Il signor Wickfield non disse una parola, benché la vecchia signora lo guardasse come in attesa d’un commento a questa notizia, ma se ne rimase austeramente in silenzio, con gli occhi fissi a terra. E se ne stette a lungo così, dopo che già si parlava d’altro; di rado levandoli, e solo per posarli un istante, con aria accigliata, sul dottore, o la moglie, o su entrambi.
Il dottore era appassionatissimo della musica. Agnese cantava con grande dolcezza ed espressione, come pure la signora Strong. Esse cantarono insieme, e sona-rono a quattro mani, e in sostanza noi assistemmo a un piccolo concerto. Ma osservai due cose: primo, che fra Annie e il signor Wickfield, benché ella si fosse ricom-posta nel suo primitivo atteggiamento e avesse ripigliato le maniere usate, s’era determinato un distacco reciso, che li temeva assolutamente a distanza; secondo, che sembrava che al signor Wickfield non garbasse l’intimità fra lei e Agnese, e la sopportasse a disagio. E ora, debbo confessare, ricordando ciò che avevo veduto la sera della partenza di Jack Maldon, cominciai a vedere in tutto questo un significato che non avevo mai scorto, e che mi turbò lo spirito. La innocente bellezza del volto di Annie non mi parve più innocente; diffidai della grazia e dell’incanto delle sue maniere; e quando la vidi al fianco di Agnese, temei a un tratto, pensando all’onesto candore della giovinetta che quella amicizia fosse 500
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male assortita.
Ma ella n’era così felice, e l’altra n’era così beata anche lei, che la serata volò che parve un’ora. Si chiuse con un incidente che ricordo benissimo. Si congedavano l’una dall’altra, e Agnese era sul punto di abbracciare e di baciare l’amica, quando il signor Wickfield s’infilò fra esse come per caso, e si trasse Agnese rapidamente via.
Allora, come se fossi ancora sull’ingresso la sera della partenza di Jack Maldon, e tutto quel lasso di tempo fosse a un tratto abolito, vidi nel volto della signora Strong, che guardava il signor Wickfield, la stessa espressione memorabile di quella sera.
Non so dire che impressione ne avessi, o come trovassi impossibile, dopo, ripensandoci, separare la signora Strong da quello sguardo, e rifigurarmela nella sua amabilità innocente. Quel ricordo m’ossessionava, rien-trando nella mia camera. Mi sembrava d’aver lasciato la casa del dottore sotto la minaccia di una nuvola oscura.
Il rispetto che avevo per i suoi capelli grigi era misto a un sentimento di commiserazione per la sua fiducia in quelli che lo tradivano, e di rancore per quelli che gli facevano torto. L’ombra imminente di una grande sventura e d’una grande vergogna, non ancora distinta nella sua forma, cadeva come una macchia nel luogo tranquillo dove avevo lavorato e m’ero trastullato ragazzo, disonorandolo. Non mi piaceva più neppur di pensare alle due piante di aloè dalle larghe foglie, che rimaneva-501
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no raccolte senza fiorire per un centinaio d’anni di seguito, o al prato rassettato e lindo, alle urne di pietra, alla passeggiata del dottore, al lieto suono della campana della Cattedrale, che si librava e si spandeva su ogni cosa lì intorno. Era come se il tranquillo santuario della mia infanzia fosse stato profanato innanzi ai miei occhi, e la sua pace e il suo onore fossero stati dispersi ai venti.
Ma la mattina portò con sé la mia partenza dall’antica casa, che Agnese aveva adornata del proprio incanto; e questo mi occupò sufficientemente lo spirito. Senza dubbio vi sarei tornato di nuovo; avrei potuto dormir di nuovo – forse spesso – nella mia vecchia camera; ma i giorni della mia dimora colà se n’erano andati, e il vecchio tempo felice era trascorso. Avevo il cuore così grosso, facendo un pacco di quei libri e di quei vestiti che ancora dovevo spedire a Dover, che non mi curai di farmi scorgere da Uriah Heep; il quale si mostrava tanto servizievole nell’aiutarmi, che io poco caritatevolmente pensai che fosse straordinariamente soddisfatto della mia partenza.
Mi separai da Agnese e dal padre, sforzandomi invano di celar virilmente la mia commozione, e salii sull’imperiale della diligenza di Londra. Ero così intenerito e disposto al perdono, attraversando la città, che avevo una mezza idea di fare un cenno al mio vecchio nemico il macellaio e di gettargli cinque scellini da bere alla mia 502
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salute. Ma egli mi apparve un macellaio cocciutissimo nell’atto che raschiava il gran ceppo nella bottega, e così poco abbellito nell’aspetto dalla mancanza del canino che io gli avevo fatto saltar via, che pensai bene di non fare quel passo conciliativo.
La prima cosa che mi venne in mente, ricordo, quando ci trovammo sulla strada in campagna, fu di darmi un’aria importante col cocchiere, e di parlare in tono straordinariamente grave. M’era molto disagevole; ma tenni duro, perché sentivo che era la maniera di mostrare una dignità di persona adulta.
– Andate a Londra, signore? – disse il cocchiere. – Sì, Guglielmo – dissi con accento di condiscendenza (io lo conoscevo). – Vado a Londra. E dopo andrò nel Suffolk!
– A caccia, signore? – disse il cocchiere. Egli sapeva, precisamente come me, che in quella stagione era parimenti probabile che andassi alla pesca delle balene; ma, ad ogni modo, mi sentii solleticato.
– Non so – dissi, assumendo un’aria indecisa – se tirerò o no qualche colpo.
– Si dice che gli uccelli si sian fatti molto timidi – disse Guglielmo.
– Eh, già! – io dissi.
– Siete della contea di Suffolk, signore?
– Sì – dissi con tono d’importanza – sono della contea 503
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di Suffolk.
– Si dice che gli gnocchi siano squisiti, laggiù – disse Guglielmo.
Non ne sapevo nulla; ma stimai necessario sostenere il lustro delle istituzioni del mio paese, e di mostrarme-ne familiare; così scossi il capo, come a dire: «Qual dubbio?».
– E i puledri? – disse Guglielmo. – Quelle son bestie! Un puledro del Suffolk, quando è buono, vale il suo peso in oro! Voi, signore, non avete mai allevato puledri del Suffolk?
– N... no – dissi – veramente no!
– Ecco un signore qui dietro – disse Guglielmo – che me ha allevati chi sa quanti all’ingrosso!
Il signore al quale si alludeva era un uomo da un occhio guercio poco attraente e un mento molto prominente, dal cappello alto e bianco su una falda esigua e piatta e i calzoni color tabacco così stretti alle gambe, che sembravano energicamente abbottonati sulle due costure, dalle scarpe sino ai fianchi. Aveva il mento poggiato sulla spalla del cocchiere, e m’era così vicino che il suo respiro mi vellicava il collo; e mentre io mi voltavo per (guardarlo, egli dava una sbirciatina ai cavalli con l’occhio buono, in maniera di profondo conoscitore.
– Non è vero? – chiese Guglielmo.
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– Che cosa? – disse il signore di dietro.
– Che avete allevato i puledri del Suffolk all’ingrosso?