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– Non va più a Blunderstone? – chiesi.
– Quando sta bene ci va – ella rispose.
– Voi non ci siete andata mai, signora Barkis?
Ella mi guardò più attentamente, e notai un rapido movimento delle sue mani l’una verso l’altra.
– Perché voglio fare una domanda intorno a una casa di Blunderstone che si chiama... si chiama... Il Piano delle Cornacchie – io dissi.
Ella arretrò d’un passo, e allargò le braccia con aria indecisa e sbigottita, come per allontanarmi.
– Peggotty! – le gridai.
Ella esclamò: «Mio caro Davy», e scoppiammo entrambi a piangere, abbracciandoci.
Non ho il cuore di dire quali stravaganze ella commettesse; i suoi scoppi di risa e di pianto; l’orgoglio e la gioia ch’ella mostrava; il dolore che quella di cui io sarei stato l’orgoglio e la gioia non potesse stringermi in un abbraccio affettuoso. A me non venne neppure in mente l’idea che fosse puerile rispondere con la mia commozione alla sua. Non ho mai pianto e riso in tutta la mia vita, neanche con lei, oso dire, con la libertà di quella mattina.
– Barkis sarà contento – disse Peggotty, asciugandosi gli occhi col grembiule: – gli farà più bene la tua venuta che un mucchio di cataplasmi. Posso andare a dirgli che 546
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sei venuto? Salirai a vederlo, caro?
Naturalmente che sarei salito a vederlo. Ma a Peggotty non riuscì d’andar via così facilmente come credeva; perché come si dirigeva alla porta e si voltava, tornava di nuovo a gioire e a piangere di consolazione sulla mia spalla. Finalmente per far la cosa più agevole, salii con lei; e dopo aver aspettato fuori per un minuto, mentre ella diceva una parola di preparazione a Barkis, mi presentai innanzi all’infermo.
Egli mi ricevette con vero entusiasmo. Era afflitto troppo dai reumi per permettersi di stringermi la mano, ma mi pregò di stringergli il fiocco del berretto da notte, cosa che feci cordialmente. Quando mi sedetti accanto al letto, disse che gli faceva non si sa quanto bene a riaver quasi la sensazione che mi stesse conducendo di nuovo sulla strada di Blunderstone. Siccome stava a letto supino e così coperto, che non gli si vedeva altro che la faccia – come i cherubini dipinti – sembrava il più strano essere che io mi fossi mai veduto.
– Che nome scrissi allora sul copertone del carro, signore? – disse Barkis con un piccolo sorriso reumatico.
– Ah! Barkis, noi avemmo una grave conversazione intorno a questo, non è vero?
– Da molto tempo avevo l’intenzione – disse Barkis.
– Da molto – io dissi.
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– E non me ne pento – disse Barkis. – Ricordate che mi diceste una volta che era lei che faceva tutti i dolci a casa vostra, e tutta la cucina?
– Sì, benissimo – risposi.
– Era vero – disse Barkis – come un cocomero. Vero –
disse Barkis, agitando il berretto da notte, che era il solo mezzo di dar forza alla frase – come le tasse. Nulla di più vero.
Barkis volse gli occhi su me, come in attesa del mio consenso a questa sua considerazione maturata in letto; e glielo diedi.
– Nulla di più vero – ripeté il signor Barkis – un povero diavolo come me se ne accorge quando è malato. Non sono povero forse?
– Mi dispiace di apprenderlo, Barkis.
– Sono poverissimo, è la verità – disse Barkis.
A questo punto la destra uscì pianamente e debolmente di sotto la coperta, e, dopo qualche sforzo inutile, riuscì ad abbrancare un bastone appeso al letto. Dopo aver un po’ urtato di qua e di là con quello strumento, mostrando nel viso una varietà di espressioni disperate, urtò contro un baule, un’estremità del quale avevo scorto da tempo.
Allora il viso gli si ricompose.
– Dei panni vecchi – disse Barkis. – Oh! –
esclamai.
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