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– Veramente! – egli disse. – Dalle poche parole che il signor Murdstone s’è lasciato sfuggire, come avviene spesso in simili casi, e da ciò che m’ha lasciato intendere la signorina Murdstone, direi che è un magnifico matrimonio.

– Intendete dire che c’è di mezzo una grossa dote? –

chiesi.

– Sì – disse il signor Spenlow: – pare che ci sia una buona dote, e la bellezza anche, si dice.

– Sì? E la sposa è giovane?

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– L’età giusta per contrarre matrimonio – disse il signor Spenlow. – S’è aspettato appunto che compiesse l’età.

– Che Dio la salvi! – disse Peggotty, così all’improvviso e con tanta energia, che ne fummo tutti e tre sconcertati; ma in quel momento entrò Tiffey col conto, e lo consegnò al signor Spenlow perché lo verificasse.

Il signor Spenlow, riassettandosi il mento nella cravatta, e pianamente stropicciandoselo, percorse ogni riga con aria quasi contrita – come se tutto fosse opera di Jorkins

– e lo riconsegnò a Tiffey con un blando sospiro.

– Sì – egli disse. – Va bene. Benissimo. Sarei stato sommamente felice, Copperfield, di limitare il conto alle semplici spese, rinunziando alle nostre competenze; ma io sono nella triste condizione di non esser libero di seguire i miei desideri. Ho un socio... il signor Jorkins.

Siccome disse queste parole con una dolce melanconia, che equivaleva quasi all’averci servito gratis, lo ringraziai in nome di Peggotty e pagai Tiffey in biglietti di banca. Peggotty allora ci lasciò per andare a casa, e il signor Spenlow e io ci recammo in Corte, per trattare una causa di divorzio in grazia d’una piccola legge ingegnosa (abolita poi, ma in virtù della quale ho visto annullare parecchi matrimoni) che statuiva come appresso. Il marito, che si chiamava Tommaso Beniamino, aveva preso la licenza di matrimonio col solo nome di Tommaso, sopprimendo quello di Beniamino per il caso che non 848

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dovesse ritenersi soddisfatto, contro le sue speranze.

Ora non ritenendosi, contro le sue speranze, soddisfatto, o sentendosi un po’ stanco della moglie, poverino, egli si presentava, dopo essere stato coniugato un anno o due, in persona d’un amico e dichiarava di chiamarsi Tommaso Beniamino, e perciò di non essere ammogliato. La qual cosa, con sua grande soddisfazione, veniva confermata dalla Corte.

Debbo dire che io ebbi qualche dubbio sulla perfetta giustizia di questa procedura, e che il moggio di frumen-to che sanava tutte le anomalie, secondo il signor Spenlow, non riuscì affatto a dissiparlo.

Ma il signor Spenlow discusse la questione con me. Egli disse:

– Vedete il mondo: ha del bene e del male. Vedete la legge ecclesiastica: ha del bene e del male. Tutto fa parte d’un sistema. Benissimo. Ecco quanto!

Non ebbi il coraggio di osservare al padre di Dora che si sarebbe potuto probabilmente migliorare anche un pochino il mondo se tutti ci fossimo levati presto la mattina, e ci fossimo applicati lietamente al lavoro; ma confessai che credevo che si sarebbe potuto apportare qualche riforma nel Commons. Il signor Spenlow rispose che mi consigliava in modo speciale di bandir quell’idea dalla mia mente, indegna d’una persona a modo; ma che aveva la curiosità di sapere quali riforme io credevo 849

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possibili per il Commons.

Prendendo ad esempio quella parte del Commons che si trovava ad esserci più prossima – a quell’ora il nostro cliente non era più ammogliato, e noi eravamo fuori della Corte, oltre l’Ufficio delle Prerogative – osservai che l’Ufficio delle Prerogative era un istituto governato in modo strano. «In qual rispetto?» mi chiese il signor Spenlow. Risposi, con tutta la deferenza dovuta alla sua esperienza (ma con più deferenza, temo, per la sua qualità di padre di Dora), che mi pareva alquanto assurdo che gli Archivi di quella Corte, contenenti i testamenti originali di tutte le persone che avevano testato per il corso di tre secoli nell’immensa provincia di Canterbury, dovessero stare in un edificio non costruito con quello scopo, appigionato con contratti privati dagli archivisti, malsicuro, non garantito dagl’incendi, pieno zeppo degli importanti documenti che conteneva, e diventato positivamente, dal tetto ai sotterranei, una sordida speculazione degli archivisti, i quali riscotevano grassi onorari dal pubblico, e cacciavano i testamenti del pubblico per ogni dove, con nessun altro fine che di sbarazzarse-ne al più buon mercato possibile. Aggiunsi ch’era forse un po’ irragionevole che quegli archivisti, che arrivavano a guadagnare otto o novemila sterline all’anno per non parlare dei lucri dei supplenti e dei cancellieri non dovessero esser obbligati a spendere un po’ di quel denaro nel trovare un luogo adatto alla sicura conservazione di quegli importanti documenti che tutti, di tutte le 850

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classi della società, volenti o nolenti, dovevano loro affidare. Dissi ancora che forse era un po’ ingiusto che tutti i grandi uffici di quel grande Ufficio costituissero delle magnifiche sinecure, mentre i disgraziati scrivani, costretti a lavorare nella stanza buia lassù, formavano la categoria dei funzionari peggio retribuiti e meno considerati in Londra, nonostante i loro importanti servigi.

Forse anche non era un po’ indecoroso, mentre gli affari abbondavano, che l’archivista capo, il cui dovere era di dare al pubblico, che si rivolgeva continuamente a quegli uffici, tutte le comodità necessarie, godesse in virtù del suo posto un’enorme sinecura (e potesse essere inoltre, un ecclesiastico, un uomo che accumulava molti benefici, un canonico della cattedrale, e così via), mentre il pubblico sopportava infinite noie, delle quali si davano ogni giorno degli esempi assolutamente mostruosi? Che, insomma, quell’Ufficio delle Prerogative della diocesi di Canterbury era, forse, un tale indicibile intruglio, una tale perniciosa assurdità, che se non fosse stato cacciato in un angolo del Cimitero di San Paolo, noto a pochissi-mi, sarebbe stato da lungo tempo completamente rivol-tato come un guanto e rovesciato.

Il signor Spenlow sorrise vedendomi così infervorato, e poi discusse con me della questione, come aveva discusso dell’altra. Dopo tutto, di che si trattava? – egli disse.

– Si trattava di una semplice questione di sentimento. Se il pubblico era convinto che i suoi testamenti fossero sicuramente custoditi, e ammetteva che l’Ufficio funzio-851

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nasse in piena regola, chi ci perdeva? Nessuno. Chi ci guadagnava? Tutti quelli che godevano le sinecure. Benissimo. I vantaggi superavano di gran lunga gli svantaggi. Forse il sistema non era perfetto, nulla è perfetto al mondo; ma quello di cui egli non poteva assolutamente sentir parlare era l’avvento del piccone. Sotto l’impero dell’Ufficio delle Prerogative, il Paese si era coperto di gloria. Se l’Ufficio delle Prerogative fosse stato preso a colpi di piccone, il Paese avrebbe cessato di coprirsi di gloria. Egli credeva che il principio, al quale doveva informarsi un’anima retta e nobile, fosse di lasciar le cose come stavano, non avendo alcun dubbio che l’Ufficio delle Prerogative sarebbe durato per tutto il nostro tempo. M’arresi alla sua opinione, benché ne dubitassi molto. Il fatto sta, però, ch’egli aveva ragione; perché l’Ufficio delle Prerogative non solo dura ancora, ma ha resistito ai denti d’una grande relazione parlamentare, fatta (senza soverchio slancio) diciotto anni fa, nella quale tutte queste mie obbiezioni erano minutamente sviluppate, e quando si credeva che lo spazio per la conservazione dei testamenti sarebbe appena bastato per altri due anni e mezzo. Non so come se la siano cavata dopo; se ne abbiano perduti molti, o se di tanto in tanto non li abbiano venduti ai pizzicagnoli. Son lieto che non vi sia il mio, e spero che non vi sarà ancora, per molto tempo.

Ho riferito tutta questa conversazione, in questo capitolo beato, perché in esso ha la sua sede naturale. Il si-852

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gnor Spenlow e io la prolungammo, passeggiando in lungo e in largo, prima di arrivare ad argomenti più ge-nerici. E così accadde alla fine ch’egli mi disse che fra otto giorni sarebbe caduto il natalizio di Dora, ed egli sarebbe stato lieto se io avessi partecipato al «picnic»

col quale sarebbe stato festeggiato. Immediatamente persi i sensi; e il giorno dopo, ricevendo un bigliettino con l’orlo ricamato, che diceva: «Raccomandato alla diligenza di papà. Per ricordo», diventai pazzo, e passai i giorni seguenti in una perfetta condizione d’incitrulli-mento.

Credo che commettessi ogni sorta di sciocchezze nell’attesa di quel giorno fortunato. Divento rosso ripensando alla cravatta che comprai. Le mie scarpe nuove potevano figurar benissimo in una collezione di strumenti di tortura. Comprai e spedii a Norwood, la sera prima, con la diligenza, un elegante e grazioso panierino, che di per sé stesso, credo, era quasi una dichiarazione. Conteneva dolci avvolti nei più teneri motti che si potessero comperare. La mattina, alle sei, ero al mercato di Covent Garden per comprare un mazzo di fiori per Dora. Alle dieci ero a cavallo (avevo noleggiato un bel corsiero grigio per l’occasione) e trottavo verso Norwood, col mazzolino nel cappello per tenerlo fresco.

Credo che quando vidi Dora nel giardino e finsi di non vederla, e andai più oltre, facendo l’atto di cercare con grande ansia la casa, commettessi due piccole bestialità 853

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che altri forse nelle mie condizioni avrebbe pure com-messe – perché le feci con tanta naturalezza. Ma, ahi, quando ebbi trovato la casa, e discesi al cancello del giardino, e trascinai quelle scarpe spietate a traverso il prato verso Dora, la quale era adagiata su un sedile al-l’ombra di un albero di lillà, che spettacolo ella mi offrì, in quella bella mattina, tra le farfalle, col cappellino di paglia bianca e la veste azzurra!

V’era una signorina con lei – comparativamente innanzi negli anni – di circa venti primavere, direi. Si chiamava la signorina Mills, e Dora la chiamava la sua Giulia. Era l’amica del cuore di Dora. Beata la signorina Mills!

C’era anche Jip, e Jip continuava ad abbaiarmi contro. Quando presentai il mio mazzolino, digrignò gelosamente i denti. E aveva ragione. Se aveva la minima idea di come adorassi la sua padroncina, sì, aveva ragione!

– Oh, grazie, signor Copperfield! Che bei fiori! – disse Dora.

Avevo l’intenzione di dire (e avevo per il corso di tre miglia studiato il miglior modo di dirlo) che li avevo creduti belli prima di vederli in mano sua. Ma non mi riuscì. Ella era troppo ammaliante. Vederla mettersi i fiori contro il mento a fossette era perdere, in una tenera estasi, ogni presenza di spirito e ogni facoltà di parola.

Mi stupisco che non dicessi: «Per pietà, signorina Mills, 854

Are sens