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Charles Dickens

David Copperfield

– Ma gli avvocati e i procuratori non sono la stessa cosa? – dissi un po’ confuso. – No?

– No – rispose Steerforth – gli avvocati sono dei ci-vilisti, uomini a cui fu conferito il titolo di dottore al-l’Università, e questa è la ragione perché io ne so qualche cosa. Essi impiegano i procuratori e viceversa, e gli uni e gli altri si beccano magnifici onorarî, e insieme se la spassano allegramente e magnificamente. Dopo tutto, ti raccomanderei di non sdegnare d’impiegarti al Doctor’s Commons, Davide. Tutti quelli che vi si sono impiegati, sappilo, se ti fa piacere, se ne tengono come d’un ufficio che conferisce una gran dignità.

Facendo un po’ di tara alla leggerezza ironica di Steerforth nel trattare l’argomento, e considerando l’aspetto solenne di gravità e d’antichità col quale mi s’era sempre presentato quel «sonnolento cantuccio presso il cimitero di San Paolo», non mi sentivo mal disposto a seguire il suggerimento di mia zia; la quale, d’altra parte, mi lasciava libero della mia decisione, narrandomi francamente che le era sorta in mente quell’idea in una recente visita al suo procuratore nel Doctor’s Commons, ov’era andata per far testamento in mio favore.

– In ogni modo, questo è un passo commendevole da parte di nostra zia – disse Steerforth, apprendendo la cosa; – e merita ogni incoraggiamento. Margheritina, ti consiglio di non sdegnare d’impiegarti al Doctor’s Commons.

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Deliberai dunque di fare come diceva mia zia. Dissi allora a Steerforth ch’ella m’aspettava a Londra (come diceva la lettera) dove aveva preso dimora, in Lincoln’s Inn Field, in una specie di pensione, che aveva una scalinata di pietra e una porta di soccorso sul tetto; perché mia zia era fermamente persuasa che non ci fosse casa in Londra che ogni sera non pigliasse fuoco.

Terminammo il resto del nostro viaggio piacevolmente, a volte alludendo al Doctor’s Commons, e va-gheggiando il tempo, ancora lontano, che io vi sarei stato procuratore; tempo che Steerforth illustrò con una gran varietà di quadri umoristici e capricciosi, che ci divertirono un mondo. Al nostro arrivo a Londra, egli se ne andò a casa sua, promettendomi di venirmi a trovare due giorni dopo; e io presi una vettura per Lincoln’s Inn Field dove trovai mia zia ancora in attesa della cena.

Se fossi ritornato dal giro del mondo, non ci saremmo riveduti con più piacere. Mia zia si mise a piangere addirittura mentre mi abbracciava; e disse, fingendo di ridere, che se la mia povera madre fosse stata ancora in vita, quella sciocca piccina si sarebbe messa certamente a piangere.

– Così avete abbandonato il signor Dick, zia – dissi. –

Mi dispiace. E voi, Giannina, come state?

Mentre Giannina mi faceva un inchino, dicendomi che sperava che io stessi bene, osservai il viso di mia 612

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zia che s’allungava molto.

– Dispiace anche a me – disse mia zia, stropicciandosi il naso. – Da che son qui, Trot, non trovo più requie.

Prima che le domandassi il perché, me lo disse.

– Son persuasa – disse, mettendo la mano sulla tavola con melanconica fermezza – che il carattere di Dick non sia tale da tener lontani gli asini. Son certa che gli manca la forza di proposito. Avrei dovuto lasciar Giannina a casa, invece, e mi sarei sentita più tranquilla. Se un asino è oggi entrato nel prato – disse mia zia con forza – ha dovuto entrarci alle quattro. Ho sentito un brivido corrermi per la schiena a quell’ora, e son certa ch’era un asino.

Tentai di consolarla, ma essa rifiutò ogni conforto.

– Era un asino – disse mia zia – ed era quello con un mozzicone di coda che mi portò fino a casa la signorina Murdstone. Se a Dover v’è un asino la cui audacia m’è dura a sopportare è appunto quello.

Giannina si avventurò a dire che forse mia zia si attrista-va senza ragione, perché quell’asino era allora occupato nel trasporto della ghiaia e della sabbia, e non poteva avere occasione di commettere violazioni di confini. Ma mia zia non ne volle sapere.

La cena fu servita bene e calda, benché le camere di mia zia stessero in alto – non so se per avere più gradini di 613

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pietra per quello che spendeva, o per esser più vicina al tetto – e consistette in un pollo arrosto, una bistecca e dei legumi; e a tutto, squisitamente cucinato, io feci ampia giustizia. Ma mia zia aveva le sue idee particolari sulle vettovaglie di Londra, e mangiò pochissimo.

– Certo questo pollo disgraziato – disse mia zia – nacque e fu allevato in una cantina, e non vide l’aria che dall’imperiale d’una diligenza. Spero che questa bistecca sia di manzo, ma non lo credo. Credo che non ci sia nulla qui di genuino, se non il fango.

– Non credete, zia, che il pollo possa essere stato portato dalla campagna? – accennai.

– No di certo – rispose mia zia. – Non ci sarebbe gusto per un negoziante di Londra di dar qualche cosa che sia veramente ciò ch’egli pretende che sia.

Non mi avventurai a contrastare questa opinione, ma continuai a cenar di gusto, cosa che soddisfece grandemente mia zia. Quando la tavola fu sparecchiata, Giannina aiutò mia zia ad accomodarsi i capelli, a mettersi la cuffia, che era più elegante del solito («nel caso d’un incendio» mia zia diceva), e a rimboccarsi la gonna attorno alle ginocchia, tutti preliminari a lei consueti per ri-scaldarsi prima d’andare a letto. Io allora le preparai, seguendo certe norme ben stabilite dalle quali non era permessa alcuna deviazione, per quanto leggera, un bicchiere d’acqua e vino caldo con pane tostato tagliato a 614

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fettine lunghe e sottili. Con questi rinforzi, fummo lasciati soli a finir la serata, mia zia di rimpetto a me, occupata a bere il vino con l’acqua e a immollarvi le fettine di pane, a una a una, prima di mangiarle: e a guardarmi benevolmente di fra gli orli della cuffia.

– Bene, Trot – ella cominciò – che ne pensi del progetto di diventar procuratore? O non hai cominciato a pensarci ancora?

– Ci ho pensato molto, mia cara zia, e ne ho parlato molto con Steerforth. Davvero che mi piace molto. Mi piace moltissimo.

– Bene – disse mia zia – sono contenta.

– Ho solo una difficoltà, zia.

– Dimmi qual è, Trot – essa rispose.

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