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Qualcuno s’era affacciato al terrazzino della mia camera da letto per rinfrescarsi la fronte contro la pietra fredda della balaustrata, e sentirsi soffiare l’aria fresca in viso. Quel qualcuno ero io, che mi rivolgevo un’apostrofe, dicendo: «Copperfield, perché hai voluto fumare? Dovevi pur saperlo che non potevi!» Poi qualcuno, malfermo sulle gambe, contemplava le proprie fattezze nello specchio. Ed ero ancor io, pallidissimo nel cristal-lo, con gli occhi dallo sguardo vago; e i capelli – solo i capelli, veh! – ubbriachi.

Qualcuno mi disse: «Andiamo a teatro, Copperfield!» Innanzi a me non c’era più la camera da letto; ma la tavola tintinnante coperta di bicchieri; il lume; Grainger a destra, Markham a sinistra, e Steerforth di contro... tutti seduti nella nebbia in distanza. Il teatro? Certo. Magnifica idea. Avanti! Ma dovevano scusarmi se lasciavo prima uscire tutti, spegnevo il lume...

non si sapeva mai, un incendio!

Era successa qualche confusione al buio, perché la porta non c’era più. Stavo cercandola fra le tende del terrazzino, quando Steerforth, ridendo, mi prese per il braccio e mi condusse fuori. Scendemmo la scalinata uno dietro l’altro. Agli ultimi gradini qualcuno cadde, e rotolò in fondo. Qualcun altro disse che era Copperfield. Io m’irritai di questa falsa asserzione, ma poi, trovandomi steso di schiena nell’andito, cominciai a pensare che vi potesse essere un fondo di vero.

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Che serata folta di nebbia, con grandi cerchi intorno ai fanali nelle strade! Sentii vagamente parlare che fosse umida. A me parve addirittura ghiacciata. Steerforth mi spolverò sotto un fanale, e m’assestò il cappello, che qualcuno aveva raccattato non so dove, meravigliosamente, perché io non l’avevo in testa. Steerforth allora mi disse: «Come ti senti, Copperfield, ti senti bene?», e io gli dissi: «Maicosìbene».

Una persona che stava nel buco d’una colombaia, apparve nella nebbia, e prese del denaro da qualcuno, domandando se io fossi uno di quelli per i quali si pagava l’ingresso, e parve esitasse (come ricordo quella rapida occhiata!) ad accettare il denaro per me. Poco dopo, stavamo in alto in un teatro molto caldo a guardare giù in platea che mi sembrava tutta vaporante; così poco discerne-vo le persone di cui era gremita. V’era anche una gran scena, molto pulita e liscia dietro le vie, e poi della gente che passeggiava, e parlava di questo e di quello, ma in maniera inintelligibile. Vi era abbondanza di luci, v’era musica, vi erano signore nei palchi, e non so che altro. Mi sembrava che tutto l’edificio, a vedere le strane oscillazioni che faceva quando tentavo di fissarlo, stesse imparando il nuoto.

Al cenno di qualcuno, decidemmo d’andar giù nei palchi delle signore. Vidi un signore, inappuntabilmente vestito, sdraiato su un divano, con un binocolo fra le dita, passarmi innanzi agli occhi, e poi la mia persona in 643

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piedi in uno specchio. Fui quindi spinto in uno di quei palchi, e mi trovai a dir qualche cosa mentre mi sedevo, e alcune persone intorno gridarono a qualcuno: «Silenzio!», e alcune signore mi gettarono delle occhiate d’indignazione, e – che? sì! – scorsi Agnese seduta dinanzi a me nello stesso palco, fra una signora e un signore, che non conoscevo. Veggo ora il suo viso, meglio di allora, oso dire, volgersi verso di me con una espressione incancellabile di rammarico e di stupore.

– Agnese! – dissi, goffamente. – Bontàdelcielo! – Agnese!

– Zitto! Per carità! – ella rispose, e io non sapevo indovinare perché. – Non disturbate. Guardate lo spettacolo.

Tentai a quell’ordine di stare attento allo spettacolo, e di udire qualche cosa di ciò che si diceva sulla scena, ma invano. Guardai lei di nuovo, e la vidi nascondersi nel suo cantuccio, e mettersi la mano guantata alla fronte.

– Agnese – io dissi: – hopaurachevisentiatemale.

– No, no, non pensate a me, Trotwood, – ella rispose. –

Sentite! Ve n’andate via subito?

– Andarviasubito? – ripetei.

– Sì.

Avevo la sciocca idea di rispondere che avevo intenzione di aspettarla, per darle il braccio all’uscita. Immagino che glielo dicessi in qualche modo, perché dopo avermi 644

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guardato attentamente per alcuni istanti, sembrò comprendere, e rispose sottovoce:

– So che farete ciò che io vi domando, se vi dico che non ci tengo. Andate via, Trotwood, per amor mio, e dite ai vostri amici di accompagnarvi a casa.

Ero già così trasformato, per l’effetto della sua presenza, che benché mi sentissi adirato contro di lei, fui assalito da un senso di vergogna, e con un brusco Buoera (che voleva dir Buonasera) mi levai, ed uscii. Mi seguirono tutti, e non feci che un salto dall’uscio del palco alla mia camera da letto, dove non c’era che Steerforth, il quale m’aiutava a spogliarmi, mentre gli dicevo che Agnese era mia sorella, e lo scongiuravo a volta a volta di darmi il cavaturaccioli per stappare un’altra bottiglia. Qualcuno, coricato nel mio letto, stette tutta la notte a dire e ripetere le stesse cose, a sproposito, in un sogno febbrile, cullato da un mare in continua agitazione. Come quel qualcuno gradatamente si concretò in me, cominciai ad ardere, e a sentir come il mio involucro esterno di pelle fosse una tavola dura; la lingua il fondo di una caldaia vuota, che, raggrumato dal lungo uso, ardesse su un fuoco lento; le palme delle mani, roventi lastre di metallo che neppure il ghiaccio riuscisse a raffreddare.

Ma ahi, l’angoscia, il rimorso e la vergogna che sentii la mattina appresso, riacquistando coscienza di me! Ahi, l’orrore di aver detto cento sciocchezze che avevo dimenticate, e alle quali non era più possibile riparare!

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Ahi, il ricordo di quell’indimenticabile sguardo di Agnese – la tortura di non poter comunicar con lei, non sapendo, bestia che non ero altro, com’ella si trovasse a Londra, e dove dimorasse! Ah, il disgusto che mi dava la sola vista della stanza del bagordo – la testa che mi faceva male – l’odore del fumo, lo spettacolo dei bicchieri, l’impossibilità di uscire o anche di levarmi! Oh, che giornata che fu quella!

E che sera quando, seduto accanto al fuoco innanzi a una tazza di brodo, tutta macchiata di grasso, pensai che m’ero messo sulle orme del mio predecessore, e che mi sarebbe stato riservato lo stesso suo triste destino, come mi era stato riservato il suo appartamento. Ebbi quasi l’idea di correre a Dover a rivelare tutto! Che sera, quando la signora Crupp, entrando per portar via la tazza , mi presentò un solo rognone, un unico rognone su un piattino, come l’unico avanzo dell’orgia della vigilia, ed io fui lì lì per cadere sul suo petto di cotone giallo, e gridarle, in un sincero trasporto di sentimento: «Oh, signora Crupp, signora Crupp, non mi parlate di avanzi!

Quanto sono infelice!» Solo mi trattenne il pensiero che forse, anche in quel caso, la signora Crupp non era il tipo di donna in cui versare la piena delle proprie ama-rezze.

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XXV.

BUONI E CATTIVI ANGELI

La mattina dopo quella triste giornata di mal di capo, di abbattimento e pentimento, stavo sulla porta per uscire, con una strana confusione in mente riguardo alla data di quel desinare sciagurato, come se un gruppo di titani avesse con un’enorme leva ricacciato l’antivigilia indietro di alcuni mesi, quando per le scale vidi salire un fattorino con una lettera in mano. Saliva con tutta comodità e lentezza; ma quando si vide guardato dall’alto della ringhiera, si diede immediatamente a un bel trotto, e arrivò su ansante, come spossato dalla corsa.

– Il signor T. Copperfield? – disse il fattorino, toccandosi il cappello con un bastoncino, Il pensiero che la lettera venisse da Agnese mi turbò così, che a pena ebbi la forza di rispondere che quel nome mi apparteneva. A ogni modo, gli dissi che T.

Copperfield ero io; ed egli mi credette, e consegnando-mi la lettera mi disse che attendeva la risposta. Lo lasciai sul pianerottolo ad attendere la risposta, e rientrai in casa, chiudendo la porta, in uno stato di tanta confusione che fui costretto a deporre sul tavolo della colazione la lettera, per contemplare un po’ la soprascritta, 647

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prima di risolvermi a romperne il suggello.

Apertala, trovai un biglietto molto affettuoso, senza allusione alcuna allo stato in cui ero apparso a teatro.

Diceva così: «Mio caro Trotwood. Sono in casa del signor Waterbrook, agente di papà, in Ely Place, Holborn.

Venite oggi a trovarmi, e ditemi a qual ora. Sempre vostra affezionatissima Agnese».

Mi ci volle tanto tempo per scrivere una risposta che mi soddisfacesse completamente, che non so che ne pensasse il fattorino, il quale dové forse credere che io stessi imparando a scrivere. Feci almeno una dozzina di risposte. Ne cominciai una: «Come posso mai sperare, mia cara Agnese, di cancellar dalla vostra memoria la nauseante impressione... » ma non mi piaceva, e la lacerai.

Ne cominciai un’altra: «Shakespeare ha osservato, mia cara Agnese, come sia strano che l’uomo debba andare a cacciarsi un nemico in bocca... » ma a questo punto la interruppi. Provai persino la poesia. Cominciai un biglietto in versi di sei sillabe, e lo piantai. Dopo molti altri tentativi scrissi: «Mia cara Agnese. La vostra lettera somiglia perfettamente a voi, e che cosa di più commendevole mi sarebbe possibile dire? Verrò alle quattro. Affettuosamente e tristemente. T. C.». Con questo messaggio (che fui venti volte sul punto di farmi ridare, appena m’uscì dalle mani) finalmente il fattorino partì.

Are sens