– Ammiro il vostro gusto, signore – dice il signor Chestle. – Esso vi onora. Immagino che voi non v’interes-482
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siate molto ai luppoli; ma io non sono che un coltivatore di luppoli; e se mai vi venisse il ticchio di passare per quelle parti... le parti di Ashford... per farci una visitina, saremo contenti se vorrete stare con noi quel tempo che vi piacerà.
Ringrazio caldamente il signor Chestle, e gli stringo la mano. Credo d’essere in un sogno incantato. Ballo di nuovo il valzer con la maggiore delle signorine Larkins.
E torno a casa in uno stato di beatitudine ineffabile, e ballo con l’immaginazione tutta la notte, cingendo col braccio la vita azzurra della mia cara divinità. Dopo, per alcuni giorni mi smarrisco in estatiche riflessioni; ma non la veggo né per via né quando vado in casa sua a fare una visita. Sono imperfettamente consolato, per questa delusione, dal sacro pegno, il fiore appassito.
– Trotwood – dice Agnese, un giorno, dopo desinare. –
Indovinate chi si marita domani? Una che voi ammirate!
– Non voi, credo, Agnese?
– Io no – dice Agnese, levando il viso dalla musica che era occupata a copiare. – L’hai saputo, papà?... . La maggiore delle signorine Larkins.
– Col... col capitano Bailey? – ho appena la forza di balbettare.
– No, con nessun capitano. Col signor Chestle, un gran coltivatore di luppoli.
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Precipito in un profondo abbattimento per una settimana o due. Mi tolgo l’anello, indosso gli abiti peggiori, non uso più grasso d’orso, e sospiro sul fiore appassito dell’ex-signorina Larkins. Dopo, piuttosto stanco di questa specie di vita, avendo ricevuto una nuova sfida dal macellaio, getto via il fiore, esco in campo col macellaio, e gloriosamente lo sconfiggo.
Questo, e la ripresa dell’uso dell’anello come del grasso d’orso in moderata quantità, sono gli ultimi segni che m’è dato di discernere nel mio cammino verso i diciassette anni.
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XIX.
GUARDO IN GIRO E FACCIO UNA SCO-
PERTA
Al termine dei miei studi e all’ora di abbandonare la scuola del dottor Strong, non so se in fondo al cuore fossi lieto o triste. V’avevo trascorso un periodo felice, sentivo un grande affetto per il dottore, e occupavo un posto eminente e segnalato in quel piccolo mondo. Per queste ragioni mi dispiaceva d’andarmene; ma per altre ragioni, non tutte serie, v’ero costretto. Vaghe idee d’essere un giovane libero delle proprie azioni, delle cose meravigliose che quel magnifico animale poteva vedere e fare, e dei meravigliosi effetti che non poteva mancare di produrre nel mondo dei grandi, m’attraevano molto.
Pesavano tanto queste considerazioni visionarie sul mio spirito giovanile, che mi sembra, a quanto ora credo, che lasciassi la scuola senza rimpianti. Quella separazione non fece su me l’impressione di altre separazioni. Tento invano di ricordare ciò che sentissi allora, e le circostanze della partenza; ma certo non fu un momento grave della mia vita. Credo che la prospettiva che mi s’apriva dinanzi mi avesse confuso. So che il mio passato di ragazzo pesava poco o nulla allora sulla bilancia; e che la 485
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vita non era altro che una gran bella fiaba, che m’accingevo a leggere.
Mia zia ebbe molti gravi colloqui con me sulla professione alla quale mi sarei dedicato. Per un anno o più m’ero sforzato di trovare una risposta soddisfacente alla domanda ch’ella spesso mi ripeteva: «Che ti piacerebbe d’essere?». Ma io non avevo, a quanto mi sembrava, particolare inclinazione per nulla. Se avessi potuto apprendere per ispirazione la scienza della navigazione, assumere il comando di qualche rapido veliero, e fare un trionfale viaggio di scoperte intorno al mondo, credo che mi sarei considerato perfettamente a posto. Ma, non potendo contare su questa prodigiosa ispirazione, desideravo soltanto di darmi a una professione che non co-stasse troppo gravi sacrifici finanziari a mia zia; e, quale che si fosse, di farvi tutto il mio dovere.
Il signor Dick aveva regolarmente assistito ai nostri colloqui, con una condotta saggia e riflessiva. Diede una sola volta un suggerimento; e in quell’occasione (non so come gli venisse in mente) mi propose a un tratto la professione del calderaio. Mia zia accolse questa proposta con tanta mala grazia, che egli non ne arrischiò una seconda; e si limitò d’allora in poi ad aspettare attentamente le decisioni di lei, e a farsi tintinnare il denaro in tasca.
– Trot, vuoi che ti dica una cosa, mio caro? – disse mia zia una mattina della settimana natalizia, dopo il mio 486
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congedo dalla scuola. – Siccome è un punto difficile da risolvere, e dobbiamo possibilmente cercar di non commettere un errore nella nostra decisione, credo che sarà bene prenderci un po’ di tempo per riflettere. Intanto, devi cercar di considerare la cosa sotto un nuovo aspetto, e non più da studente.
– Cercherò, zia.
– Ho pensato – proseguì mia zia – che un po’ di cambiamento, e un’occhiata al mondo, possano giovarti nell’a-iutarti a conoscere te stesso, e a formarti un giudizio più sicuro. Se tu facessi un viaggetto? Se andassi laggiù di nuovo, per esempio, a vedere quella... quella strana donna dal nome barbaro? – disse mia zia, stropicciandosi il naso, perché a Peggotty non poté mai completamente perdonare il nome.
– Questa è una magnifica idea, zia.
– Bene – disse mia zia – è una fortuna che piaccia anche a me. Ma è naturale e ragionevole che a te debba piacere. E io son persuasa, Trot, che in tutto ciò che farai sarai naturale e ragionevole.
– Lo spero, zia.
– Tua sorella, Betsey Trotwood – disse mia zia – sarebbe stata naturale e ragionevole come nessuna mai. Tu sarai degno di lei, spero.