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– Sicuramente – disse il signore. – Non vi son razze di cavalli o razze di cani che io non abbia allevate. Per certuni i cavalli e i cani rappresentano un capriccio. Per me sono mangiare e bere... casa, moglie e bambini... leggere, scrivere e far di conti... tabacco da naso, tabacco da fumo, e sonno.

– Un uomo simile non può stare a sedere dietro il cocchiere, non vi pare? – mi disse Guglielmo all’orecchio, scotendo le redini.

Trassi da questa osservazione l’indicazione che gli si dovesse dare il mio posto; e, arrossendo, offersi di ce-derlo.

– Bene, se non ci tenete, signore – disse Guglielmo –

credo che sarebbe più decoroso.

Ho considerato quella cessione come il mio primo insuccesso nella vita. Quando avevo pagato il mio posto nell’ufficio della diligenza, era stato scritto «Seggio del conduttore», accanto al mio nome, e avevo dato all’impiegato mezza corona. M’ero messo un soprabito speciale e uno scialle, appunto per far onore a quel seggio eminente; mi c’ero pavoneggiato un bel pezzo con la persuasione di non far sfigurare la diligenza. Ed ecco che alla prima tappa venivo soppiantato da un individuo male in arnese e con un occhio guercio, che non aveva 505

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altro merito che l’odore del letame e la capacità, più di una mosca leggera che di un essere umano, di saltar al disopra di me, mentre i cavalli erano lanciati a galoppo.

Una sfiducia di me stesso, dalla quale spesso sono stato assalito in piccole occasioni della vita nelle quali meno l’avrei desiderata, non fu certamente arrestata nel suo sviluppo da questo incidentino sull’imperiale della diligenza di Canterbury. Era inutile rifugiarsi nella gravità del tono. Parlai dal fondo dello stomaco per tutto il resto del viaggio, ma mi sentivo completamente annichilito e formidabilmente giovane.

Pure, era curioso e interessante, con una buona educazione, un bel vestito e molto denaro in tasca, seder co-lassù, dietro quattro cavalli, rintracciando i luoghi dove avevo dormito nel mio triste viaggio. I miei pensieri erano abbondantemente occupati: in certi punti della strada, quando vedevo i vagabondi che lasciavamo indietro, e incontravo certa triste espressione di grinte che ricordavo benissimo, sentivo come se la mano annerita del calderaio m’aggrappasse ancora lo sparato della camicia.

Quando, entrati, strepitando, nell’angusta via di Chatham, diedi una rapida occhiata al vicolo del vecchio mostro che mi aveva comprato la giacca, allungai avidamente il collo per cercare il luogo dove m’ero seduto al sole e all’ombra in attesa del mio denaro.

Quando arrivammo finalmente a una tappa da Lon-506

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dra e passammo innanzi a Salem House, dove il signor Creakle infuriava con mano pesante, avrei dato tutto ciò che possedevo per avere la legittima autorizzazione di andarlo a picchiare ben bene e di mettere in libertà, come tanti passeri ingabbiati, tutti i suoi infelici scolari.

Andammo alla Croce d’Oro a Charing Cross, allora una specie di albergo muffito in un quartiere soffocante. Un cameriere mi condusse nella sala del caffè e una cameriera mi condusse in una piccola camera da letto, che odorava come una carrozza da nolo, ed era tutta chiusa come un sepolcro per famiglia. Ero ancora penosamente conscio della mia giovinezza, perché nessuno aveva alcun rispetto per me: la cameriera si mostrò assolutamente indifferente a qualunque mia opinione su qualunque soggetto, e il cameriere si permise di aver con me un atteggiamento familiare offrendomi consigli a tutto spiano.

– Bene – disse il cameriere in tono della massima confidenza – che vorreste per desinare? Ai giovanetti, in generale, piace molto il pollame: Pigliate un pollo.

Io gli dissi, con la maggiore maestà possibile, che non avevo voglia di pollo.

– No, i giovanetti in generale, sono stufi del manzo e del castrato; pigliate una costoletta di vitello.

Consentii a questa proposta, non sentendomi in grado di suggerire altro.

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– Certo, senza patate – disse il cameriere, con un sorriso insinuante e la testa da un lato – i giovanetti, in generale, sono stufi di patate.

Gli ordinai col mio tono più grave di ordinare una costoletta di vitello con patate, e di domandare al padrone se vi fossero lettere per il signor Trotwood Copperfield...

Sapevo che non ce ne erano e non ce ne potevano essere, ma pensavo che mi conferiva dignità aver l’aria di attenderle.

Presto egli tornò per dire che non ce ne erano (cosa che mi sorprese molto) e cominciò a stendere la tovaglia per il mio desinare su una tavola presso al fuoco. In quell’atto mi chiese che volessi bere; e dopo che gli ebbi risposto mezza pinta di vino di Xères, dové credere, penso, che quella fosse l’occasione favorevole di trarre quella misura di vino dai fondi avanzati e muffiti di parecchie bottiglie. E non è un’ipotesi la mia, perché mentre leggevo il giornale, l’osservai dietro un basso tramezzo di legno, che costituiva il suo appartamento privato, versar affaccendatissimo in uno il contenuto di un gran numero di quei vasi, come uno speziale che prepa-rasse una miscela. Quando venne il vino, mi parve svanito; e certamente conteneva più briciole di pane di quante se ne potessero onestamente concedere a un vino straniero genuino; ma fui così vile da berlo, e da non dire una parola.

Sentendomi poi in una gioiosa disposizione di spirito 508

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(dal che argomento che l’ubbriachezza in certi momenti non sia sempre spiacevole) risolsi d’andare a teatro.

Scelsi il teatro del Covent Garden; e ivi dal fondo d’un palco nel centro vidi Giulio Cesare e la nuova pantomi-ma. Mi fece un delizioso effetto aver dinanzi vivi tutti quei nobili romani, che entravano e uscivano per mio speciale divertimento, e non erano più i gravi soggetti di compiti che erano stati per me a scuola. Ma la realtà e il mistero dell’intera rappresentazione, l’influenza su di me della poesia, dei lumi, della compagnia, dei prodi-giosi cambiamenti di splendide e fulgide scene, erano così abbaglianti, e m’aprirono tali sconfinate regioni di piacere, che quando a mezzanotte uscii alla pioggia fuori, mi parve di precipitare dalle nuvole, dove avevo vissuto per secoli una vita romanzesca, giù in un mondo miserabile e fangoso, che urlava, schizzava pillacchere, accendeva fiaccole, strepitava con le scarpe, lottava con gli ombrelli, urtava e travolgeva con le vetture da nolo.

Ero uscito da un’altra porta, e stetti fermo nella via, come se fossi veramente straniero sulla terra; ma le spinte e le gomitate poco cerimoniose che mi pigliavo nei fianchi, mi fecero riprendere la via dell’albergo, dove entrai rimuginando le splendide visioni alle quali avevo assistito; e dove fino all’una, dopo aver mangiato delle ostriche e bevuto un po’ di birra, me ne stetti sempre con quelle visioni innanzi, contemplando il fuoco della sala del caffè.

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Ero così pieno della rappresentazione, e del passato –

perché essa era, in un certo modo, come una fulgida trasparenza, a traverso la quale vedevo svolgersi la mia vita anteriore – che non so quando la persona d’un bel giovanotto, vestito con una negligenza elegante che io ho ragione di ricordare, divenne ai miei occhi una figura concreta. Ma ricordo che m’accorsi della sua compagnia, senza averlo veduto entrare – mentre sedevo ancora meditabondo accanto al fuoco della sala del caffè.

Finalmente, mi levai per andare a letto, con gran sollievo del cameriere assonnato, che era stato assalito dal nervoso alle gambe, e lì, oltre il tramezzo, le percoteva, le assoggettava a ogni specie di contorsioni. Nell’andar verso la porta, passai accanto al giovane ch’era entrato non sapevo quando, e lo vidi distintamente. Mi voltai subito, tornai indietro, guardai di nuovo. Egli non mi ri-conosceva, ma io immediatamente lo riconobbi.

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