracciò, con il viso nascosto sulla mia spalla. «Mamma, disse, io... io...».

In quel preciso istante squillò il telefono.

«Lascialo suonare», le bisbigliai in un orecchio.

«Non posso», mi rispose asciugandosi gli occhi.

Quando sollevò il ricevitore la sua voce era nuovamente metallica, estranea. Dal breve dialogo capii che doveva essere successo qualcosa di grave. Infatti subito dopo mi disse: «Mi dispiace, adesso te ne devi proprio andare». Uscimmo assieme, sulla porta si abbandonò a un abbraccio rapidissimo e colpevole. «Nessuno mi può aiutare», bisbigliò mentre mi stringeva. La accompagnai alla sua bicicletta legata a un palo poco distante. Era già in sella quando infilando due dita sotto la mia collana disse: «Le perle, eh, sono il tuo lasciapassare. Da quando sei nata non hai mai avuto il coraggio di fare un passo senza!»

A tanti anni di distanza questo è l'episodio della vita con tua madre che mi torna con più frequenza in mente. Ci penso spesso. Com'è possibile, mi dico, che di tutte le cose vissute assieme, nei miei ricordi compaia per prima sempre questa? Proprio oggi, mentre me lo domandavo per l'ennesima volta, dentro di me è risuonato un proverbio «La lingua batte dove il dente duole». Cosa mai c'entra, ti chiederai. C'entra, c'entra moltissimo. Quell'episodio torna spesso tra i miei pensieri perché è l'unico in cui ho avuto la possibilità di mettere in atto un cambiamento. Tua madre era scoppiata a piangere, mi aveva abbracciata: in quel momento nella sua corazza si era aperto uno spiraglio, una fessura minima nella quale io avrei potuto entrare. Una volta dentro avrei potuto fare come quei chiodi che si allargano non appena entrano nel muro: a poco a poco si dilatano guadagnando un po' più di spazio. Mi sarei trasformata in un punto fermo nella sua vita. Per farlo avrei dovuto avere polso. Quando lei mi ha detto

«devi proprio andartene» sarei dovuta rimanere. Avrei dovuto prendere una camera in un albergo lì vicino e tornare ogni giorno a bussare alla sua porta; insistere fino a trasformare quello spiraglio in un varco. Mancava pochissimo, lo sentivo.

Invece non l'ho fatto: per vigliaccheria, pigrizia e falso senso del pudore ho obbedito al suo ordine. Avevo detestato l'invadenza di mia madre, volevo essere una madre diversa, rispettare la libertà della sua vita. Dietro la maschera della libertà spesso si nasconde la noncuranza, il desiderio di

non essere coinvolti. C'è un confine sottilissimo, passarlo o non passarlo è questione di un attimo, di una decisione che si prende o non si prende; della sua importanza ti rendi conto soltanto quando l'attimo è trascorso.

Solo allora ti penti, solo allora comprendi che in quel momento non ci doveva essere libertà ma intrusione: eri presente, avevi coscienza, da questa coscienza doveva nascere l'obbligo ad agire. L'amore non si addice ai pigri, per esistere nella sua pienezza alle volte richiede gesti precisi e forti. Capisci? Avevo mascherato la mia vigliaccheria e la mia indolenza con l'abito nobile della libertà.

L'idea del destino è un pensiero che viene con l'età. Quando si hanno i tuoi anni generalmente non ci si pensa, ogni cosa che accade la si vede come frutto della propria volontà. Ti senti come un operaio che, pietra dopo pietra, costruisce davanti a sé la strada che dovrà percorrere. Soltanto molto più in là ti accorgi che la strada è già fatta, qualcun altro l'ha tracciata per te, e a te non resta che andare avanti. È una scoperta che di solito si fa verso i quarant'anni, allora cominci a intuire che le cose non dipendono da te soltanto. È un momento pericoloso, durante il quale non è raro scivolare in un fatalismo claustrofobico. Per vedere il destino in tutta la sua realtà devi lasciar passare ancora un po' di anni. Verso i sessanta, quando la strada alle tue spalle è più lunga di quella che hai davanti, vedi una cosa che non avevi mai visto prima: la via che hai percorso non era dritta ma piena di bivi, ad ogni passo c'era una freccia che indicava una direzione diversa; da lì si dipartiva un viottolo, da là una stradina erbosa che si perdeva nei boschi. Qualcuna di queste deviazioni l'hai imboccata senza accorgertene, qualcun'altra non l'avevi neanche vista; quelle che hai trascurato non sai dove ti avrebbero condotto, se in un posto migliore o peggiore; non lo sai ma ugualmente provi rimpianto. Potevi fare una cosa e non l'hai fatta, sei tornata indietro invece di andare avanti. Il gioco dell'oca, te lo ricordi? La vita procede pressappoco allo stesso modo.

Lungo i bivi della tua strada incontri le altre vite, conoscerle o non conoscerle, viverle a fondo o lasciarle perdere dipende soltanto dalla scelta che fai in un attimo; anche se non lo sai, tra proseguire dritto o deviare spesso si gioca la tua esistenza, quella di chi ti sta vicino.

22 novembre

Questa notte il tempo è cambiato, da est è sceso il vento, in poche ore ha

spazzato via tutte le nubi. Prima di mettermi a scrivere ho fatto una passeggiata in giardino. La bora soffiava ancora forte, si infilava sotto i vestiti. Buck era euforico, voleva giocare, con una pigna in bocca mi trotterellava accanto. Con le mie poche forze sono riuscita a lanciargliela soltanto una volta, ha fatto un volo brevissimo ma lui era contento lo stesso. Dopo aver controllato le condizioni di salute della tua rosa sono andata a salutare il noce e il ciliegio, i miei alberi preferiti.

Ti ricordi come mi prendevi in giro quando mi vedevi ferma ad accarezzare i tronchi? «Cosa fai?» mi dicevi, «non è mica il dorso di un cavallo.» Quando poi ti facevo notare che toccare un albero non è per niente diverso dal toccare un qualsiasi altro essere vivente, anzi è persino meglio, scrollavi le spalle e te ne andavi via irritata. Perché è meglio?

Perché se gratto la testa di Buck, ad esempio, sento sì qualcosa di caldo, di vibrante, ma in questo qualcosa c'è sempre sotto una sottile agitazione. È

l'ora della pappa, che è troppo vicina o troppo lontana, è la nostalgia di te oppure anche soltanto il ricordo di un brutto sogno. Capisci? Nel cane, come nell'uomo, ci sono troppi pensieri, troppe esigenze. Il raggiungimento della quiete e della felicità non dipende mai da lui soltanto.

Nell'albero invece è diverso. Da quando spunta a quando muore, sta fermo sempre nello stesso posto. Con le radici è vicino al cuore della terra più di qualunque altra cosa, con la sua chioma è il più vicino al cielo. La linfa scorre al suo interno dall'alto al basso, dal basso all'alto. Si espande e si ritrae secondo la luce del giorno. Aspetta la pioggia, aspetta il sole, aspetta una stagione e poi l'altra, aspetta la morte. Nessuna delle cose che gli consentono di vivere dipende dalla sua volontà. Esiste e basta. Capisci adesso perché è bello accarezzarli? Per la saldezza, per il loro respiro così lungo, pacato, così profondo. In qualche punto della Bibbia c'è scritto che Dio ha narici larghe. Anche se è un po' irriverente, tutte le volte che ho cercato di immaginare una sembianza per l'Essere Divino mi è venuta in mente la forma di una quercia.

Nella casa della mia infanzia ce n'era una, era così grande che ci volevano due persone per abbracciarne il tronco. Già a quattro o cinque anni, mi piaceva andarla a trovare. Stavo lì, sentivo l'umidità dell'erba sotto il mio sedere, il vento fresco tra i capelli e sul viso. Respiravo e sapevo che c'era un ordine superiore delle cose e che in quell'ordine ero compresa assieme a tutto ciò che vedevo. Anche se non conoscevo la musica, qualcosa mi cantava dentro. Non saprei dirti che tipo di melodia

fosse, non c'era un ritornello preciso né un'aria. Piuttosto era come se un mantice soffiasse con ritmo regolare e potente nella zona vicina al mio cuore e questo soffio, espandendosi dentro tutto il corpo e nella mente, producesse una gran luce, una luce con una doppia natura: quella sua, di luce, e quella di musica. Ero felice di esistere e oltre questa felicità per me non c'era altro.

Ti potrà sembrare strano o eccessivo che un bambino intuisca qualcosa del genere. Purtroppo siamo abituati a considerare l'infanzia come un periodo di cecità, di mancanza, non come uno in cui c'è più ricchezza.

Eppure basterebbe guardare con attenzione gli occhi di un neonato per rendersi conto che è proprio così. L'hai mai fatto? Prova quando te ne capita l'occasione. Togli i pregiudizi dalla mente e osservalo. Com'è il suo sguardo? Vuoto, inconsapevole? Oppure antico, lontanissimo, sapiente? I bambini hanno naturalmente in sé un respiro più grande, siamo noi adulti che l'abbiamo perso e non sappiamo accettarlo. A quattro, cinque anni io ancora non sapevo nulla della religione, di Dio, di tutti quei pasticci che hanno fatto gli uomini parlando di queste cose.

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