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avrebbe ceduto e si sarebbe sostenuta con lo stesso pensiero riguardo a qualunque sacrificio per amore del padre, aveva cominciato ad opprimermi fin da quel momento. Sapevo quanto ella gli volesse bene; Sapevo tutta la devozione del suo carattere; avevo appreso dalle sue stesse labbra come ella si reputasse la causa innocente dei trascorsi del padre, e come pensasse d’aver contratto con lui un debito che desiderava ardentemente di pagare. Non derivavo alcuna consolazione dalla conoscenza di quanto ella fosse diversa da quell’ignobile testa rossa col soprabito color tabacco, perché intuivo che in quella sua stessa diversità, nell’abnegazione della pura anima di lei e nella viltà sordida di lui, si nascondeva il pericolo. Tutto questo, senza dubbio, egli sapeva perfettamente, e l’aveva, nella sua scaltrezza, minutamente ponderato. Pure, ero così certo che la prospettiva lontana d’un simile sacrificio avrebbe potuto distruggere la felicità di Agnese; ed ero così sicuro, dai suoi modi, che non l’aveva ancora intraveduto, e che nessuna ombra ancora la turbava, che avrei preferito dirle un’ingiuria ad avvertirla del pericolo. Così fu che ci separammo senza spiegazioni; lei salutandomi con la mano e sorridendo un addio dallo sportello; il suo cattivo genio contorcendosi sull’imperiale, come se già la tenesse trionfalmente fra gli artigli.

Per lungo tempo non potei liberarmi da questa visione.

Quando Agnese mi scrisse per dirmi che era arrivata sana e salva, mi sentii rattristato come nel momento del-683

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la partenza. Tutte le volte che m’accadeva di fantasticare, quella visione non mancava di presentarmisi, e tutta la mia inquietudine non cessava dall’aumentare. Non passava notte che non ci pensassi. Quel pensiero divenne parte della mia vita, e inseparabile dalla mia vita come la testa.

Avevo tutto il tempo di torturarmi a mio agio; perché Steerforth era a Oxford, come mi scriveva, e quando non ero al Commons, io ero sempre solo. Credo che in quel periodo provassi un principio di diffidenza per Steerforth. Gli scrissi affettuosissimamente rispondendo alla sua, ma credo che, dopo tutto, fossi contento ch’egli non venisse a Londra proprio allora. Sospetto, in verità, che avvenisse questo: che l’influenza esercitata su di me da Agnese, che occupava gran parte dei miei pensieri e della mia attività spirituale, avesse maggior potere su di me, quando non era contrastata dalla presenza di Steerforth! Intanto passavano i giorni e le settimane. Io ero allogato da Spenlow e Jorkins. Avevo novanta sterline all’anno (all’infuori della pigione e varie spese affini) da mia zia. Il mio appartamentino era stato appigionato per un anno; e, benché la sera mi fosse uggioso, e le serate fossero lunghe, finii col compormi certa tollerabile melanconia e col rassegnarmi al caffè: che mi sembra, volgendo lo sguardo a quel periodo, prendessi allora non a tazze, ma a secchi. In quel tempo, inoltre, feci tre scoperte: primo, che la signora Crupp era martire d’una strana infermità chiamata «spasimo», generalmente ac-684

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compagnata da arrossamento del naso, che doveva esser costantemente combattuta con l’assenzio; secondo, che qualche cosa di speciale nella temperatura della mia cucina faceva sempre scoppiare le bottiglie d’acquavite; terzo, che ero solo al mondo, e spesso occupato a ricordare questa circostanza in frammenti di poesia inglese.

Il giorno che fui allogato presso Spenlow e Jorkins, non lo festeggiai che col far portare per gli impiegati dello studio dei panini gravidi e del vino di Jerez, e con l’andare a teatro la sera. Fui a vedere Lo «straniero», una specie di dramma alla Doctor’s Commons, che mi ridusse in tale stato che, tornando a casa, appena mi riconobbi allo specchio. Il signor Spenlow osservò, alla conclusione del nostro contratto, che sarebbe stato felice di vedermi in casa sua a Norwood per festeggiare le relazioni che s’erano strette fra noi; ma il suo impianto domestico non era ancora in perfetto assetto, perché aspettava il ritorno della figliuola recatasi a Parigi a compiere la sua educazione. Aggiunse però che al ritorno della figliuola egli si riprometteva il piacere di ricevermi sotto il suo tetto. Sapevo che era rimasto vedovo con un’unica figlia; e lo ringraziai per la sua benevolenza.

Il signor Spenlow mantenne la promessa. Una quindicina di giorni dopo, ricordando le sue parole, mi disse che se avessi voluto fargli il favore di andar giù a Norwood il prossimo sabato, per starvici fino al lunedì, ne sarebbe stato sommamente felice. Naturalmente gli dis-685

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si che ero dispostissimo a dargli questo piacere. Fu stabilito che m’avrebbe condotto e ricondotto indietro lui nella sua vettura.

Arrivato quel giorno, perfino la mia valigetta era diventata un oggetto di venerazione fra gli impiegati, per i quali la casa di Norwood era un mistero sacro. Uno di essi mi informò d’aver saputo che il signor Spenlow mangiava esclusivamente in piatti d’argento e porcellana finissima; e un altro accennò che usava sciampagna a tutto pasto, come gli altri la birra. Il vecchio impiegato in parrucca, signor Tiffey, s’era recato laggiù per affari parecchie volte nel corso della sua carriera, e in tutte quelle occasioni era penetrato fin nella sala da pranzo.

Egli la descriveva come una meraviglia di sontuosità, dicendo di avervi bevuto certo vino delle Indie Orientali che faceva chiuder gli occhi per la delizia.

Avevamo quel giorno nel Concistoro una causa che aveva già subito un rinvio. Si trattava di far condannare un fornaio che s’era ostinato a non pagare alla parrocchia certa tassa stradale. Siccome l’incartamento era il doppio preciso di Robinson Crusoe, secondo il calcolo che ne feci, alla chiusura era già abbastanza tardi nella giornata. A ogni modo, lo facemmo scomunicare per sei settimane, e condannare a infinite spese; e poi il procuratore del fornaio, e il giudice, e gli avvocati di entrambe le parti (che erano tutti parenti prossimi) partirono insieme per la campagna, e io e il signor Spenlow salimmo nella 686

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vettura.

La vettura era elegantissima: i cavalli inarcavano i colli e sollevavano le gambe, come se sapessero di apparte-nere al Doctor’s Commons. C’era allora una viva gara nel Commons per ogni genere di sfoggio mondano, e si potevan vedere molti equipaggi sontuosi. Pur nondimeno ho sempre creduto, e sempre crederò ché al tempo mio l’oggetto intorno a cui la gara si manteneva più attiva fosse l’amido che s’usava fra i procuratori in quantità strabocchevole, fino all’estrema capacità della natura umana.

Il nostro viaggetto fu piacevolissimo, e il signor Spenlow nel frattempo mi diede qualche informazione sulla mia professione. Disse che era la più nobile professione del mondo, e non doveva per nulla affatto confondersi con quella dell’avvocato; perché era diversa, infinitamente più eletta, meno volgare, e più lucrosa. Noi tratta-vamo le cose nel Commons, egli osservò, con maggior agio di quanto si potesse fare altrove, cosa che ci metteva, come classe privilegiata, a parte. Aggiunse ch’era impossibile nascondere la spiacevole circostanza, che eravamo principalmente impiegati dagli avvocati; ma mi fece comprendere che essi erano d’una razza inferiore, universalmente disprezzati da tutti i procuratori di un certo merito.

Domandai al signor Spenlow quale, secondo lui, fosse la migliore specie di affari professionali. Mi disse che 687

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il migliore di tutti, forse, era il caso d’un testamento contestato, che comprendesse un fondo di trenta o qua-rantamila sterline. Allora – egli diceva – non solo vi erano da fare delle belle raccolte di emolumenti a traverso montagne e montagne di testimonianze negli interrogatori e nei controinterrogatori (per non dir nulla degli appelli che si potevano promuovere prima innanzi alla Corte dei delegati e poi alla Camera dei Pari); ma, per la certezza che le spese sarebbero infine uscite dalla proprietà in contestazione, si andava da entrambe le parti allegramente avanti senza badare a denaro. Poi si lanciò in un elogio generale del Commons. Ciò che v’era particolarmente da ammirare (egli diceva) nel Commons, era la sua solidità. Era in questo mondo l’istituzione meglio organizzata. Dava la perfetta idea della comodità. Era contenuta in un guscio di noce. Per esempio: voi porta-vate un caso di divorzio, o di rivendicazione, nel Concistoro. Benissimo. Si tentava nel Concistoro. Giocavate tranquillamente a carte, in un crocchio familiare, a tutto vostro agio. Facendo l’ipotesi che non foste soddisfatto del Concistoro, che facevate allora? Ebbene, vi rivolge-vate alla Corte d’appello ecclesiastica. Che era la Corte d’appello ecclesiastica? La stessa Corte, nella stessa sala, lo stesso banco e gli stessi consiglieri, ma con un altro giudice, perché il giudice del Concistoro poteva perorare come avvocato, quando gli pareva e piaceva, innanzi alla Corte d’appello ecclesiastica. Bene, facevate ancora la vostra partita a carte. Neanche allora eravate 688

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soddisfatto? Benissimo. Che facevate allora? Potevate rivolgervi alla Corte dei Delegati. Chi erano i Delegati?

Ebbene, i Delegati ecclesiastici erano gli avvocati senza causa, che avevano assistito alla partita giocata in tutte e due le Corti, che avevan visto mescolare, alzare e distribuire le carte; e n’avevano parlato a tutti i giocatori, e che ora arrivavano freschi, come giudici, a regolare la faccenda con soddisfazione di tutti. I malcontenti possono parlare a loro agio di corruzione del Commons, di insufficienza del Commons, e della necessità di riformare il Commons – disse il signor Spenlow solennemente a mo’ di conclusione; ma quando il prezzo dello staio di grano era salito più alto, il Commons aveva avuto più cause da trattare; e si può dire al mondo intero con la mano sul cuore «Toccate il Commons, e il paese crolle-rà».

Avevo ascoltato tutta questa tiritera con molta attenzione, e benché, debbo dire, avessi i miei dubbi sul gran debito del paese verso il Commons, accettai rispettosamente quella opinione. Quanto alla faccenda dello staio di grano, modestamente comprendevo ch’era superiore alla mia capacità, ma che, a ogni modo, metteva a posto ogni cosa. Non ho potuto ancora rimettermi, finora, dall’effetto di quello staio di grano. Esso è ricomparso, in tutto il corso della mia vita, in relazione con tutte le specie di soggetti, sempre per annientarmi. Non so ora.

esattamente, che abbia da fare con me, o che diritto abbia di schiacciarmi in una infinita varietà di occasioni; 689

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ma tutte le volte che veggo quel vecchio staio ritto su una testa o su due spalle (come è sempre portato, credo), ritengo che la mia causa sia senz’altro bell’e spacciata.

Ma questa è una divagazione. Non ero io l’uomo da toccare il Commons, e far crollare il paese. Col mio silenzio, espressi sommessamente la mia accettazione di tutto ciò che avevo appreso dal mio superiore d’anni e di dottrina; e poi parlammo del dramma «Lo Straniero», e della pariglia della vettura, finché si arrivò innanzi al cancello del signor Spenlow.

V’era un bel giardino intorno alla casa del signor Spenlow; e benché quella non fosse la stagione adatta per vedere un giardino, era così ben tenuto, che rimasi addirittura incantato. Vi era un bel prato, v’erano gruppi d’alberi, e dei lunghi viali arcuati, appena visibili al buio, che s’allontanavano a perdita d’occhio, e a primavera si riempivano di arbusti e di fiori. «Qui passeggia sola la signorina Spenlow – pensai. – Che bellezza!».

Entrammo nella casa, allegramente illuminata, e in un vestibolo gremito d’ogni specie di cappelli, cappellini, soprabiti, scialli, guanti, staffili e mazze.

– Dov’è la signorina Dora? – disse il signor Spenlow al domestico.

«Dora! – pensai. – Che bel nome!»., Entrammo in una sala attigua (credo che fosse l’identica sala da pranzo resa memorabile dal vino bruno dell’In-690

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dia Orientale) e sentii una voce dire: «Signor Copperfield, mia figlia Dora, e l’amica di fiducia di mia figlia Dora». Senza dubbio era la voce del signor Spenlow, ma non la riconobbi e non mi curai di saper di chi fosse.

Tutto avvenne in un momento. Il mio destino s’era compiuto. Ero schiavo e prigioniero. Amavo Dora Spenlow alla follia!

Ella mi parve più che un essere umano. Era una fata, una silfide, non so che fosse – un non so che, che nessuno aveva visto mai, e che tutti cercavano ardentemente.

Fui in un istante inghiottito in un abisso d’amore. Senza una sosta sull’orlo; senza uno sguardo giù, o uno sguardo indietro; ero precipitato a capofitto, prima di aver lo spirito di dirle una parola.

– Ho già conosciuto il signor Copperfield, io – osservò una voce che ben ricordavo, quando ebbi fatto un inchino e mormorato non so quali parole.

Non era stata Dora a parlare. No: l’amica di fiducia, la signorina Murdstone.

Non credo che mi meravigliassi di quell’incontro. Mi sembra che avessi perduto la facoltà di meravigliarmi.

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