– Paura! – dissi con una certa aria d’audacia, guardando spavaldo il possente oceano. – Io invece non ho paura.
– Ah, il mare è cattivo – disse l’Emilia. – È stato molto crudele con alcuni dei nostri uomini. Io l’ho visto fare a pezzi un battello grosso come casa nostra.
– Spero che non era quello in cui...
– In cui annegò mio padre? – disse Emilia. – Quello non l’ho visto mai.
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– E lui? – io le chiesi. L’Emilietta scosse il capo:
– Io non me lo ricordo.
Quale coincidenza! Le spiegai immediatamente che neppur io avevo visto mai mio padre; e come mia madre e io fossimo vissuti sempre insieme perfettamente felici, e vivessimo così ancora, e sperassimo di continuare sempre allo stesso modo; e come la tomba di mio padre fosse nel cimitero accanto a casa nostra, all’ombra di un albero sotto il quale io andavo molte mattine a passeggio e sentivo cantare gli uccelli. Mi sembrava però che ci fosse qualche differenza tra la mia condizione di orfano e quella dell’Emilia. Essa aveva perduto la madre prima del padre; e nessuno sapeva dove fosse la tomba del padre; si sapeva solo che era in qualche parte nelle profondità del mare.
– E poi – disse Emilia, mentre si chinava in cerca di conchiglie e di sassolini – tuo padre era un signore e tua madre è una signora; e mio padre era un pescatore e mia madre era una figlia di pescatori, e mio zio Daniele è un pescatore.
– Daniele non è il signor Peggotty? – dissi.
– Sì, zio Daniele – rispose Emilia, con un cenno alla casa-battello.
– Sì, dicevo lui. Dev’essere molto buono tuo zio, credo.
– Buono! – disse Emilia. – Se fossi una signora, gli re-66
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galerei un abito azzurro con bottoni di diamanti, un paio di calzoni di cotone, un farsetto di velluto rosso, un tricorno, un grande orologio d’oro, una pipa d’argento, e una cassetta piena di soldi.
Risposi che ero più che persuaso che il signor Peggotty meritasse tutti quei tesori. Debbo aggiungere che m’era difficile figurarmelo a suo agio nel costume immaginato per lui dalla nipote riconoscente, e che dubitavo specialmente dell’opportunità del tricorno; ma tenni celate in me queste mie opinioni.
L’Emilietta si era fermata a guardare il cielo nell’enu-merazione dei suoi doni, come se formassero una visione di gloria. Continuammo a camminare, raccogliendo conchiglie e sassolini.
– Ti piacerebbe d’essere una signora? – dissi.
Emilia mi guardò, e rise, e accennò di sì.
– Mi piacerebbe moltissimo. Noi tutti saremmo signori, allora. Io, e lo zio e Cam e la signora Gummidge. Non ci importerebbe allora se facesse burrasca. Per noi, voglio dire. Ma certamente ci importerebbe per i poveri pescatori, e li aiuteremmo col nostro denaro in caso di disgrazie.
Questo m’apparve un quadro assai soddisfacente, e perciò non del tutto improbabile. Espressi il mio piacere ad Emilia, la quale si senti il coraggio di dire, pur con una certa esitazione:
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– Non credi d’aver paura del mare, ora? Esso era abbastanza calmo per rassicurarmi, ma confesso che se avessi visto corrermi incontro un’onda anche di mediocre volume, me la sarei data subito a gambe, pensando ai parenti annegati dell’Emilia. Pure dissi: «No», e aggiunsi: «Neanche tu n’hai paura, benché tu dica di sì» –
giacché in quell’istante ella camminava sull’orlo d’una vecchia gettata o ponticello di legno sul quale eravamo saliti, ed io temevo di vederla cadere.
– Non ne ho paura come intendi tu – disse l’Emilietta. –
Ma mi sveglio quando brontola, e tremo pensando a zio Daniele e a Cam, e mi pare di sentirli chiamare aiuto.
Ecco perché mi piacerebbe d’essere una signora. Ma non ne ho paura come intendi tu. Ma che! Guarda qui.
Si staccò dal mio fianco, e corse lungo un’asse frasta-gliata che si sporgeva dal posto ove eravamo e stava a picco da una certa altezza sull’acqua profonda, senza un riparo pur che fosse. La scena m’è così fissa in mente, che se fossi un disegnatore potrei ritrarla esattamente come mi si presentò quel giorno, con l’Emilietta in corsa verso la morte (come mi apparve) con uno sguardo che non ho più dimenticato, fisso sul mare lontano.
La snella, ardita, guizzante personcina si voltò e tornò indietro sana e salva: e io subito risi del mio sgomento e del grido che m’era sfuggito; inutilmente a ogni modo, perché non si vedeva anima viva in quei pressi. Ma, nella mia virilità, molte volte da quel giorno, molte volte 68
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ho pensato: «È possibile, fra le possibilità delle cose oc-culte, che nella improvvisa temerità della fanciulla e nel suo selvaggio sguardo fisso sul mare lontano, vi fosse una pietosa attrazione di lei nel pericolo, forse il desiderio del padre defunto che la vita di lei corresse il rischio di finire quel giorno?» D’allora molte volte mi son domandato: «Se il destino di lei mi fosse stato rivelato a un’occhiata, e rivelato in modo che un bambino avesse potuto comprenderlo, e se la sua salvezza fosse dovuta dipendere dal cenno della mia mano, l’avrei io salvata?»
Vi fu una volta dopo d’allora – durò un istante, ma ci fu
– che mi feci questa domanda: «Sarebbe stato meglio per l’ Emilietta se le acque innanzi a me quella mattina le si fossero chiuse sulla testa?»; e io mi risposi: «Sì, sarebbe stato meglio».
Questo può esser prematuro. Forse l’ho scritto troppo presto; ma non importa.