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Charles Dickens

David Copperfield

pace.

Era circa mezzogiorno, quando ci mettemmo in via per l’ufficio dei signori Spenlow e Jorkins nel Doctor’s Commons. Mia zia, che aveva, su Londra in genere, l’idea che ogni persona che vi s’incontrava fosse un borsa-iuolo, mi diede da portare la borsa, che conteneva dieci sterline in oro e un po’ d’argento.

Sostammo innanzi a una bottega di balocchi di Fleet Street per vedere i giganti di Saint Dunstan percuotere le campane; – avevamo regolato la nostra passeggiata in modo da arrivare alla meta a mezzodì preciso – e poi ci avviammo in direzione di Ludgate Hill e del cimitero di San Paolo. Eravamo già a Ludgate Hill, quando mi accorsi che mia zia accelerava straordinariamente il passo, tutta sbigottita. Osservai, nello stesso tempo, che un certo tipo male in arnese e di cattiva ciera s’era fermato per vederci passare, e poi s’era messo a seguirci, facendosi così vicino a mia zia da sfiorarle le vesti.

– Trot, mio caro Trot! – esclamò mia zia, con un bisbiglio di sgomento, stringendomi il braccio. – Non so più che fare.

– Non abbiate paura – io dissi. – Non c’è nulla da aver paura. Entrate in una bottega, e io mi libererò subito da questo seccante.

– No, no, figlio mio! – essa rispose. – Per carità, non gli parlare. Ti supplico, te lo comando.

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– Santo Cielo, zia! – dissi. – Non è che un mendicante insolente.

– Tu non sai chi è – rispose mia zia. – Tu non sai chi è.

Tu non sai che ti dici.

Ci eravamo fermati in un portone nel frattempo, e s’era fermato anche lui.

– Non guardarlo! – disse mia zia, mentre io gli davo un’occhiata indignata – ma fammi venire una vettura, mio caro, e aspettami nel cimitero di San Paolo.

– Aspettarvi? – ripetei.

– Sì – soggiunse mia zia – Debbo andar sola. Debbo andare con lui.

– Con lui, zia, con quell’uomo?

– Sì, non sono matta – rispose – e ti dico ché debbo andare. Chiamami una vettura.

Per quanto meravigliatissimo, compresi che non avevo il diritto di rifiutar di ubbidire a quest’ordine perentorio.

Feci a precipizio pochi passi, e chiamai una vettura che passava vuota. Prima che potessi abbassare il predellino, mia zia, non so come, era saltata nella vettura, seguita da quella persona. Ella con la mano mi fece cenno, con tanta energia, di allontanarmi, che, sebbene fossi così confuso, le volsi le spalle all’istante; ma nello stesso momento la intesi dire al cocchiere: «Andate dovunque!

Dritto innanzi!» e subito la vettura mi passò accanto, an-619

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dando in su.

Mi ricordai allora ciò che m’aveva narrato il signor Dick, e che io avevo supposto fosse una sua allucinazione. Non dubitavo che quel tale fosse la persona della quale egli m’aveva parlato con tanto mistero, benché non fossi minimamente in grado d’indovinare che specie di diritto vantasse su mia zia. Dopo che ebbi preso una mezz’ora di fresco nel cimitero, vidi la vettura di ritorno. Il cocchiere si fermò accanto a me: mia zia era sola.

Ella non s’era sufficientemente rimessa dalla sua agitazione per essere in grado di fare la visita progettata. Mi fece salire nella vettura, e mi pregò di dire al cocchiere di andare un po’ su e giù al passo. Mi disse soltanto:

«Mio caro figlio, non mi domandare ciò che è stato, e non me ne parlare mai». E quando si fu perfettamente rimessa, mi disse che si sentiva bene, e potemmo far la strada che ci rimaneva da fare.

Quando mi diede la borsa per pagare il cocchiere, vidi che tutto l’oro se n’era andato; non c’erano più che poche monete d’argento.

Si passava, per arrivare al Doctor’s Commons, sotto un piccolo arco basso. Avevamo fatto appena pochi passi nella via più oltre, che lo strepito della metropoli sembrò dileguarsi, come per magia, in una vaga lontananza.

Attraverso cortili oscuri e androni angusti, giungemmo 620

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nelle stanze di Spenlow e Jorkins illuminate dall’alto: nel vestibolo di quel tempio, accessibile ai pellegrini senza la cerimonia di picchiare alla porta, tre o quattro impiegati erano occupati a copiare scartafacci. Un omino secco e asciutto, seduto solo in un cantuccio, all’ombra di una parrucca grigia che sembrava fatta di pan pepato, si levò per ricevere mia zia, e ci condusse nella stanza del signor Spenlow.

– Il signor Spenlow è in Corte, signora – disse l’omino asciutto. – Oggi è giorno di udienza nella Corte d’appello ecclesiastica. Ma fra poco avrà finito, e lo manderò a chiamare subito.

Lasciati soli, approfittai dell’occasione, mentre si mandava a chiamare il dottor Spenlow, per dare un’occhiatina intorno. I mobili della stanza erano antichi e polvero-si; e il panno verde della scrivania, che aveva perduto tutto il colore primitivo, era pallido e secco come un vecchio povero. V’erano sulla scrivania molti fasci di carte, alcuni con la scritta sul dorso Allegazioni e altri (con mia gran sorpresa) con quella di Libelli, e altri che erano della Corte del Concistoro e altri della Corte Ecclesiastica, e altri della Corte delle Prerogative, e altri della Corte dell’Ammiragliato, e altri finalmente della Corte dei Delegati; e tutti mi diedero l’occasione di domandarmi quante mai Corti vi fossero in tutto e quanto tempo ci volesse per raccapezzarsi in tutte. V’erano inoltre vari libri giganteschi manoscritti di prove giura-621

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te, solidamente rilegati, e messi insieme in serie massic-ce – una serie per ogni causa – come se ogni causa fosse una storia di dieci o venti volumi. Tutto questo mi parve abbastanza dispendioso, e mi diede una piacevole idea degli affari d’un procuratore. Davo degli sguardi con crescente soddisfazione su questi e molti altri oggetti della stessa specie, quando dei passi rapidi si avvertirono nella stanza precedente, e il signor Spenlow, in una toga nera orlata di pelo bianco, entrò frettoloso, togliendosi il cappello.

Era un ometto biondo, con scarpe irreprensibili, una cravatta bianca e solino rigorosamente inamidato. Ben stretto e abbottonato, aveva dovuto perder parecchio tempo intorno alle fedine, per averle arricciate con tanta cura. Portava all’orologio una catena d’oro massiccio, che per un istante non potei non pensare che egli dovesse avere un muscoloso braccio d’oro, per cavarlo di tasca e consultarlo. Egli era vestito con tanta minuta diligenza e si presentava così impettito e rigido, che gli costava una gran fatica piegarsi, tanto che, per dare un’occhiata a qualche carta sulla scrivania, dopo essersi seduto, era costretto a muovere tutto il corpo, dal fondo della spina dorsale, come Pulcinella.

Ero stato già presentato da mia zia, ed ero stato cortesemente ricevuto. Egli ora diceva:

– E così, signor Copperfield, vi siete messo in mente d’abbracciare la nostra professione? Lo dissi per caso 622

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alla signora Trotwood, quando ebbi il piacere d’un colloquio con lei l’altro giorno – con un’altra inclinazione del corpo (ancora Pulcinella) – che qui v’era un posto vacante. La signora Trotwood fu così cortese da dirmi che aveva un nipote al quale voleva particolarmente bene e al quale intendeva di dare una buona professione.

A quel nipote, credo, io ora ho il piacere di... – di nuovo Pulcinella.

Dissi, con un inchino, che ero proprio lui, e che mia zia m’aveva già detto di quel posto, e che speravo mi sarebbe piaciuto molto. Che io ero ben disposto ad affezio-narmici, e avevo subito fatto buon viso alla proposta; ma che non potevo giurare su quell’affezione, se non avessi saputo qualche cosa di più preciso. Benché la mia non fosse che una riserva di pura forma, avrei voluto un’occasione di sperimentare se la professione mi con-venisse, prima di legarmi irrevocabilmente .

– Ma certo, ma certo! – disse il signor Spenlow. – Noi qui proponiamo sempre la prova d’un mese... un mese di prova. Quanto a me veramente sarei disposto a far fare la prova di due mesi... di tre... di un periodo indefi-nito... ma ho un socio, il signor Jorkins.

– E la tassa, signore – risposi – è di mille sterline?

Are sens