– consiste la confidenza che mi prenderò la libertà di farvi. Modesto come sono – si asciugava più forte le mani, e se le guardava, ora l’una, ora l’altra, al fuoco –
modesta com’è mia madre, e umile come la nostra povera e modesta casa è stata sempre, l’immagine della signorina Agnese (non mi perito di confidarvi il mio segreto, signorino Copperfield, perché ho sempre avuto simpatia per voi, dal primo momento ch’ebbi il piacere di vedervi nel carrozzino) è fissata nel cuor mio da anni.
Oh, signorino Copperfield, con che puro affetto amo il suolo sul quale cammina la mia cara Agnese!
Credo che per un momento mi venisse il folle impulso di brandire l’attizzatoio arroventato al fuoco, e di passarglielo da banda a banda. Ma mi uscì dalla testa con uno schiocco, come una palla che esca da un fucile; e l’immagine d’Agnese, violata non da altro che dal semplice pensiero di quel bruto dalla testa rossa, seduto di traverso sul canapè, come se la sua vile anima lo straziasse con una colica, mi rimase fissa in mente, dandomi la vertigine. Pareva ch’egli si gonfiasse e s’ingrossasse agli occhi miei; la stanza sembrava piena degli echi della sua voce; e lo strano sentimento (che tutti, forse, a volte, hanno provato) che la cosa fosse accaduta prima e che sapessi già quello ch’egli avreb-676
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be aggiunto, s’impossessò di me.
L’osservazione fatta a tempo, del senso di forza ch’egli mostrava nel viso, valse a ricordarmi la preghiera di Agnese, più di qualunque sforzo che avessi potuto fare. Gli chiesi, con maggior apparenza di calma che non credessi possibile un istante prima, se avesse rivelato i suoi sentimenti ad Agnese.
– Oh no, signorino Copperfield! – egli rispose. – Ohimè, no! A nessun altro che a voi. Vedete, sto ora sollevando-mi a pena dalla mia umile condizione. Tutte le mie speranze riposano molto sul fatto ch’essa osserva ch’io sono utile al padre (poiché confido d’essergli utile davvero, signorino Copperfield), e che gli spiano la via, e lo tengo in piedi. Ella è così affezionata a suo padre, signorino Copperfield (oh, che bella qualità questa, in una figliuola!), che credo che, per far piacere a lui, possa diventar buona con me.
Scandagliai la profondità di tutto il progetto di quel briccone, e compresi la ragione perché non lo rivelava così apertamente.
– Se avete la bontà di conservare il segreto, signorino Copperfield – egli proseguì – e, in generale, di non essermi contrario, lo terrò come un favore particolare.
Non è nelle vostre intenzioni d’esser cattivo. So che cuore di amico voi possedete; ma avendomi conosciuto in uno stato modesto (nel più modesto, dovrei dire, per-677
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ché sono ancora modesto), potreste, senza volerlo, essermi piuttosto contrario con la mia Agnese. La chiamo mia, vedete, signorino Copperfield. Ve una canzone che dice: «Lascio lo scettro per dirti mia». Spero di farlo, un giorno.
Cara Agnese! Così buona e affettuosa, che io non conoscevo nessuno degno neppur lontanamente di lei, era mai possibile che fosse destinata ad esser moglie di un simile miserabile?
– Non c’è fretta per ora, sapete, signorino Copperfield –
continuò Uriah, con quel suo tono vischioso, mentre io lo fissavo con quel pensiero in mente. – La mia Agnese è ancora assai giovane; e la mamma e io dovremo salire ancora e disporre di molte altre cose, prima di poterci pensare. Così, come me se n’offriva il destro, avrò tempo di abituarla a poco a poco al mio progetto. Oh, quanto vi son riconoscente per questa confidenza! Oh, non immaginate che sollievo sia saper che voi comprendete la nostra condizione, e siete risoluto a non contrariarmi per non cagionare dispiaceri in famiglia!
Egli mi prese una mano, che non osai di ritirare, e, dandole un’umida stretta, consultò il pallido quadrante del suo orologio.
– Cielo! – egli disse. – È l’una passata. Il tempo vola, parlando dei giorni passati, signorino Copperfield. È
quasi l’una e mezzo.
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Risposi che sapevo ch’era tardi. Non perché lo sapessi veramente, ma perché avevo a un tratto perduto ogni virtù di loquela.
– Poveretto me! – egli disse, in pensiero. – La casa dove albergo... una specie di pensione privata, signorino Copperfield, pressò il New River Head... sarà già chiusa da due ore.
– Mi dispiace – risposi – che qui ci sia solo un letto, e che io...
– Oh, non mi parlate di letti, signorino Copperfield!
– egli soggiunse in tono di preghiera, tirando su una gamba. – Ma vi dispiacerebbe se mi mettessi a dormire qui, innanzi al focolare?
– Se è così – dissi – fatemi il piacere di prendervi il letto mio, io mi accomoderò qui innanzi al fuoco.
Nell’eccesso della sua sorpresa e della sua modestia, rifiutò la mia offerta con uno strillo capace di turbare il riposo della signora Crupp, in quel momento, immagino, addormentata in una camera lontana quasi a livello della bassa marea, e cullata nei suoi sogni dal tic-tac d’un orologio incorreggibile, che non andava mai meno di tre quarti d’ora indietro, benché fosse regolato tutte le mattine sui suoi più autorevoli confratelli, e ch’ella mi portava sempre in prova nel caso di qualche piccola discussione sul soggetto della puntualità. Siccome non potei, nello sconvolgimento del mio spirito, giovarmi di nes-679
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sun argomento che avesse il minimo effetto sulla modestia di Uriah Heep per fargli accettare la mia camera da letto, mi vidi costretto ad accomodarlo alla meglio per il suo riposo innanzi al caminetto. Il materasso del canapè, benché troppo corto per quel perticone, i guanciali del canapè, una coperta, il tappeto della tavola, un mensale pulito, e un soprabito, gli formarono il letto e la coltre, ed egli se ne mostrò più che soddisfatto. Datogli un berretto da notte, che egli si mise subito, e sotto il quale m’apparve così straordinariamente brutto, che d’allora non ne ho mai più portati, lo lasciai a riposare.
Non dimenticherò mai quella notte. Non dimenticherò mai come mi voltassi e rivoltassi nel letto; come mi tormentassi pensando ad Agnese e a quel mostro; come ri-flettessi a quello che potessi e dovessi fare; come non mi riuscisse di arrivare ad altra conclusione che a questa: che il miglior partito da seguire per la pace di lei si fosse di non far nulla, e di tener gelosamente nascosto tutto quanto avevo appreso. Se m’addormentavo per pochi momenti, l’immagine di Agnese con i suoi teneri occhi e quelli di suo padre, che la contemplavano appassionatamente come eran soliti contemplarla, si levavano innanzi a me in atto supplichevole, e mi riempivano di vaghi terrori. Quando mi svegliavo, il ricordo, che Uriah dormiva nella stanza attigua, m’opprimeva come un incubo; m’affannava con una strana paura, come se avessi un demonio di immonda specie per ospite.
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Nel mio sonno era entrato anche l’attizzatoio e non voleva uscirne. Pensavo, nel dormiveglia, che fosse ancora arroventato, che lo avessi tratto dal fuoco, attraversando con esso il corpo dell’ospite da banda a banda. Ero così invasato da questa idea, benché la sapessi senza alcun fondamento, che mi trassi pian piano fino alla stanza attigua a contemplare il dormiente. Eccolo lì, allungato sulla schiena, con le gambe distese che non si vedeva fin dove, con la gola che gli gorgogliava, il naso che ora respirava ora taceva, e la bocca spalancata come una buca delle lettere. Era tanto più brutto nella realtà che nella mia immaginazione scomposta che dopo fui attratto verso di lui per quello stesso sentimento di ripulsione che m’ispirava, non resistendo a spingermi fin lì quasi ogni mezz’ora per dargli un’altra occhiata. E la lunga, lunghissima notte sembrava più uggiosa e più disperata che mai, e nel cielo non traluceva alcuna promessa di giorno.
Quando la mattina presto lo vidi andarsene giù per le scale (perché grazie al Cielo, non volle rimanere a colazione), mi parve che la tenebra se ne andasse via con lui. Quando uscii per recarmi al Commons, raccomandai particolarmente alla signora Crupp di lasciare le finestre aperte perché il salotto si potesse aerare e disinfettare d’ogni contatto di quella presenza.