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La mattina quindi ebbi una chiamata in iscuola, e nel salotto trovai il signor Micawber, che mi annunziò che il pranzo avrebbe avuto luogo secondo s’era fissato.

Quando gli chiesi se il vaglia gli fosse arrivato, egli mi strinse la mano e se n’andò.

Stando alla finestra quella stessa sera, mi sorprese e mi diede qualche inquietudine vedere il signor Micawber passeggiare a braccetto con Uriah; Uriah modestamente penetrato dell’onore che gli veniva fatto, e il signor Micawber blandamente solleticato d’estendere il suo patrocinio ad Uriah. Ma fui anche più sorpreso il giorno 466

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dopo, allorché, recatomi alle quattro, all’invito, appresi dal signor Micawber ch’egli era andato a casa di Uriah, a bervi un ponce con la signora Heep.

– E ti dirò una cosa, mio caro Copperfield – disse il signor Micawber – il tuo amico Heep è un giovane che potrebbe essere presidente della Gran Corte. Se l’avessi conosciuto al tempo che le mie difficoltà erano giunte alla crisi, tutti i miei creditori, credo, sarebbero stati trattati molto meglio di come furono.

Non potevo comprendere come si sarebbe potuto fare, sapendo che il signor Micawber non aveva loro pagato perfettamente nulla; ma non mi piaceva di parere indiscreto. Né osai di dire che m’auguravo che egli non fosse stato molto espansivo con Uriah, e neanche di domandargli se si fosse parlato molto di me. Temevo di ferire la suscettibilità del signor Micawber, o, in ogni caso, quella della signora Micawber, la quale era molto sensibile. Per tutto questo mi sentii a disagio, e ci ripen-sai spesso dopo.

Avemmo un bel desinaretto: un magnifico piatto di pesce, un pezzo di rognone di vitella arrosto, salsicce in padella, una pernice e un budino: c’era il vino, c’era la birra; e dopo desinare la signora Micawber fece lei stessa con le sue mani un bel ponce caldo.

Il signor Micawber fu d’un’indicibile giovialità. Non l’avevo visto mai pieno di tanta festevolezza. Dopo il 467

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ponce, la faccia gli risplendeva, come se fosse stata tutta quanta verniciata. Parlando della città, egli prese un tono allegro e sentimentale, e brindò alla sua prosperità; osservando che lui e la moglie vi avevano passato dei giorni incantevoli, e che non avrebbero mai dimenticato le ore felici di Canterbury. Brindò a me dopo; e lui, e la signora Micawber, e io parlammo della nostra prima conoscenza, e durante i discorsi, vendemmo di nuovo tutta la loro proprietà. Allora io brindai alla signora Micawber; a ogni modo dissi modestamente: «Se mi permettete, signora Micawber, io ora avrò il piacere di bere alla salute vostra, signora». Dopo di che, il signor Micawber pronunciò un elogio del carattere della signora Micawber, dicendo che ella era stata la sua guida, la sua ispira-trice e l’amica, e che mi augurava, quando sarebbe arrivata l’ora di ammogliarmi, di sposare una donna simile, se una donna simile fosse stato possibile trovare.

Finito il ponce, il signor Micawber diventò anche più affettuoso e gioviale.

Salito a bella altezza anche l’animo della signora Micawber, ci mettemmo a cantare: «Tutti allegri, cari amici».

Quando arrivammo a «To’ la mano, caro amico», ci stringemmo le mani a traverso la tavola; e quando di-chiarammo di voler prendere «Per la balza sotto il fico», senza neppur capire che volesse significare, eravamo veramente commossi.

In conclusione, non avevo visto mai nessuno più 468

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completamente allegro del signor Micawber in quella sera, fino all’ultimo momento, allorché diedi un addio cordiale a lui e alla sua amabile moglie. Per conseguenza non ero preparato, alle sette della mattina appresso, a ricevere la seguente comunicazione, datata alle ore nove e mezzo della sera, un quarto dopo che lo avevo lasciato:

«Mio caro giovane amico,

«Il dado è tratto... tutto è finito. Nascondendo la deva-stazione dell’affanno sotto la morbosa maschera dell’allegria, non ti ho informato questa sera, che non v’è speranza del vaglia. In queste circostanze, egualmente umilianti a sopportare, umilianti a contemplare e umilianti a riferire, ho saldato i miei impegni pecuniari contratti in questo locale, col rilasciare un chirografo, pagabile a quattordici giorni data, nella mia residenza, Pentonville, Londra. Quando sarà scaduto, sarà protestato. La folgore è imminente, l’albero deve cadere.

«Che lo sciagurato che ti scrive, mio caro Copperfield, ti serva da faro nella traversata della vita. Si volge a te con questa intenzione, e con questa speranza. Se egli potesse credersi di tanta utilità, un raggio di luce arriverebbe, se mai, a penetrare nella desolata muda della sua rimanente esistenza, benché la sua longevità sia, ora (nella migliore delle ipotesi), estremamente problematica.

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«Questa è l’ultima comunicazione, mio caro Copperfield, che voi mai riceverete

«Dal

«Ramingo

«Mendico

WILKINS MICAWBER».

Fui così turbato dal contenuto di questa lettera straziante, che corsi subito verso il piccolo albergo con l’intenzione di entrarvi, passandovi per andare a scuola, a tentar di addolcire il signor Micawber con una parola di conforto. Ma, a metà strada, incontro la diligenza di Londra col signore e la signora Micawber sull’imperiale; il signor Micawber, che sembrava il ritratto del tranquillo godimento, col collo di una bottiglia che gli usciva dalla tasca interna della giacca, e nell’atto di sorridere alle parole della signora Micawber, la quale mangiava noci da un cartoccio. Siccome essi non mi videro, pensai bene, tutto considerato, di non vederli. Così, tol-tomi un gran peso dallo stomaco, infilai un vicolo che menava dritto a scuola, respirando, in fin dei conti, benché mi stessero vivamente a cuore, per quella loro risoluzione.

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XVIII.

UNO SGUARDO AL PASSATO

I miei giorni di scuola! Lo scorrer silenzioso della mia esistenza... l’occulto, inavvertito sviluppo della mia vita... dalla infanzia alla giovinezza! Che io vegga, mentre do uno sguardo a quella fluente acqua, che ora non è più che un letto asciutto tutto coperto di foglie, se non vi sian tracce lungo le sponde che mi ricordino il suo corso.

Un momento, ed occupo il mio posto nella Cattedrale, dove andavamo tutti quanti, la domenica mattina, racco-gliendoci con quello scopo prima a scuola. L’odor di terra, l’aria senza sole, la sensazione del mondo chiuso al di fuori, il suono dell’organo a traverso le navate e le gallerie arcuate bianche e nere, sono ali che mi riportano indietro, e mi libran su quei giorni, in una specie di dormiveglia.

Io non sono l’ultimo della scuola. In pochi mesi, mi son levato su parecchie teste. Ma il primo della scuola mi sembra uno spirito possente, giunto a grande lontananza, a un’altezza vertiginosa e inaccessibile. Agnese dice

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