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Charles Dickens
David Copperfield
XXVI.
CADUTO IN ISCHIAVITÙ
Non vidi più Uriah Heep fino al giorno della partenza di Agnese. Ero andato all’ufficio della diligenza per salutarla e vederla partire; e vi ritrovai anche lui, che tornava a Canterbury con lo stesso mezzo. Mi fu almeno di qualche soddisfazione mirar quel suo misero soprabito color tabacco, alto di spalle, corto di vita, accoccolato sul sedile in fondo all’imperiale, in compagnia d’un ombrello vasto come una piccola tenda, mentre Agnese stava, naturalmente, nell’interno; ma forse meritavo quel piccolo compenso per la pena sofferta nello sforzo di mostrarmigli cortese in presenza d’Agnese. Allo sportello della diligenza, come al pranzo da Waterbrook, egli ci gravitò continuamente intorno, come un grande av-voltoio, senza un istante di sosta, bevendo ogni sillaba che Agnese mi diceva, o che io dicevo ad Agnese.
Nello stato di turbamento nel quale la sua rivelazione di quella notte m’aveva gettato, avevo pensato molto a ciò che mi aveva detto Agnese sulla faccenda della società.
«Dissi ciò che mi parve giusto. Comprendendo che era necessario compiere il sacrificio per la pace di papà, lo supplicai di farlo». Un triste presentimento che ella 682
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avrebbe ceduto e si sarebbe sostenuta con lo stesso pensiero riguardo a qualunque sacrificio per amore del padre, aveva cominciato ad opprimermi fin da quel momento. Sapevo quanto ella gli volesse bene; Sapevo tutta la devozione del suo carattere; avevo appreso dalle sue stesse labbra come ella si reputasse la causa innocente dei trascorsi del padre, e come pensasse d’aver contratto con lui un debito che desiderava ardentemente di pagare. Non derivavo alcuna consolazione dalla conoscenza di quanto ella fosse diversa da quell’ignobile testa rossa col soprabito color tabacco, perché intuivo che in quella sua stessa diversità, nell’abnegazione della pura anima di lei e nella viltà sordida di lui, si nascondeva il pericolo. Tutto questo, senza dubbio, egli sapeva perfettamente, e l’aveva, nella sua scaltrezza, minutamente ponderato. Pure, ero così certo che la prospettiva lontana d’un simile sacrificio avrebbe potuto distruggere la felicità di Agnese; ed ero così sicuro, dai suoi modi, che non l’aveva ancora intraveduto, e che nessuna ombra ancora la turbava, che avrei preferito dirle un’ingiuria ad avvertirla del pericolo. Così fu che ci separammo senza spiegazioni; lei salutandomi con la mano e sorridendo un addio dallo sportello; il suo cattivo genio contorcendosi sull’imperiale, come se già la tenesse trionfalmente fra gli artigli.
Per lungo tempo non potei liberarmi da questa visione.
Quando Agnese mi scrisse per dirmi che era arrivata sana e salva, mi sentii rattristato come nel momento del-683
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la partenza. Tutte le volte che m’accadeva di fantasticare, quella visione non mancava di presentarmisi, e tutta la mia inquietudine non cessava dall’aumentare. Non passava notte che non ci pensassi. Quel pensiero divenne parte della mia vita, e inseparabile dalla mia vita come la testa.
Avevo tutto il tempo di torturarmi a mio agio; perché Steerforth era a Oxford, come mi scriveva, e quando non ero al Commons, io ero sempre solo. Credo che in quel periodo provassi un principio di diffidenza per Steerforth. Gli scrissi affettuosissimamente rispondendo alla sua, ma credo che, dopo tutto, fossi contento ch’egli non venisse a Londra proprio allora. Sospetto, in verità, che avvenisse questo: che l’influenza esercitata su di me da Agnese, che occupava gran parte dei miei pensieri e della mia attività spirituale, avesse maggior potere su di me, quando non era contrastata dalla presenza di Steerforth! Intanto passavano i giorni e le settimane. Io ero allogato da Spenlow e Jorkins. Avevo novanta sterline all’anno (all’infuori della pigione e varie spese affini) da mia zia. Il mio appartamentino era stato appigionato per un anno; e, benché la sera mi fosse uggioso, e le serate fossero lunghe, finii col compormi certa tollerabile melanconia e col rassegnarmi al caffè: che mi sembra, volgendo lo sguardo a quel periodo, prendessi allora non a tazze, ma a secchi. In quel tempo, inoltre, feci tre scoperte: primo, che la signora Crupp era martire d’una strana infermità chiamata «spasimo», generalmente ac-684
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compagnata da arrossamento del naso, che doveva esser costantemente combattuta con l’assenzio; secondo, che qualche cosa di speciale nella temperatura della mia cucina faceva sempre scoppiare le bottiglie d’acquavite; terzo, che ero solo al mondo, e spesso occupato a ricordare questa circostanza in frammenti di poesia inglese.
Il giorno che fui allogato presso Spenlow e Jorkins, non lo festeggiai che col far portare per gli impiegati dello studio dei panini gravidi e del vino di Jerez, e con l’andare a teatro la sera. Fui a vedere Lo «straniero», una specie di dramma alla Doctor’s Commons, che mi ridusse in tale stato che, tornando a casa, appena mi riconobbi allo specchio. Il signor Spenlow osservò, alla conclusione del nostro contratto, che sarebbe stato felice di vedermi in casa sua a Norwood per festeggiare le relazioni che s’erano strette fra noi; ma il suo impianto domestico non era ancora in perfetto assetto, perché aspettava il ritorno della figliuola recatasi a Parigi a compiere la sua educazione. Aggiunse però che al ritorno della figliuola egli si riprometteva il piacere di ricevermi sotto il suo tetto. Sapevo che era rimasto vedovo con un’unica figlia; e lo ringraziai per la sua benevolenza.
Il signor Spenlow mantenne la promessa. Una quindicina di giorni dopo, ricordando le sue parole, mi disse che se avessi voluto fargli il favore di andar giù a Norwood il prossimo sabato, per starvici fino al lunedì, ne sarebbe stato sommamente felice. Naturalmente gli dis-685
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si che ero dispostissimo a dargli questo piacere. Fu stabilito che m’avrebbe condotto e ricondotto indietro lui nella sua vettura.
Arrivato quel giorno, perfino la mia valigetta era diventata un oggetto di venerazione fra gli impiegati, per i quali la casa di Norwood era un mistero sacro. Uno di essi mi informò d’aver saputo che il signor Spenlow mangiava esclusivamente in piatti d’argento e porcellana finissima; e un altro accennò che usava sciampagna a tutto pasto, come gli altri la birra. Il vecchio impiegato in parrucca, signor Tiffey, s’era recato laggiù per affari parecchie volte nel corso della sua carriera, e in tutte quelle occasioni era penetrato fin nella sala da pranzo.
Egli la descriveva come una meraviglia di sontuosità, dicendo di avervi bevuto certo vino delle Indie Orientali che faceva chiuder gli occhi per la delizia.
Avevamo quel giorno nel Concistoro una causa che aveva già subito un rinvio. Si trattava di far condannare un fornaio che s’era ostinato a non pagare alla parrocchia certa tassa stradale. Siccome l’incartamento era il doppio preciso di Robinson Crusoe, secondo il calcolo che ne feci, alla chiusura era già abbastanza tardi nella giornata. A ogni modo, lo facemmo scomunicare per sei settimane, e condannare a infinite spese; e poi il procuratore del fornaio, e il giudice, e gli avvocati di entrambe le parti (che erano tutti parenti prossimi) partirono insieme per la campagna, e io e il signor Spenlow salimmo nella 686
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vettura.
La vettura era elegantissima: i cavalli inarcavano i colli e sollevavano le gambe, come se sapessero di apparte-nere al Doctor’s Commons. C’era allora una viva gara nel Commons per ogni genere di sfoggio mondano, e si potevan vedere molti equipaggi sontuosi. Pur nondimeno ho sempre creduto, e sempre crederò ché al tempo mio l’oggetto intorno a cui la gara si manteneva più attiva fosse l’amido che s’usava fra i procuratori in quantità strabocchevole, fino all’estrema capacità della natura umana.
Il nostro viaggetto fu piacevolissimo, e il signor Spenlow nel frattempo mi diede qualche informazione sulla mia professione. Disse che era la più nobile professione del mondo, e non doveva per nulla affatto confondersi con quella dell’avvocato; perché era diversa, infinitamente più eletta, meno volgare, e più lucrosa. Noi tratta-vamo le cose nel Commons, egli osservò, con maggior agio di quanto si potesse fare altrove, cosa che ci metteva, come classe privilegiata, a parte. Aggiunse ch’era impossibile nascondere la spiacevole circostanza, che eravamo principalmente impiegati dagli avvocati; ma mi fece comprendere che essi erano d’una razza inferiore, universalmente disprezzati da tutti i procuratori di un certo merito.
Domandai al signor Spenlow quale, secondo lui, fosse la migliore specie di affari professionali. Mi disse che 687
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il migliore di tutti, forse, era il caso d’un testamento contestato, che comprendesse un fondo di trenta o qua-rantamila sterline. Allora – egli diceva – non solo vi erano da fare delle belle raccolte di emolumenti a traverso montagne e montagne di testimonianze negli interrogatori e nei controinterrogatori (per non dir nulla degli appelli che si potevano promuovere prima innanzi alla Corte dei delegati e poi alla Camera dei Pari); ma, per la certezza che le spese sarebbero infine uscite dalla proprietà in contestazione, si andava da entrambe le parti allegramente avanti senza badare a denaro. Poi si lanciò in un elogio generale del Commons. Ciò che v’era particolarmente da ammirare (egli diceva) nel Commons, era la sua solidità. Era in questo mondo l’istituzione meglio organizzata. Dava la perfetta idea della comodità. Era contenuta in un guscio di noce. Per esempio: voi porta-vate un caso di divorzio, o di rivendicazione, nel Concistoro. Benissimo. Si tentava nel Concistoro. Giocavate tranquillamente a carte, in un crocchio familiare, a tutto vostro agio. Facendo l’ipotesi che non foste soddisfatto del Concistoro, che facevate allora? Ebbene, vi rivolge-vate alla Corte d’appello ecclesiastica. Che era la Corte d’appello ecclesiastica? La stessa Corte, nella stessa sala, lo stesso banco e gli stessi consiglieri, ma con un altro giudice, perché il giudice del Concistoro poteva perorare come avvocato, quando gli pareva e piaceva, innanzi alla Corte d’appello ecclesiastica. Bene, facevate ancora la vostra partita a carte. Neanche allora eravate 688
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soddisfatto? Benissimo. Che facevate allora? Potevate rivolgervi alla Corte dei Delegati. Chi erano i Delegati?