Candido, vi sono de’ mali orribili sulla terra. - Che t’importa, soggiunse il dervis, che vi sia del male o del bene? Quando sua altezza spedisce un vascello in Egitto, s’imbarazza ella se i topi vi sieno a lor agio o no? - Che bisogna dunque
fare? disse Pangloss. - Tacere, rispose il dervis. - Io mi lusingava, disse Pangloss
di ragionare un poco con voi degli effetti e delle cause dei migliore de’ mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita.
Il dervis a tali parole gli serrò l’uscio in faccia.
- Nel tempo di questa conversazione si sparse la nuova che erano stati strangolati
a Costantinopoli due visiri del soglio ed il muftì, e che erano stati impalati diversi loro amici. Questa catastrofe fece per tutto un grande strepito di poche ore.
Pangloss, Candido e Martino, ritornando alla villetta s’incontrarono in un buon vecchio, che prendeva il fresco sulla sua porta sotto un pergolato d’aranci; Pangloss che era altrettanto curioso quanto ragionatore, gli dimandò come si chiamava il muftì che era stato strangolato. - Io non so niente, rispose il buon uomo, e non ho mai saputo il nome di alcun muftì, nè di alcun visir, anzi ignoro il
caso di cui mi parlate; son di parere bensì che generalmente coloro che si mescolano negli affari pubblici, qualche volta miseramente periscono, e non
senza lor colpa; ma non m’informo mai ai ciò che si fa a Costantinopoli. Mi contento di mandare a vendervi le frutta del giardino che io coltivo
Dopo tali parole egli fece entrare i forestieri nella sua casa. Due sue figlie, e due suoi figli presentaron loro diverse qualità di sorbetti, che essi facevano, di kaimak macolato, di scorze di cedrato candito, d’aranci, di cedri di limoni, di pistacchi e di caffè di Moca, che non era punto mescolato col cattivo caffè di Batavia e dell’Isole
dopo di che le due ragazze di quel buon musulmano profumarono le barbe a Candido, a Pangloss ed a Martino
- Voi dovete avere, disse Candido al turco, una vasta e magnifica terra. - Io non
ho che venti staja, rispose il turco; le coltivo co’ miei figli, ed il lavoro allontana da noi tre mali: la noja, il vizio e il bisogno.
Candido ritornando alla sua villetta fece delle profonde riflessioni sul discorso del turco, e disse a Pangloss ed a Martino: - Quel buon vecchio sembra che siasi fatta una sorte ben preferibile a quella de’ sei re, co’ quali avemmo l’onore di cenare. - Le grandezze, disse Pangloss, sono molto pericolose, secondo ciò che
ne dicono tutti i filosofi; perchè finalmente Eglon, re de’ Moabiti, fu assassinato da Aod; Assalonne restò appiccato per i capelli e ferito da tre lancie; il re Nadab figlio di Geroboamo, fu ucciso da Zambri; Giosia dal Jehu; Atalia da Jojada; il re Gioachimo, Jeconia, Sedecia andarono schiavi. Voi sapete come perirono Creso,
Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare,
Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d Inghilterra, Odoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia. l’imperatore Enrico IV? Voi sapete… - Io so ancora, disse Candido, che bisogna coltivare il nostro giardino. - Voi avete ragione, ripetè Pangloss, poichè quando l’uomo fu messo nel giardino d’Eden vi fu messo ut operaretur eum, perchè lavorasse; ciò che prova che l’uomo non è nato per il riposo. - Lavoriamo senza ragionare, disse
Martino; questo, è il solo mezzo di render la vita sopportabile.
Tutta la piccola società prese parte in quel lodabile disegno; ciascuno si mise ad
esercitare i suoi talenti. La piccola terra fruttò molto. Cunegonda era invero ben deforme, ma ella divenne un’eccellente pasticciera; la vecchia ebbe cura della biancheria; Pangloss diceva qualche volta a Candido. - Tutti gli avvenimenti sono
concatenati nel miglior de’ mondi possibili, perchè finalmente se voi non foste stato scacciato a pedate da un bel castello per amor di Cunegonda, se voi non foste stato messo all’Inquisizione, se non aveste scorso l’America a piedi, se non
aveste dato una stoccata al barone, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d’Eldorado, voi non mangereste qui dei cedri canditi e de’
pistacchi. - Benissimo detto, rispondea Candido, ma intanto bisogna coltivare il giardino.
PARTE SECONDA
CAPITOLO I (torna all’indice)
Come Candido si separa dalla sua società e ciò che accade
Di tutto ci stanchiamo nella vita; le ricchezze affaticano quei che le possiede; l’ambizione soddisfatta non lascia che rimorsi; le dolcezze dell’amore, a
lung’andare, non son più dolcezze; e Candido, nato a provare tutte le vicende della fortuna, s’annoia ben presto di coltivare il suo giardino. - Maestro Pangloss,
diceva egli, se noi siamo nati nel migliore de’ mondi possibili, mi confesserete almeno che non è un godere della porzione di felicità possibile, il vivere ignoto in
un piccolo angolo della Propontide, senza altri conforti che quelli delle mie braccia, che potrebbero un giorno mancarmi; senz’altri piaceri che quelli che mi procura Cunegonda, che è molto brutta, e, quel ch’è peggio, è mia moglie; senz’altra compagnia che la vostra, che qualche volta m’annoja, o quella di Martino che m’attrista, o quella della vecchia che fa racconti da far dormire in piedi.
Allora Pangloss prese a parlare e disse: - La filosofia c’insegna che le monadi divisibili in infinito, si dispongono con una intelligenza meravigliosa per comporre i differenti corpi che osserviamo nella natura. I corpi celesti son quello che devono
essere: essi descrivono i cerchi che devono descrivere; l’uomo inclina a quel che doveva inclinare: egli è quel che doveva essere, e fa quel ch’ei doveva fare. Voi vi
lamentate, o Candido, perché la monade dell’anima vostra s’annoja; ma la noja è
una modificazione dell’anima, e non impedisce che tutto non sia per il meglio, tanto per voi che per gli altri. Quando mi avete veduto tutto coperto di piaghe, io
non sosteneva meno il mio sentimento; perché se ciò non fosse stato, io non v’avrei incontrato in Olanda, non avrei dato cagione all’anabattista Giacomo di fare un’opera meritoria, non sarei stato impiccato a Lisbona, per edificazione del
prossimo, non sarei qui a sostenervi co’ miei consigli e farvi vivere e morire nell’opinione leibnitziana. Sì, mio caro Candido; tutto è concatenato, tutto è necessario nel migliore de’ mondi possibili; bisogna che il cittadino di Montalbano
istruisca i re: che il vermiciattolo di Quimper-Corentin, critichi, critichi, critichi: che il referendario de’ filosofi si faccia crocifiggere nella strada San Dionigi: che il torzone degli zoccolanti, e l’arcidiacono di San Malò distillino il fiele e la calunnia ne’ lor giornali cristiani, che si portino le accuse di filosofia al tribunal di Melpomene: e che i filosofi continuino a illuminar l’umanità, malgrado gli strepiti di quelle bestie ridicole, che gracchiano nel pantano della letteratura; e quando doveste esser scacciato di nuovo nel più bel de’ castelli a pedate, imparare l’esercizio de’ Bulgari, passar per le bacchette, nuotare dinanzi a Lisbona, essere
crudelissimamente frustato per ordine della santissima Inquisizione, incontrare i medesimi pericoli fra los Padres, fra gli Orecchioni e fra i Francesi; quando doveste finalmente provare tutte le calamità possibili, e non intendere giammai Leibnitz meglio di quel che l’intendo io stesso, voi sosterrete sempre, che tutto è
bene, che tutto è per lo meglio; che il pieno, la materia sottile, l’armonia prestabilita e le monadi sono le più belle cose del mondo, e che Leibnitz è un grand’uomo, fin per quelli che non lo comprendono.
A quel bel discorso, Candido, l’essere il più dolce della natura, benchè avesse ammazzato tre uomini, due de’ quali erano preti, non fece parola, ma annojato del