Charles Dickens
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qualcosa. Così dissi a papà ieri sera che sarei uscita. E
poi è la più bell’ora del giorno. Non è vero? Arrischiai un audace volo, dicendo (non senza balbettare) che per me era fulgidissima, benché un minuto prima fosse te-nebrosa.
– Volete farmi un complimento? – disse Dora – o il tempo è veramente cambiato?
Balbettai peggio di prima, rispondendo che il mio non era un complimento, ma la pura verità, benché non mi fossi accorto che il tempo si fosse cambiato. Parlavo di ciò che era avvenuto nel mio sentimento, aggiunsi timidamente, per rafforzare la spiegazione.
Non avevo mai visto riccioli simili – come avrei potuto vederli se non ce n’erano? – simili a quelli ch’ella scosse per nascondere il suo rossore. Quanto al cappello di paglia e ai nastri azzurri ch’erano sui riccioli, se avessi potuto sospenderli nella mia stanza di Buckingham Street, che tesoro impareggiabile che avrei posseduto!
– Siete ritornata appena da Parigi – dissi.
– Sì – ella disse. – Ci siete mai stato?
– No.
– Oh! Spero che ci andrete presto. Vi piacerebbe tanto!
Tracce di profonda angoscia mi si sarebbero certo scoperte in volto. Che ella sperasse che io v’andassi, ch’ella dovesse pensar probabile che io vi potessi andare, m’era 699
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insopportabile. A me importava un bel nulla di Parigi; a me importava un bel nulla della Francia. Dissi che per nulla al mondo avrei lasciato l’Inghilterra proprio in quei momenti. Tutti i tesori del mondo non mi ci avrebbero indotto. In breve, ella s’era messa di nuovo ad agitare i riccioli, quando il cagnolino, con nostro gran sollievo, ci raggiunse di corsa nel viale.
Esso era molto geloso di me, e s’ostinava ad abbaiarmi contro. Ella se lo prese in braccio – oh, cielo! – e lo carezzò, ma quello non desisteva dai suoi latrati. Non tol-lerava che io lo toccassi; e allora ella lo batté. Accrebbe di molto le mie sofferenze veder i colpi ch’ella gli dava per castigo sul muso, mentre quello strizzava gli occhi, e le leccava la mano, e continuava a brontolare fra sé come un piccolo contrabbasso. Finalmente s’acchetò –
sfido io, con quel mento a fossette di Dora sulla sua testa! – e ci avviammo per andare a vedere una serra.
– Non siete molto intimo con la signorina Murdstone, voi? – disse Dora. – Diletto mio!
(Le due ultime parole erano dirette al cane. Oh, se invece fossero state dirette a me!)
– No – risposi – per nulla affatto.
– Se sapeste come è noiosa! – disse Dora; con una smorfietta. – Chi sa che passava per la testa a papà, quando andò a scegliere una persona così uggiosa per darmi una compagna. Che bisogno ho io d’una protet-700
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trice? Non ho bisogno d’avere una protettrice, io. Jip può proteggermi meglio della signorina Murdstone...
non è vero, Jip caro?
Esso socchiudeva soltanto gli occhi, quand’ella gli baciava quel suo gomitolo di testa.
– Papà la chiama la mia amica di fiducia; ma io son sicura che non lo è affatto... non è vero, Jip? Io e Jip non siamo così matti d’aver fiducia di una persona che brontola continuamente. Noi intendiamo d’aver fiducia di chi ci pare e piace, e scoprir noi i nostri amici, invece di pigliarceli belli e scoperti... non è vero, Jip?
Jip faceva in risposta il rumore d’una teiera che bolle. Quanto a me, ogni parola era un nuovo mucchio di catene che si ribadiva sull’ultima.
– È doloroso, giacché non abbiamo una buona mamma, dover avere invece una vecchia bisbetica e noiosa come la signorina Murdstone, che ci sta sempre alle calcagna... non è vero, Jip? Ma non curartene, Jip. Noi non le accorderemo la nostra fiducia, e staremo più allegri che ci sarà possibile, a suo dispetto, e la faremo stiz-zire, e faremo il comodo nostro... non è vero, Jip?
Per poco che fosse ancora durato, credo che avrei lasciato cadere le mie ginocchia sulla ghiaia, con la probabilità di scorticarmele, e inoltre di esser messo subito alla porta. Ma per fortuna la serra non era lontana, e in quel momento eravamo arrivati.
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Conteneva una bella esposizione di gerani. Noi li passammo in rassegna, e Dora si fermò spesso ad ammirare questa o quella pianta, fermandomi anch’io con lei, ad ammirare quelle ch’ella ammirava. Dora levava su il cane per fargli scherzosamente odorare i fiori; e se non eravamo tutti, e tre nel paese dell’incanto, c’ero certamente io. Anche oggi, l’odore d’una foglia di geranio mi fa domandare, un po’ sul serio, un po’ per scherzo, che cosa a un tratto sia avvenuto in me: e allora veggo un cappello di paglia e dei nastri azzurri, e innumerevoli riccioli, e un cagnolino nero sollevato fra due piccole braccia contro un mucchietto di fiori e di foglie lucenti.
La signorina Murdstone s’era messa in cerca di noi, e ci trovò nella serra. Presentò a Dora, perché la baciasse, la sua poco simpatica gota, tutta piena di cipria nelle piccole rughe. Poi si prese Dora a braccetto, e ci fece marciare verso la colazione, come se andassimo al funerale d’un militare.
Quante tazze di tè bevvi, perché l’aveva fatto Dora, non so. Ma ricordo perfettamente che ne tracan-nai tante da distruggermi il sistema nervoso, se in quei giorni l’avessi avuto. Subito andammo in chiesa. La signorina Murdstone era fra me e Dora nel banco: ma sentii cantar Dora e la congregazione svanì. Fu pronunziato un sermone – su Dora naturalmente – e temo che fosse l’unica cosa che comprendessi del servizio religioso.
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Il giorno trascorse tranquillamente. Non venne nessuno, si andò a passeggiare, alle quattro si desinò in famiglia, e la sera ci mettemmo a sfogliar libri e a guardare incisioni; la signorina Murdstone, con un’o-melia dinanzi, ci teneva d’occhio, montando con gran zelo la guardia. Ah, quanto poco il signor Spenlow immaginava, mentre mi sedeva dirimpetto, col fazzoletto in testa, dopo il desinare, come io fervidamente lo abbracciassi, idealmente, in qualità di suocero! Non immaginava affatto, nel momento che mi congedai da lui la sera, d’aver egli dato appunto il suo pieno consenso al mio fidanzamento con Dora, e le celesti benedizioni che io invocavo sul suo capo.