– Grazie – dissi – veramente benissimo. Il signor Steerforth sta bene?
– Grazie, signore, il signor Steerforth sta piuttosto bene.
– Un’altra delle sue caratteristiche. Non usava mai su-perlativi. Una fredda e calma espressione media sempre.
– V’è qualche cosa che io posso aver l’onore di far per voi, signore? La campana d’avviso sonerà alle nove; la famiglia fa colazione alle nove e mezzo.
– Nulla, grazie.
– Ringrazio io voi, signore, se permettete; – e con questo, e con un piccolo cenno della testa, quando passò accanto al letto, come chiedendo scusa di avermi corretto, uscì, chiudendo la porta con somma delicatezza, come se mi fossi allora allora addormentato d’un sonno dal 533
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quale dipendesse la mia salvezza.
Ogni mattina avevo con lui esattamente la stessa conversazione: non mai una parola di più; non mai una parola di meno; e pure, invariabilmente, per quanto avessi potuto crescer nella stima di me stesso la sera innanzi, e avviarmi verso un’età più matura, per mezzo della compagnia di Steerforth, o per mezzo delle confidenze della signora Steerforth, o della conversazione della signorina Dartle, io diventavo, in presenza di quell’uomo rispettabile, come cantano i nostri poeti minori,
«di nuovo bambino».
Egli ci procurò dei cavalli; e Steerforth, che sapeva tutto, mi diede delle lezioni di equitazione. Ci provvide di fioretti, e Steerforth mi diede lezioni di scherma: di guantoni, e cominciai, sotto lo stesso maestro, a progredire nel pugilato. Non mi curavo affatto che Steerforth mi trovasse novizio in quelle discipline, ma mi rincre-sceva di mostrar la mia mancanza di abilità innanzi al rispettabile Littimer. Non avevo, alcuna ragione per sospettare che lui s’intendesse di qualche cosa in quelle arti; ché non mi fece mai supporre nulla di simile, neppure da tanto come dalla vibrazione di una delle sue rispettabili palpebre; pure tutte le volte ch’egli era presente, mentre noi ci esercitavamo, mi sentivo il più acerbo e inesperto di tutti i mortali.
Mi diffondo molto intorno a quest’uomo, perché allora mi fece un’impressione particolare, e per quello 534
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che avvenne dopo.
La settimana trascorse piacevolissima. Doveva passare rapidamente per uno affascinato come me; e pure mi diede tante occasioni di conoscere meglio Steerforth, e di ammirarlo per tante e tante ragioni, che alla fine sembrava che io fossi stato con lui per un tempo molto più lungo. Più che altro nei suoi atteggiamenti a mio riguardo, mi piaceva certa maniera disinvolta e scherzosa di trattarmi come un balocco. Mi ricordava la nostra vecchia amicizia, e ne sembrava la naturale conseguenza; mi dimostrava che la nostra amicizia era rimasta inalterata; mi liberava da qualunque impaccio che avrei potuto sentire comparando i miei meriti con i suoi e mi-surando i miei diritti alla sua amicizia a una stregua di eguaglianza: era sopra tutto una condotta familiare, espansiva, affettuosa, che egli non usava con nessun altro. Siccome m’aveva trattato a scuola diversamente da tutti gli altri, io gioiosamente credevo che mi trattasse nella vita diversamente da qualunque altro suo amico.
Credevo d’esser più vicino al cuor suo di chiunque altro e il mio ferveva per lui d’un affetto senza pari.
Egli aveva deciso di venir con me in campagna, e, arrivato il giorno della nostra partenza, stette un po’ in forse se prender o no Littimer con sé, ma poi risolse di lasciarlo a casa. Quell’essere rispettabile, soddisfatto della sua sorte, qualunque fosse, accomodò le nostre va-ligie, come se dovessero resistere all’urto dei secoli, 535
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sulla vetturetta che ci doveva trasportare fino a Londra; e accettò la mancia, che modestamente gli offersi, con perfetta tranquillità.
Dicemmo addio alla signora Steerforth e alla signorina Dartle, con molte grazie da parte mia, e molta cortesia da parte di quella devota madre. L’ultimo oggetto che vidi fu l’inconturbato sguardo di Littimer; carico come immaginavo, della tacita convinzione che io fossi veramente molto giovane.
Non mi sforzerò di descrivere ciò che sentii, tornando, sotto così favorevoli auspici, ai vecchi luoghi familiari.
Vi andammo con la diligenza. Ero così inquieto, ricordo, anche per il nome di Yarmouth, che quando Steerforth disse, mentre attraversammo le viuzze oscure che conducevano all’albergo, che, a quanto gli pareva, il paese era una singolare e strana specie di buco tranquillo, fui estremamente compiaciuto. Andammo subito a letto (vidi un paio di uose e di scarpe accanto alla porta di Delfino, il mio antico conoscente) e facemmo collazione tardi nella mattinata. Steerforth, che era molto allegro, era andato a fare una passeggiata sulla spiaggia prima che io m’alzassi, e aveva fatto conoscenza, mi disse, con la metà dei pescatori del luogo. Inoltre, aveva veduto, di lontano, quella che certamente era l’autentica abitazione del signor Peggotty, col fumo che usciva dal camino; e aveva per un momento avuto l’idea, mi narrò, di andare a presentarsi giurando che fossi io, cresciuto 536
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tanto da non esser più riconoscibile.
– Quando pensi di presentarmici, Margherita? – egli disse. – Io sono a tua disposizione. E tu preparati.
– Pensavo che sarebbe opportuno stasera, Steerforth, quando tutti saranno raccolti intorno al fuoco. Mi piacerebbe che tu vedessi quel luogo nella sua intimità. È
così singolare.
– Benissimo – rispose Steerforth – questa sera.
– Non li avvertirò affatto che noi siamo qui, sai – dissi con compiacenza. – Noi dobbiamo far loro una sorpresa.
– Oh, naturalmente. Non ci divertiremo – disse Steerforth – se non li sorprenderemo. Bisogna veder gl’indigeni nelle loro condizioni aborigene.
– Benché non siano di quella specie che tu credi – risposi.
– Ah, sì! Tu alludi alla mia discussione con Rosa, non è vero? – egli esclamò con un vivo sguardo. – Che Dio la maledica, io ho quasi paura di lei. Mi fa l’effetto d’uno spirito maligno. Ma non ci badare. E ora che si fa? Si va a visitare la tua governante, immagino.
– Ebbene, sì – dissi – debbo vedere Peggotty prima di tutti.
– Bene – rispose Steerforth, consultando l’orologio. –
Se io ti concedessi un paio d’ore per intenerirti e piangere a tuo agio? Ti basterebbero?
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