non sapete ciò che ci ha detto. Non è vero, zia, che non lo sanno?
Peggotty scosse il capo in atto di compassione.
– Sì, cercherò – disse Marta – se voi mi aiuterete ad andarmene. Non potrei condurmi peggio di qui. Oh! – disse con un brivido di terrore – mandatemi lontano di qui dove tutti mi conoscono da bambina.
Emilia stese la mano, e Cam vi mise il borsellino. Essa lo prese, scambiandolo per il proprio, e fece un passo innanzi; ma, avvedendosi dell’errore, si voltò e venendo-gli da presso (egli s’era messo accanto a me) glielo mostrò.
– È tuo, Emilia – potei sentirgli dire. – Non ho nulla al mondo che non sia tuo, cara. A me non serve, se non per te.
Di nuovo si videro delle lagrime negli occhi di Emilia, ma ella si volse e andò da Marta. Non so che cosa le dicesse. La vidi chinarsi su di lei, e metterle il denaro in grembo, bisbigliandole qualcosa, come se domandasse se fosse sufficiente. «Più che sufficiente!» disse l’altra, e le prese la mano e gliela baciò.
Poi Marta si levò, e avvolgendosi nello scialle, vi nascose il viso, e piangendo forte si diresse lentamente alla porta. Si fermò un momento prima di uscire, come per dir qualche cosa o tornare indietro; ma non una sillaba le varcò le labbra. Uscì, continuando il suo gemito pau-602
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roso e angoscioso nello scialle.
Come la porta si chiuse, l’Emilietta guardò noi tre con una rapida occhiata, e poi si nascose il viso fra le mani, e scoppiò in singhiozzi.
– Ma no, Emilia – disse Cam, battendole amorevolmen-te sulla spalla. – No, mia cara. Non devi piangere così, cara.
– Oh, Cam! – ella esclamò, continuando a piangere angosciosamente. – Io non sono così buona come dovrei essere, Cam. So che a volte non sento in cuore la gratitudine che dovrei sentire, no.
– Sì, sì, che la senti, ne sono certo – disse Cam.
– No, no, no! – esclamò l’Emilietta, singhiozzando e scotendo il capo. – Non sono buona come dovrei essere.
Nemmen per sogno, nemmen per sogno!
E continuava a piangere, come se il cuore le si volesse rompere.
– Io metto troppo a prova il tuo bene, lo so! – essa singhiozzò. – Spesso sono imbronciata e capricciosa con te, quando dovrei essere tanto diversa. Tu con me non sei mai così. Perché dunque io debbo essere così con te, quando non dovrei che esserti grata e farti felice?
– Tu mi fai sempre felice, cara – disse Cam. – Sono felice anche a guardarti soltanto. Sono felice tutto il giorno, pensando a te.
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– Ah, non basta! – ella esclamò. – È così perché tu sei buono; non perché sia buona io. Oh, mio caro, sarebbe stato molto meglio per te, se tu avessi voluto bene a un’altra più seria e più degna di te, una donna che si fosse legata tutta a te, e non vana e capricciosa come me.
– Poverina! – disse Cam, sottovoce. – Marta l’ha sconvolta tutta.
– Per piacere, zia – singhiozzò Emilia – vieni qui, che appoggi la testa sulla tua spalla. Oh, io sono infelice, stasera, zia! Oh, io non sono buona come dovrei essere!
Non lo sono, lo so.
Peggotty s’era subito andata a sedere innanzi al fuoco. L’Emilia, in ginocchio, con le braccia intorno al collo, la guardava supplichevole.
– O zia, aiutami! Cam caro, cerca di aiutarmi! Signor Davide, per l’amore del tempo passato, cercate di aiutarmi! Io voglio essere migliore. Voglio sentirmi mille volte più grata. Vorrei non dimenticar mai che è cosa santa l’esser moglie di un brav’uomo, e condurre una vita tranquilla. Ohimè, ohimè! Oh, il cuore, oh, il cuore!
Ella nascose il viso nel petto di Peggotty, e terminando quella sua invocazione, che nella disperazione e nel dolore che la improntavano, era mezzo d’una donna e mezzo d’una bambina, come tutta la sua persona, come lo stesso carattere della sua bellezza, si mise a piangere in silenzio, mentre Peggotty cercava di consolarla come 604
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si fa con un bambino.
A poco a poco l’Emilia si calmò, e noi potemmo confortarla, un po’ incoraggiandola, un po’ canzonandola, finché non cominciò a levar la testa e a risponderci. Continuammo così, finché poté sorridere, e poi ridere, e poi sedersi, un po’ vergognosa; mentre Peggotty le riordina-va i riccioli sparsi, le asciugava gli occhi, le riassettava le vesti, perché al suo ritorno a casa, lo zio non s’accorgesse che la sua diletta aveva pianto.
La vidi fare, quella sera, ciò che non le avevo mai veduto far prima. La vidi baciare innocentemente il fidanzato, poi stringersi contro il suo tronco robusto, come giu-dicandolo il suo sostegno migliore. Quando se n’andarono insieme, nel pallido chiarore della luna, e li seguii con lo sguardo, comparando entro di me la loro partenza con quella di Marta, vidi che ella gli teneva il braccio con ambe le mani, come per non staccarsene mai più.
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XXIII.
LA SCELTA D’UNA PROFESSIONE
La mattina, quando mi svegliai, pensai molto all’Emilietta e alla sua commozione della vigilia, dopo l’uscita di Marta. Mi parve d’essere stato messo a parte in sacra confidenza delle sue debolezze e tenerezze intime, e rivelarle, anche a Steerforth, non sarebbe stato onesto. Per nessuno al mondo provavo il dolce sentimento che sentivo per la leggiadra creatura che era stata mia compagna di trastulli, e alla quale allora volevo, come sono stato sempre persuaso e sarò sempre fino al mio ultimo giorno, sinceramente bene. La ripetizione ad orecchie estranee – fossero anche quelle di Steerforth – di ciò che ella non aveva potuto nascondere quando per un puro caso avevo potuto leggere nel cuor suo, mi parve sarebbe stata una cattiva azione, indegna di me, indegna della luce della nostra pura infanzia, che vedevo sempre cin-gerle la testa. Risolsi, perciò, di tenermi ben custodito in petto il suo segreto, che dava alla sua immagine una grazia novella.