Charles Dickens
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tesse spiacere (e spiaceva sempre) al sentimento del signor Spenlow, il signor Jorkins esigeva assolutamente il saldo. Se non fosse stato per l’impedimento di quel demonio di Jorkins, il cuore e la mano di quel buon angelo di Spenlow sarebbero stati costantemente aperti. Cresciuto negli anni, ho incontrato altre persone associate sul principio di Spenlow e di Jorkins.
Fu stabilito che avrei potuto cominciar la mia prova il giorno che mi fosse piaciuto, e che non occorreva che mia zia rimanesse a Londra o che vi tornasse fino al termine della prova, perché le sarebbe stato mandato direttamente il contratto a casa, perché lo firmasse. E allora il signor Spenlow mi offrì di condurmi un po’ nella Corte, perché vedessi il luogo. Siccome non domandavo di meglio, uscimmo insieme, lasciando lì mia zia, che non voleva avventurarsi, ella diceva, in un posto simile, e che immaginava, forse, che le Corti giudiziarie fossero delle polveriere, sempre pronte a saltare in aria.
Il signor Spenlow mi condusse, attraverso alcuni cortili lastricati, circondati di severe case di mattoni, che compresi, dai nomi dei dottori, scritti sulle porte, essere le dimore ufficiali degli avvocati di cui Steerforth m’aveva il giorno prima fatto cenno, in una vasta e oscura sala, non dissimile, a quanto mi parve, da una cappella. Il fondo di questa sala era separato con una balaustrata dal resto; e ivi, ai due lati d’una elevata piattaforma a foggia di ferro di cavallo, seduti su antiche sedie da sala da 625
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pranzo, erano vari signori in abiti rossi e parrucche grige, che appresi essere i dottori già menzionati. Nella curva del ferro di cavallo, vidi un vecchio che ammiccava a un leggio che sembrava tolto da un pulpito. Se l’avessi incontrato in un’uccelliera, l’avrei scambiato per un gufo, ma mi fu detto che era il giudice presidente.
Nello spazio entro il ferro di cavallo, più giù, vale a dire a livello del pavimento, v’erano vari altri signori del grado del signor Spenlow, come lui vestiti di toghe nere orlate di pelo bianco, seduti contro un lungo tavolo verde. Le loro cravatte mi parvero in generale rigide, e i loro sguardi fieri; ma in quest’ultimo rispetto compresi subito che facevo loro torto, perché quando due o tre di essi dovettero levarsi per rispondere a una domanda dell’alto funzionario che presiedeva, pensai di non aver assistito mai a nulla di più mansueto. Il pubblico, che si componeva d’un ragazzo avvolto in uno scialle e di un povero diavolo dall’abito frusto il quale si frugava in tasca per mangiarsi le briciole di pane che vi racimolava, si stava scaldando a una stufa posta nel centro della sala.
La languida calma del luogo era rotta soltanto dallo scoppiettìo di quella stufa e dalla voce di uno dei dottori, che vagava lentamente a traverso una completa biblioteca di prove, fermandosi di tanto in tanto, durante il viaggio, nelle piccole osteriole degl’incidenti che incontrava per strada. Insomma, in tutta la mia vita, non m’e-ro trovato a un ricevimento familiare più tranquillo, più sonnolento, più antiquato, più vetusto, più noioso; e mi 626
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parve che dovesse fare l’effetto di un narcotico a chiunque ne facesse parte – tranne forse a chi domandava giustizia.
Soddisfatto del carattere meditativo di quel ritiro, informai il signor Spenlow che per quella volta avevo visto abbastanza, e poi raggiungemmo mia zia; in compagnia della quale me n’andai subito dal Commons, ma col sentimento, all’uscita dallo studio Spenlow e Jorkins, d’esser assai giovane, perché gli scrivani si urtavano l’un l’altro per additarmi con la punta delle loro penne.
Arrivammo a Lincoln’s Inn Field senza altre avventure, tranne l’incontro d’un asino, attaccato al carretto d’un fruttivendolo, che destò tristi rimembranze in mia zia.
Giunti sani e salvi all’albergo, discutemmo a lungo sui miei progetti; e giacché sapevo ch’ella ardeva dal desiderio di trovarsi a casa e che, fra la paura dell’incendio, e quella dei borsaiuoli, e la ripugnanza per i cibi, non stava volentieri a Londra neanche per mezz’ora, la sol-lecitai a non temere per me, e di lasciare che provvedes-si io stesso, anche per ricerca di un alloggio.
– Non sono stata qui quasi una settimana, mio caro, senza pensare anche a questo – ella rispose. – S’appigiona un appartamentino nell’Adelphi, Trot, e ti dovrebbe convenire a meraviglia.
Con questa breve introduzione, trasse di tasca un annuncio, diligentemente ritagliato da un giornale, il quale av-627
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vertiva che in Buckingham Street nell’Adelphi s’appi-gionava subito, con vista sul fiume, un bell’appartamentino, singolarmente adatto a un giovine membro d’una delle corporazioni legali, o altro. Prezzo modico. Si poteva anche fissarlo per un mese.
– È quello che ci vuole, zia! – dissi, arrossendo di piacere all’idea d’un appartamento a mia disposizione.
– Allora, andiamo – rispose mia zia, ripigliando immediatamente il cappellino che s’era tolto un minuto prima
– andiamo a vederlo.
E uscimmo. L’annuncio ci diceva di rivolgerci alla signora Crupp, e sonammo alla porta il campanello supposto in comunicazione con la signora Crupp. Soltanto dopo aver sonato tre o quattro volte, potemmo indurre la signora Crupp a comunicare con noi. Apparve una donna atticciata con un giacchettino di flanella che finiva sotto una veste di cotone giallo.
– Volete farci vedere quest’appartamentino, signora? –
disse mia zia.
– Per questo signore? – disse la signora Crupp, palpandosi in tasca per trovar le chiavi.
– Sì, per mio nipote – disse mia zia.
– È proprio quello che gli ci vuole – disse la signora Crupp.
E salimmo.
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L’appartamentino era in alto – un gran vantaggio per mia zia, che poteva in quattro e quattr’otto uscire sul tetto in caso d’incendio – e consisteva d’un’anticamera se-micieca dov’era appena possibile distinguere qualcosa, una cucinetta perfettamente cieca, dove non si vedeva assolutamente nulla, un salottino e una camera da letto.
I mobili erano un po’ stinti, ma abbastanza buoni per me; senza alcun dubbio, dalla finestra si vedeva il fiume.
Siccome il luogo mi piaceva, mia zia e la signora Crupp si ritirarono nella cucinetta a discutere del prezzo, mentre io me ne stavo seduto sul canapè del salottino, osando appena creder possibile che potessi essere destinato a occupare una così nobile residenza. Dopo una leale ten-zone di qualche durata, le due donne tornarono, e io lessi con gioia, nel viso della signora Crupp e in quello di mia zia, che il contratto era stato firmato.
– Questi sono i mobili dell’ultimo inquilino? – chiese mia zia.
– Sì, signora – disse la signora Crupp.
– E che n’è di lui? – chiese mia zia.