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Lo direste subito, se vedeste i suoi mustacchi. Rossi per natura, ma neri per arte.

– Per l’arte vostra, naturalmente – disse Steerforth.

La signorina Mowcher fece un cenno di assenso. –

Fu costretto a ricorrere a me. Non poteva farne a meno.

La tintura non resisteva al clima: poteva correre in Rus-sia, ma non qui. Voi non avete visto mai, in vita vostra, un principe così rugginoso. Pareva ferro vecchio.

– È perciò che lo avete chiamato ciurmadore, in questo momento? – chiese Steerforth.

– Oh, voi siete un bel mobile, veramente! – rispose la signorina Mowcher, scotendo forte il capo. – Ho parlato in generale dicendo che formiamo una magnifica schiera di ciurmadori, mostrandovi in prova le schegge delle unghie del principe. Le unghie del principe mi fan 586

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valere nelle famiglie della nobiltà più di tutte le mie abilità messe insieme. Io le porto sempre in giro. Sono la mia migliore raccomandazione. Se la signorina Mowcher taglia le unghie del principe, non occorre altro. Io le do alle signorine, che le conservano negli album, credo. Ah! ah! ah! parola d’onore, «tutto il sistema sociale» (come dicono nei discorsi al Parlamento) è un sistema di unghie di principe! – disse quell’atomo di donna, tentando d’incrociar le braccia, e scotendo la grossa testa.

Steerforth rideva di cuore, ed io con lui. La signorina Mowcher continuò un bel pezzo a scuotere la testa (che pendeva sempre da un lato), a guardare in alto con un occhio e ad ammiccare con l’altro.

– Bene, bene! – ella disse, battendosi le ginocchia e levandosi. – Ma ora si tratta di lavorare. Su, Steerforth, esploriamo le regioni polari, e finiamola.

Scelse poi due o tre dei suoi strumentini e una boccettina, e chiese (con mia sorpresa) se la tavola fosse solida.

Alla risposta affermativa di Steerforth, spinse una sedia contro la tavola, e invocando l’aiuto della mia mano, salì sulla tavola, come su un palcoscenico.

– Se uno di voi m’ha visto la noce del piede ella disse, quando si ritrovò su sana e salva ditemelo, e correrò a casa a distruggermi. – Io non l’ho vista – disse Steerforth.

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– Neanche io – dissi.

– Bene; allora – disse la signorina Mowcher – acconsen-to a vivere. Ora, figliuolo diletto, venite a mettervi nelle mani del carnefice per essere ucciso.

Questo era un invito a Steerforth d’andarsi a mettere fra le sue mani; e l’amico si sedette di schiena alla tavola, e col viso sorridente rivolto a me, sottomise il capo all’esame di lei, evidentemente con nessun altro scopo che quello di divertirsi. Era uno strano spettacolo veder la signorina Mowcher chinarsi su di lui e guardar con una lente d’ingrandimento quella ricca profusione di capelli neri.

– Siete un bel giovane – disse la signorina Mowcher, dopo una breve osservazione. – In un anno, se non ci fossi io, avreste il cranio calvo come un frate. Un altro mezzo minuto, mio giovane amico, e noi metteremo i vostri riccioli in grado di resistere per altri dieci anni.

Dicendo così, versò un po’ del contenuto di una boccettina su una pezza di flanella, e poi, impartendo un po’ delle virtù di quella miscela a uno spazzolino, cominciò con lo spazzolino e la pezza a sfregare la testa di Steerforth con la maggiore rapidità possibile, non lasciando mai di parlare.

– Conoscete Carlo Pyegrave, il figlio del duca? –

ella disse. – Lo conoscete? – e fece capolino sulla fronte di Steerforth.

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– Un poco – disse Steerforth.

– Che uomo quello! e che favoriti! Se le sue gambe fossero bene appaiate (il che non è) non avrebbero rivali.

Credereste ch’egli ha tentato di far a meno di me... un ufficiale della guardia del corpo, poi!

– Doveva esser matto – disse Steerforth.

– Proprio! Però, matto o sano, ha voluto farne la prova –

rispose la signorina Mowcher. – Che fa, intanto? Va da un profumiere, e domanda una bottiglia d’acqua del Madagascar.

– Lui?

– Proprio lui. Ma non l’hanno l’acqua del Madagascar.

– Che è? Qualche cosa da bere? – chiese Steerforth.

– Da bere? – rispose la signorina Mowcher, fermandosi per dargli uno schiaffo. – Per accomodarsi da sé i favoriti, sapete. V’era una donna nella bottega... una donna attempata... una specie di grifone... che non ne aveva mai sentito parlare, «Domando scusa, signore» – disse il grifone a Carlo – «non è... non è forse il rossetto?»

«Rossetto?» disse Carlo al grifone. «Che credete che debba farmene del rossetto?» «Non vi offendete, signore», disse il grifone, ce lo «domandano sotto tanti nomi, che credevo si trattasse di rossetto». Ora, questo, figlio mio – continuò la signorina Mowcher, sfregando con la maggiore rapidità possibile – è un altro campione di 589

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quei ciurmadori di cui v’ho parlato. Io non dico che non c’entri per qual che cosa anch’io... forse molto, forse poco... ma basta, ragazzo mio... non ci pensiamo.

– In che cosa dite d’entrare? Nel rossetto forse? – disse Steerforth.

– Sommate questo con quello, mio tenero piccioncino –

rispose l’astuta signorina Mowcher toccandosi il naso –

lavoratelo con la regola dei segreti in tutti i commerci, e il prodotto vi darà il risultato che si domanda. Io dico che me ne intendo anch’io un po’, d’abbindolamento.

Una vedova lo chiama balsamo per le labbra. Un’altra lo chiama guanti. Un’altra lo chiama trina. Un’altra lo chiama ventaglio. Io lo chiamo secondo che si vuol meglio. Lo fornisco a tutte, ma è come se non sapessi nulla, ed esse fingono che io non sappia nulla, e con una faccia tale che se lo metterebbero in pubblico come sotto il mio naso. E quando lo servo, a volte mi domandano, e n’hanno un dito sulla faccia, e non c’è da sbagliarsi:

«Come vi pare che io stia, Mowcher? Non vi sembro un po’ pallida?» Ah! ah! ah! ah! Non è delizioso, mio giovane amico?

Non avevo mai in vita mia visto nulla che somigliasse alla signorina Mowcher, mentre stava in piedi sulla tavola, nell’atto di deliziarsi delle sue parole, di sfregare la testa di Steerforth, e d’ammiccare al mio indirizzo.

– Ah! – ella disse. – In queste parti non c’è una gran ri-590

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