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Partimmo presto la mattina, perché avevamo innanzi alla Corte dell’Ammiragliato un caso di salvataggio, per il quale era necessaria una minuta conoscenza di tutta la dottrina della navigazione; ma giacché non si poteva sperare che se ne sapesse molto al Commons di simili cose, il giudice aveva pregato due professori pi-loti di venirgli per carità in aiuto. Dora però era alla tavola della colazione a far di nuovo il tè; e io ebbi il melanconico piacere di cavarmele il cappello dalla vettura, mentre ella stava dritta sullo scalino dell’ingresso con Jip in braccio.

Che cosa mi sembrasse quel giorno la Corte dell’Ammiragliato; che guazzabuglio facessi mentalmente della nostra causa, mentre vi assistevo; come vedessi «Dora», 703

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inciso sulla pala del remo d’argento che si metteva sul banco, come emblema di quell’alta giurisdizione; e come mi sentissi quando il signor Spenlow se ne andò a casa senza di me (avevo la folle speranza che mi conducesse di nuovo con lui), come se anch’io fossi un marinaio, e la nave alla quale appartenevo fosse salpata lontano, lasciandomi in un’isola deserta; non farò inutili sforzi per descrivere. Se quella vecchia Corte addormentata si potesse destare e le fosse possibile presentare in forma visibile i sogni ad occhi aperti che io vi feci su Dora, accerterebbe la verità di ciò che dico.

Non intendo i sogni che sognai solo quel giorno, ma di giorno in giorno, da una settimana all’altra, da una sessione all’altra. Andavo nella Corte, non per badare a ciò che vi si svolgeva, ma per pensare a Dora. Se mai davo un pensiero alle cause, nell’atto che si trascinavano e snodavano lentamente innanzi a me, era soltanto per domandarmi, nei processi matrimoniali (ricordando Dora), come mai quelle persone coniugate potessero avere altro sentimento che quello della felicità; e, nei casi di successione, per considerare, nell’ipotesi che il patrimonio in contestazione l’avessi ereditato io, quali sarebbero stati i primi passi che avrei fatto nei riguardi di Dora.

Nella prima settimana della mia passione, comprai quattro magnifiche sottovesti – non per me, ché non vi mettevo alcun orgoglio: per Dora – e cominciai a portare a passeggio dei guanti color paglia, e gettai allora le fondamenta di tutti i calli ai piedi dei quali poi sarei stato 704

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martire. Se le scarpe che portavo allora potessero esser viste ora e confrontate con le dimensioni naturali dei miei piedi, dimostrerebbero, in commovente maniera, quale fosse allora lo stato del mio cuore.

E pure, disgraziato storpio come mi riducevo con quell’atto d’omaggio a Dora, camminavo miglia e miglia tutti i giorni nella speranza di vederla. Non solo divenni subito notissimo sulla strada di Norwood, come i portalettere che la battono di continuo, ma invasi parimenti Londra. M’aggiravo per le vie dove erano i più eleganti negozi di mode, frequentavo il Bazar come uno spirito irrequieto, mi stremavo attraverso il Parco per ore ed ore, dopo che m’ero già spiedato. A volte, a lunghi intervalli e in rare occasioni, la incontravo. Forse la vedevo accennare con la mano inguantata dallo sportello d’una carrozza; forse la incontravo, facevo quattro passi con lei e la signorina Murdstone, e le dicevo qualche parola. Nell’ultimo caso, dopo mi sentivo sempre infelice, pensando di non averle detto nulla di importante; o che essa non avesse la minima idea dell’immensità della mia devozione, e non si curasse affatto di me. Aspettavo continuamente, come è facile immaginare, un nuovo invito a casa del signor Spenlow. Ma era una delusione tutti i giorni, perché d’invito non si parlava neanche.

La signora Crupp doveva essere una donna di grande penetrazione; perché quando la mia passione non aveva che l’età di poche settimane, e non ancora avevo avuto 705

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il coraggio di scrivere ad Agnese più chiaramente di così: che ero stato in casa del signor Spenlow, «la cui famiglia, aggiungevo, è composta d’un’unica figlia» – la signora Crupp, anche in quel primo periodo, la scoprì.

Venne su una sera, che ero molto melanconico, per chiedermi se potevo farle il piacere (afflitta com’era dal male già menzionato) di darle un po’ di tintura di carda-momo mischiata col rabarbaro e profumata con sette gocce di essenza di garofano, che era il miglior rimedio contro il suo male – o, se non l’avessi, un po’ d’acquavite che era il miglior succedaneo di quella miscela. Non la gradiva molto, essa notò, ma non c’era altro di meglio dopo la tintura. Siccome non avevo mai sentito parlare del primo medicamento, e avevo sempre una bottiglia dell’altro nell’armadio, diedi alla signora Crupp un bicchiere dell’altro; ed ella cominciò (per allontanare il sospetto che potesse usarlo diversamente) a berselo seduta stante.

– Allegramente, signore – disse la signora Crupp. – Non mi regge il cuore di vedervi così, signore; sono madre anch’io.

Non compresi affatto l’applicazione di simile circostanza a me, ma sorrisi alla signora Crupp con tutta l’affabilità di cui ero capace.

– Su, signore – disse la signora Crupp. – So di che si tratta. C’è una signorina fra mezzo.

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– Signora Crupp? – risposi arrossendo.

– Oh, Dio vi benedica! Fatevi coraggio, signore – disse la signora Crupp, facendo un gesto di consolazione. –

Non vi abbattete. Se lei non vi sorride, ne troverete quante ne volete. Voi siete un giovane al quale sorride-rebbe qualunque ragazza, se ancora non lo sapete, signor Copperfull.

La signor Crupp mi chiamava sempre signor Copperfull: primo, senza dubbio, perché non era il mio nome; secondo, chi sa per quale misteriosa ragione.

– Che cosa vi fa credere che vi sia qualche signorina fra mezzo, signora Crupp? – dissi.

– Signor Copperfull – disse la signora Crupp, con sentimento; – sono madre anch’io.

Per qualche istante la signora Crupp non poté che metter la mano sul suo seno di cotone giallo, e fortificarsi contro un nuovo assalto del male con frequenti sorsi della medicina. Finalmente parlò di nuovo.

– Quando vostra zia vi prese questo appartamento, signor Copperfull – disse la signora Crupp – le mie parole furono che avevo finalmente trovato qualcuno a cui accudire. «Grazie al Cielo! – furono le mie espressioni –

ho trovato qualcuno a cui accudire». Voi non mangiate abbastanza, signore, e neppure bevete.

– E su questo che basate la vostra supposizione? – dissi.

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– Signore – disse la signora Crupp, con un tono che si avvicinava alla serietà – ho avuto altri giovani a dozzina prima di voi. Un giovane o si cura troppo d’apparire o si trascura troppo. Non fa altro che pettinarsi e lisciarsi, o non si pettina mai. Porta le scarpe o troppo larghe o troppo strette. Secondo il carattere del giovane. Ma fra questi estremi, signore, potete giurare che c’è sempre una signorina.

La signora Crupp scoteva il capo in maniera così risoluta, che non mi lasciava campo a ribattere.

– Perfino il signore che morì qui prima di voi –

disse la signora Crupp – s’innamorò... della cameriera d’un caffè... e si fece, perché s’era gonfiato dal troppo bere, restringere subito la sottoveste.

– Signora Crupp – dissi – debbo pregarvi di non confondere la mia signorina con la cameriera d’un caffè o con altra ragazza simile.

– Signor Copperfull – rispose la signora Crupp –

sono madre anch’io, e questo non è possibile. Vi chieggo scusa se mi mischio nei fatti vostri. Non mi mischio mai in nulla di ciò che non mi riguarda. Ma voi siete giovane, signor Copperfull, e il mio Consiglio è di stare allegro, di non scoraggiarvi, e di ricordarvi che qualunque ragazza sarebbe felice di sorri-dervi. Se potete occuparvi a qualche cosa, ora – disse la signora Crupp – esercitatevi al gioco dei birilli, che 708

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fa bene alla salute: vi distrarrà un poco e vi manterrà in forze.

Con queste parole, la signora Crupp, attenta in apparenza a non far versare l’acquavite, che era sparita tutta, mi ringraziò maestosamente, e se n’andò. Come la persona scomparve nel buio dell’ingresso, il suo consiglio mi si presentò alla mente come una strana libertà da parte della signora Crupp; ma, nello stesso tempo, considerandolo sotto un altro aspetto, ne fui contento, come d’un avvertimento di custodir meglio il mio segreto per l’avvenire.

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XXVII

Are sens