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poggiato al grande aquilone dietro mia zia, non avesse approfittato di tutte le occasioni per farmi degli oscuri cenni col capo e indicare mia zia.

– Trot – disse mia zia finalmente, quando ebbe finito il tè, e dopo essersi asciugate le labbra e accuratamente li-sciato il vestito – tu puoi stare, Barkis!... Trot, hai acquistato la fermezza necessaria a un uomo, e la fiducia in te stesso?

– Spero, zia.

– Lo credi?

– Lo credo, zia.

– Allora, figlio mio – disse mia zia, guardandomi intenta – sai la ragione perché preferisco stasera di rimaner seduta sulla roba mia?

Scossi il capo, incapace di indovinare.

– Perché – disse mia zia – è tutto quello che mi rimane.

Perché io sono rovinata, mio caro.

Se la casa e tutti noi fossimo a un tratto precipitati nel fiume, il crollo non mi sarebbe stato più improvviso e doloroso.

– Dick lo sa – disse mia zia, mettendo tranquillamente una mano sulla mia spalla. – Sono rovinata, mio caro Trot! E tutto quanto posseggo al mondo è contenuto in questa stanza, eccetto il villino, dove ho lasciato Giannina perché lo appigioni. Barkis, ho bisogno d’un letto per 884

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questo signore, stasera. Per risparmio di spese, potresti accomodar qualche cosa per me qui. Mi adatterò comunque. Sarà solo per stasera. E domani parleremo meglio di tutto.

Fui riscosso dal mio intontimento e dal dolore che provavo per lei – per lei, ne son certo – dal suo abbandono improvviso nelle mie braccia e dalla dichiarazione, nel pianto, che il suo pensiero era soltanto per me. Dopo un istante, ella frenò ogni trasporto, e disse con un aspetto, più che di abbattimento, di trionfo:

– Dobbiamo affrontare coraggiosamente le disgrazie, e non accasciarci, caro. Dobbiamo rappresentare la nostra parte fino all’ultimo, e trionfare dei rovesci, Trot.

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XXXV.

ABBATTIMENTO

Ricuperata appena la calma, che m’aveva abbandonato alla prima tremenda scossa della notizia di mia zia, proposi al signor Dick di avviarci verso la bottega del droghiere, per prendere possesso del letto lasciato recentemente libero dal pescatore Peggotty. La bottega del droghiere era in Hungerford Market – l’Hungerford Market era allora molto diverso da quel che è oggi – e aveva un colonnato basso di legno innanzi alla porta (non dissimile da quello della casa abitata dai due pupazzi di uomo e di donna nei vecchi barometri), che piacque moltissimo al signor Dick. L’onore di abitare su quel colonnato lo avrebbe compensato, oso dire, di molti inconvenienti; ma siccome non ve n’erano molti, oltre il misto di odori che ho già menzionato, e la mancanza, forse, d’un po’

più di spazio, egli si mostrò assolutamente entusiasta di quella dimora. La signora Crupp gli aveva annunziato con tono di sdegno che non v’avrebbe trovato neanche tanto spazio da farvi ballare un gatto; ma, come il signor Dick mi fece giustamente osservare, sedendosi a piè del letto, e carezzandosi la gamba: «Sai, Trot, non intendo far ballare nessun gatto. Non ho fatto mai ballare i gatti, 886

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io. Perciò, che vuoi che me ne importi?».

Tentai di accertarmi se il signor Dick avesse in qualche modo compreso le cause di quell’improvviso e grande mutamento nelle faccende di mia zia. Ma com’era da aspettarselo, non se n’era reso affatto conto. Il solo cenno che seppe darmene si fu che l’antivigilia mia zia gli aveva detto: «Ora, Dick, sei veramente e seriamente così filosofo come ti credo?» Allora egli aveva detto:

«Sì, lo spero». Allora mia zia aveva detto: «Dick, io sono rovinata». E a questo, egli aveva risposto: «Oh, davvero!» E allora mia zia gli aveva fatto un grande elogio, del quale egli s’era molto compiaciuto. E allora erano partiti, e in viaggio avevano bevuto della birra e mangiato dei panini gravidi.

Il signor Dick era così lieto mentre mi narrava questo, guardandomi con gli occhi spalancati e un sorriso di sorpresa, e standosene a piè del letto a lisciarsi una gamba, che, mi spiace di dirlo, fui costretto a spiegargli che rovina voleva dire miseria, bisogno, fame; ma poi mi pentii amaramente della mia temerità, perché lo vidi diventar pallido, e allungar le guance e piangere, mentre fissava su di me uno sguardo di tale ineffabile angoscia che avrebbe intenerito un cuore più crudele del mio. Durai gran fatica a risollevarlo, molto più che ad abbatter-lo; e subito compresi (come avrei dovuto comprendere fin dal principio) che egli si era mostrato così incurante, sol perché aveva un’incrollabile fede nella più saggia e 887

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meravigliosa delle donne, e una fiducia illimitata nelle mie facoltà intellettuali; che egli considerava tali, da trionfare di ogni specie di disastro non assolutamente mortale.

– Che possiamo fare, Trotwood? – disse il signor Dick.

– C’è il memoriale.

– Certo, c’è il memoriale – dissi. – Ma per ora quello che possiamo fare, signor Dick, è di aver l’aria allegra, e di non far trasparire a mia zia che siamo impensieriti.

Di questo egli si persuase perfettamente; e mi supplicò, se l’avessi visto spostarsi d’un solo pollice dal retto sentiero, di ricondurvelo con qualcuno di quei mezzi inge-gnosi che a me non mancavano mai. Ma mi rincresce di dire che la paura che gli avevo fatta era stata tanta che con gran difficoltà si provava a nasconderla. Tutta la sera, guardò continuamente mia zia con un’espressione di tanta tristezza e inquietudine, che sembrava ch’egli la vedesse gradatamente assottigliarsi ed emaciarsi. Di questo si dava conto, e tentava ogni sforzo per non muovere la testa; ma col tenerla immobile e girare gli occhi come fanno gli automi, non riparava a nulla. Lo vidi considerare, durante la cena, il pane (che per caso era piccolo) come se null’altro fosse fra noi e la morte per fame; e quando mia zia insistette perché egli mangiasse secondo il solito, lo scoprii che si nascondeva in tasca un pezzo di pane e di formaggio: certamente con lo scopo di salvarci, con quelle vettovaglie, nell’ora che fossi-888

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mo cacciati al punto estremo della disperazione.

Mia zia, al contrario, mostrava una calma che era una lezione per noi tutti – per me, certo. Ella si mostrava molto affabile con Peggotty, tranne quando io la chia-mavo inavvertitamente con questo nome; e pareva stare perfettamente a suo agio, nonostante la sua ripugnanza per Londra. Lei doveva coricarsi in camera mia, e io rimanere nel salottino, a montare la guardia. Si diceva soddisfatta di trovarsi dalla parte del fiume, nel caso d’un incendio; e veramente credo che fosse lieta di quella circostanza.

– Caro Trot – disse mia zia, come vide che mi accingevo a prepararle la sua solita bevanda serale. – No!

– Non volete nulla, zia?

– Non col vino, caro. Con la birra.

– Ma il vino ce l’ho, zia. E voi usate sempre il vino.

– Serbalo in caso di malattia – disse mia zia. – Non bisogna farne spreco, Trot. Dammi la birra. Una mezza bottiglia.

Mi parve che il signor Dick stesse lì lì per svenire. Mia zia fu irremovibile, ed io uscii per andare a comprare la birra. Siccome era tardi, Peggotty e il signor Dick colsero quell’occasione per fare insieme la via verso la bottega del droghiere. Io mi separai da lui, poveretto, alla cantonata, e lo vidi allontanarsi con l’aquilone sulle 889

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spalle, che pareva l’immagine della miseria umana.

Quando rientrai, mia zia passeggiava su e giù per la stanza, arricciando con le dita gli orli della sua cuffia da notte. Feci scaldare la birra e feci i crostini secondo le solite infallibili norme. Quando tutto fu pronto, era pronta anche lei, con la cuffia in testa, e il lembo della veste rimboccato sulle ginocchia.

Are sens