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fu annunciato il desinare, Steerforth a capotavola; ed io gli sedetti di fronte. Tutto ci parve buono; il vino non fu risparmiato; ed egli si mise con tanto ardore a voler che il desinare fosse allegro, che la nostra giocondità non s’interruppe neppure per un minuto. La mia allegria sarebbe stata molto maggiore, se non fossi stato di fronte alla porta e la mia attenzione non fosse stata attratta dal bravo giovane raccomandatomi dalla signora Crupp, il quale usciva spessissimo dalla stanza, per presentare immediatamente, dopo la sua ombra sul muro dell’ingresso, con una bottiglia alla bocca. Anche la «ragazzina»

mi dava qualche inquietudine, non tanto perché trascurava di lavare i piatti, quanto perché li rompeva. Ella era molto curiosa, e non durando a rimanersene (come le era stato positivamente raccomandato) in cucina, faceva continuamente capolino alla porta, e continuamente immaginava d’essere scoperta; nel qual timore si ritirava a precipizio sui piatti (dei quali aveva attentamente disseminato tutto il pavimento) facendone uno sterminio.

Ma questi piccoli inconvenienti furono subito dimenticati, quando si sgombrò la tovaglia e vennero le frutta.

A questo punto fu scoperto che il bravo giovane della signora Crupp non aveva più la favella. Dopo avergli raccomandato in segretezza di andare a cercare la signora Crupp al primo piano e di condur con sé la ragazzina, mi abbandonai alla più pazza gioia.

Cominciai con l’essere stranamente allegro e spensiera-639

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to: una gran quantità di cose semidimenticate da raccontare mi s’affollarono in mente, e mi fecero parlare con una loquacità veramente insolita. Risi cordialmente dei miei propri scherzi, e di quelli degli altri; chiamai all’ordine Steerforth perché non riempiva i bicchieri; promisi solennemente parecchie volte di andare a Oxford; an-nunciai d’aver l’intenzione di dare tutte le settimane, fino a nuovo ordine, un desinare esattamente simile a quello di quella sera; e presi inconsideratamente tanto tabacco dalla tabacchiera di Grainger, che fui costretto ad andare in cucina a sternutare in libertà per dieci minuti di seguito.

Continuai col mescere ininterrottamente il vino, e a stappare sempre nuove bottiglie, molto tempo prima che ce ne fosse bisogno. E brindai a Steerforth, chiamandolo il mio più caro amico, il protettore della mia infanzia, e il compagno della mia giovinezza. Dissi ch’ero felice di brindare alla sua salute, e che gli dovevo più di quanto potessi mai restituirgli, e che avevo per lui un’ammirazione sconfinata. Finii, gridando: « Alla salute di Steerforth! Che Dio lo benedica! Viva Steerforth!» Bevemmo tre volte tre bicchieri di vino in suo onore, e poi un altro, e poi ancora un altro definitivo. Ruppi il bicchiere, facendo il giro della tavola per andargli a stringere la mano, e gli dissi (in due parole): «Steerforth, seilastella-polaredellamiaesistenza».

Continuai con l’accorgermi che qualcuno era occupato a 640

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cantare. Era Markham che cantava «Quando l’uomo è pien d’affanni». Allorché ebbe finito, ci propose di brindare alla «Donna». Io gli feci delle obbiezioni, dicendogli che non glielo avrei permesso, perché quello non sarebbe stato un brindisi rispettoso. In casa mia non avrei permesso altro brindisi della specie che uno diretto alle

«Signore». Gli parlavo con grande arroganza, anche perché vedevo che Steerforth e Grainger ridevano di me

– o di lui – o di tutti e due. Egli disse che non si faceva dettar legge da nessuno. Io dissi che doveva farsela dettare. Egli disse che allora non si lasciava insultare. Io dissi che in questo aveva ragione – almeno sotto il mio tetto, dove i Lari erano sacri, e regolavano le leggi dell’ospitalità. Egli disse che non si derogava dalla propria dignità confessando che io ero un simpatico giovane. Io proposi immediatamente un brindisi alla sua salute.

Qualcuno fumava. Fumammo tutti, io facendo uno sforzo per reprimere certo nascente impulso a rabbrividire.

Steerforth aveva fatto in onore mio un discorso durante il quale m’ero commosso fino alle lagrime. Risposi ringraziando, e augurandomi che i presenti avrebbero desinato con me il giorno appresso, e il seguente – e tutti i giorni alle cinque, per poter godere più a lungo la sera il piacere della compagnia e della conversazione. Mi sentivo obbligato a bere alla salute d’una persona. Avrei brindato a mia zia la signora Betsey Trotwood, la migliore delle donne esistenti ed esistite.

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Qualcuno s’era affacciato al terrazzino della mia camera da letto per rinfrescarsi la fronte contro la pietra fredda della balaustrata, e sentirsi soffiare l’aria fresca in viso. Quel qualcuno ero io, che mi rivolgevo un’apostrofe, dicendo: «Copperfield, perché hai voluto fumare? Dovevi pur saperlo che non potevi!» Poi qualcuno, malfermo sulle gambe, contemplava le proprie fattezze nello specchio. Ed ero ancor io, pallidissimo nel cristal-lo, con gli occhi dallo sguardo vago; e i capelli – solo i capelli, veh! – ubbriachi.

Qualcuno mi disse: «Andiamo a teatro, Copperfield!» Innanzi a me non c’era più la camera da letto; ma la tavola tintinnante coperta di bicchieri; il lume; Grainger a destra, Markham a sinistra, e Steerforth di contro... tutti seduti nella nebbia in distanza. Il teatro? Certo. Magnifica idea. Avanti! Ma dovevano scusarmi se lasciavo prima uscire tutti, spegnevo il lume...

non si sapeva mai, un incendio!

Era successa qualche confusione al buio, perché la porta non c’era più. Stavo cercandola fra le tende del terrazzino, quando Steerforth, ridendo, mi prese per il braccio e mi condusse fuori. Scendemmo la scalinata uno dietro l’altro. Agli ultimi gradini qualcuno cadde, e rotolò in fondo. Qualcun altro disse che era Copperfield. Io m’irritai di questa falsa asserzione, ma poi, trovandomi steso di schiena nell’andito, cominciai a pensare che vi potesse essere un fondo di vero.

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Che serata folta di nebbia, con grandi cerchi intorno ai fanali nelle strade! Sentii vagamente parlare che fosse umida. A me parve addirittura ghiacciata. Steerforth mi spolverò sotto un fanale, e m’assestò il cappello, che qualcuno aveva raccattato non so dove, meravigliosamente, perché io non l’avevo in testa. Steerforth allora mi disse: «Come ti senti, Copperfield, ti senti bene?», e io gli dissi: «Maicosìbene».

Una persona che stava nel buco d’una colombaia, apparve nella nebbia, e prese del denaro da qualcuno, domandando se io fossi uno di quelli per i quali si pagava l’ingresso, e parve esitasse (come ricordo quella rapida occhiata!) ad accettare il denaro per me. Poco dopo, stavamo in alto in un teatro molto caldo a guardare giù in platea che mi sembrava tutta vaporante; così poco discerne-vo le persone di cui era gremita. V’era anche una gran scena, molto pulita e liscia dietro le vie, e poi della gente che passeggiava, e parlava di questo e di quello, ma in maniera inintelligibile. Vi era abbondanza di luci, v’era musica, vi erano signore nei palchi, e non so che altro. Mi sembrava che tutto l’edificio, a vedere le strane oscillazioni che faceva quando tentavo di fissarlo, stesse imparando il nuoto.

Al cenno di qualcuno, decidemmo d’andar giù nei palchi delle signore. Vidi un signore, inappuntabilmente vestito, sdraiato su un divano, con un binocolo fra le dita, passarmi innanzi agli occhi, e poi la mia persona in 643

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piedi in uno specchio. Fui quindi spinto in uno di quei palchi, e mi trovai a dir qualche cosa mentre mi sedevo, e alcune persone intorno gridarono a qualcuno: «Silenzio!», e alcune signore mi gettarono delle occhiate d’indignazione, e – che? sì! – scorsi Agnese seduta dinanzi a me nello stesso palco, fra una signora e un signore, che non conoscevo. Veggo ora il suo viso, meglio di allora, oso dire, volgersi verso di me con una espressione incancellabile di rammarico e di stupore.

– Agnese! – dissi, goffamente. – Bontàdelcielo! – Agnese!

– Zitto! Per carità! – ella rispose, e io non sapevo indovinare perché. – Non disturbate. Guardate lo spettacolo.

Tentai a quell’ordine di stare attento allo spettacolo, e di udire qualche cosa di ciò che si diceva sulla scena, ma invano. Guardai lei di nuovo, e la vidi nascondersi nel suo cantuccio, e mettersi la mano guantata alla fronte.

– Agnese – io dissi: – hopaurachevisentiatemale.

– No, no, non pensate a me, Trotwood, – ella rispose. –

Sentite! Ve n’andate via subito?

– Andarviasubito? – ripetei.

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