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Uriah.

– Uriah Heep? – dissi. – No. È a Londra?

– Viene giù nello studio, ogni giorno, – rispose Agnese.

– Era a Londra una settimana prima di me. Temo cose spiacevoli, Trotwood.

– C’è qualche cosa che v’affanna, Agnese, comprendo –

dissi. – Di che cosa si tratta?

Agnese mise da parte il lavoro, e rispose, incrociando le mani, e guardandomi pensosa con quei suoi begli occhi teneri:

– Credo che stia per entrare in società con papà.

– Chi? Uriah! Quel miserabile è riuscito ad arrampicarsi così in alto? – esclamai indignato.

– Non avete fatto nessuna rimostranza, Agnese? Pensate alle conseguenze probabili? Voi dovete parlare. Non dovete permettere a vostro padre di fare una pazzia simile.

Dovete impedirlo, Agnese, mentre siete ancora in tempo.

Ancora con gli occhi su me, Agnese scosse il capo alle mie parole, sorridendo debolmente al calore che vi mettevo; e poi rispose:

– Ricordate la nostra ultima conversazione su papà?

Non passò molto... non più di due o tre giorni anzi... che egli m’accennò la prima volta a ciò che v’ho detto. Era triste vederlo lottare fra il desiderio di presentarmi la 654

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cosa come desiderata da lui e l’impossibilità di nascondere che in realtà era costretto a subirla. Io mi sentivo accasciata.

– Costretto a subirla, Agnese? Chi può costringervelo?

– Uriah, – essa rispose, dopo l’esitazione di un momento, – s’è reso indispensabile a papà. Egli è vigile e scaltro. Ha indovinato le debolezze di papà, le ha incorag-giate del suo meglio, e se n’è avvantaggiato così che...

per dir tutto in una parola, Trotwood... così che papà ha paura di lui.

Comprendevo chiaramente che v’era di più di quanto ella m’avesse detto; più di quanto sapessi o sospet-tassi. Non potevo darle la pena di domandarle che altro ci fosse, perché sapevo che me lo avrebbe nascosto per rispetto del padre. Sapevo che da lungo tempo le cose avevano preso quella piega; sì, non potevo non sentire, per poco che mi fossi preso l’incomodo di riflettere, che da gran tempo avevano preso quella piega. Rimasi in silenzio.

– Il suo ascendente su papà – disse Agnese – è grandissimo. Egli protesta umiltà e gratitudine. .. sinceramente, forse; così voglio credere... ma la sua condizione è in realtà di padronanza; e temo voglia fare un cattivo uso di questa sua padronanza.

Dissi ch’egli era un cane traditore: e dir questo, in quel momento, mi fu di grande soddisfazione.

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– Al tempo che papà me lo disse – proseguì Agnese

– egli aveva annunziato a papà la sua intenzione d’andarsene; che era dolente e se n’andava mal volentieri, ma aveva trovato da migliorar la sua condizione. Papà allora era molto abbattuto; più abbattuto e depresso di quanto l’avessimo mai visto; ma parve sollevato da quella proposta di società, benché nello stesso tempo se ne mostrasse come offeso e umiliato.

– E voi che diceste, Agnese?

– Dissi, Trotwood, – ella rispose, – ciò che mi parve giusto. Comprendendo che era necessario compiere il sacrificio per la pace di papà, lo supplicai di farlo. Dissi che egli si sarebbe tolto un fardello dalle spalle... spero che vorrà esser così... e che io avrei avuto più tempo per tenergli compagnia. Oh, Trotwood! – esclamò Agnese, mettendosi le mani sul viso, mentre vi spunta-vano le lagrime, – mi sembra quasi di essere stata la ne-mica di papà, invece d’essere la sua figliuola affettuosa.

Perché io so come s’è cambiato nella sua devozione per me. So come egli abbia ristretto il cerchio delle sue simpatie e dei suoi doveri, concentrando tutta la sua anima su di me. So a quante cose ha rinunziato per amor mio, e come la sua continua sollecitudine per me abbia gettato un’ombra sulla sua vita, diminuito la sua forza e la sua energia, volgendole su un’unica idea. Ah, se potessi trovare un rimedio! Se potessi, come sono stata la causa innocente della sua rovina, lavorare per 656

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vederlo risorgere!

Non avevo mai veduto Agnese piangere. Le avevo vedute delle lagrime negli occhi, tornando di scuola carico di nuovi onori; ve le avevo vedute l’ultima volta che s’era parlato di suo padre; l’avevo veduta voltare la soave testa da un lato, dicendole addio alla mia partenza; ma non l’avevo mai veduta desolarsi a quel modo. Me ne rattristai tanto che potei dir soltanto, smarrito e goffo:

«No, Agnese, non così. No, sorella cara!»

Ma Agnese m’era di tanto superiore in forza di carattere e di propositi, come so bene ora, ne sapessi molto o poco allora, da non avere gran bisogno delle mie suppliche. Riprese di nuovo le sue maniere calme e dolci, che nei miei ricordi la fanno così diversa da tutte le altre, e parve che una nuvola se ne andasse da un cielo sereno.

– Probabilmente non avremo l’agio di star soli molto più a lungo, – disse Agnese; – e mentre n’ho il destro, lasciate che io vi supplichi vivamente, Trotwood, d’esser benevolo, con Uriah. Non lo respingete. Non siategli (come credo ne abbiate tendenza) nemico per ciò che non vi piace in lui. Egli forse non lo merita, perché non ci consta nulla di male a suo carico. In qualunque caso, pensate prima a papà e a me.

Agnese non ebbe tempo di aggiungere altro, perché la porta si spalancò, e la signora Waterbrook, che era una 657

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donna abbondante – o che portava una veste abbondante: non saprei dire esattamente se fosse lei o l’abbigliamento, perché non distinguevo tra l’abbigliamento e lei, entrò a vele spiegate. Avevo un vago ricordo di averla vista a teatro, come se l’avessi scorta in una pallida pro-iezione di lanterna magica; ma ella mostrò subito di ricordarsi perfettamente di me, e di sospettare che fossi ancora in istato di perfetta ebbrezza.

Ma scoprendo gradatamente che non avevo bevuto, e che ero (voglio sperare) un giovane a modo, la signora Waterbrook si rammorbidì sensibilmente a mio riguardo, domandandomi, prima di tutto, se andassi a passeggiar spesso nei parchi, e, secondo, se frequentassi molto la società elegante. Alla mia risposta negativa a tutte e due le domande, m’avvidi d’essere scaduto di nuovo nella sua stima; ma ella nascose la sua impressione con grazia, e m’invitò a desinare per il giorno dopo. Accettai l’invito, e mi congedai, cercando di Uriah Heep nello studio da basso, mentre uscivo, e lasciandogli un biglietto da visita, per non avervelo trovato.

Quando andai a pranzo il giorno dopo, e sulla porta di strada, aperta, m’immersi in un bagno a vapore di cosciotto di castrato, indovinai di non esser l’unico ospite; perché immediatamente ravvisai il fattorino del giorno innanzi, travestito, che dava un aiuto al domestico della famiglia, e aspettava ai piedi della scalinata per portar su il mio nome. Egli fece del suo meglio, per mostrar di 658

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non riconoscermi, quando mi chiese il nome in confidenza; ma io lo avevo riconosciuto, precisamente come m’aveva riconosciuto lui benissimo. La coscienza ci faceva codardi entrambi.

Al signor Waterbrook, che era un signore di media età, con un collo corto e un solino abbondante non occorreva altro che un naso nero per essere il perfetto ritratto di un cagnolino danese. Egli mi disse d’esser felice d’aver l’onore di fare la mia conoscenza; e, dopo che ebbi presentato i miei omaggi alla signora Waterbrook, mi trascinò con molta solennità al cospetto di una formidabile signora in veste di velluto nero e un gran cappello di velluto nero, la quale, ricordo, rassomigliava perfettamente a una parente prossima di Amleto – sua zia, forse.

Si chiamava la signora Henry Spiker; ed era con suo marito: un uomo così freddo, che, invece d’aver la testa grigia, la portava cosparsa di una brinata; Una grande deferenza veniva usata verso i signori Spiker, maschio e femmina; e Agnese me ne disse il perché: il signor Henry Spiker era l’avvocato di qualche cosa o di qualcuno, dimentico che o chi, in remota dipendenza dal Tesoro.

Are sens