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Appresi da questo, che la signorina Mills aveva sofferto 855

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le sue prove nel corso d’una varia esistenza; e che a quelle forse dovevo attribuire quella saggia benignità di maniere già in lei osservata. E vidi, durante la giornata, che era proprio così: la signorina Mills era stata sfortu-nata nel collocamento del suo affetto, e si doveva intendere che s’era ritirata dal mondo con quel tremendo capitale d’esperienza, ma pur prendendo moderatamente a cuore le speranze e gli amori non ancora delusi dei cuori giovanili.

Ma ecco il signor Spenlow uscire dalla casa, e Dora cor-rergli incontro dicendo: «Guarda, papà, che bei fiori!» e la signorina Mills sorridere pensosa, come a dire: «Sì, farfalle di maggio, godete la vostra breve esistenza nel lucente mattino della vita!» e tutti andare dal prato verso la vettura, che si stava attaccando.

Non farò mai una passeggiata simile; non ne avevo fatto mai un’altra simile. Nella vettura vi erano soltanto essi tre, il mio paniere, il loro paniere e la custodia della chitarra; e, naturalmente, la vettura era scoperta, e io seguivo la vettura a cavallo; e Dora, che voltava le spalle ai cavalli, volgeva a me il viso. Teneva il mio mazzolino sul cuscino accanto a lei, e non permise a Jip di sedersi da quel lato, per tema che glielo schiacciasse. Spesso lo prendeva in mano, spesso si deliziava della sua fragranza. I nostri occhi allora s’incontravano; e mi domando ancora come mai non saltassi di sulla testa del mio corsiero grigio nella vettura.

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V’era della polvere, credo. V’era molta polvere, credo.

Ho una vaga impressione che il signor Spenlow mi consigliasse di non cavalcare avvolto nella polvere sollevata dalla vettura; ma i non m’accorgevo di nulla. Vedevo soltanto una nube d’amore e di bellezza avvolgere Dora, e null’altro. Egli si levava a volte per chiedermi che impressione mi facesse il paesaggio. Rispondevo che era delizioso, ed era vero; ma non vedevo che Dora. Il sole era fulgido di Dora, e gli uccelli cantavano Dora. E il vento del mezzogiorno portava sulle sue ali Dora, e i fiori selvaggi delle siepi erano tutti Dora fino all’ultimo bottoncino. Il mio conforto era che la signorina Mills mi capiva. Solo la signorina Mills poteva entrare perfettamente nei miei sentimenti.

Non so quanto tempo ci mettessimo ad arrivare, e neppur ora so dove fossimo andati. Forse eravamo nei pressi di Guilford. Forse qualche genio delle «Mille e una Notte» ci aveva aperto quel luogo per quel giorno e lo richiuse per sempre dopo che ce ne fummo andati. Era una prateria verde in collina, tutta tappezzata di erba te-nerella. V’erano alberi ombrosi, una brughiera, e, fin dove giungeva lo sguardo, un ricco paesaggio. Per me fu un dispiacere trovar lì della gente che ci aspettava, e la mia gelosia, anche per le signore, non ebbe limiti. Ma tutti quelli del mio sesso – specialmente un impostore, di tre o quattro anni maggiore di me, con le fedine rosse sulle quali egli fondava un insopportabile presunzione –

furono i miei nemici mortali.

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Tutti aprimmo i panieri, e ci occupammo della preparazione del desinare. Fedinerosse pretese di saper fare l’insalata (cosa a cui non credo), e si impose all’attenzione pubblica. Alcune fra le signorine gli lavarono la lattuga e si misero a sminuzzarla sotto la sua direzione.

Fra esse c’era Dora. Sentii che il fato mi contrapponeva quell’uomo, e che l’uno o l’altro doveva soccombere.

Fedinerosse fece l’insalata (mi meraviglio come si potesse mangiarla: nulla al mondo m’avrebbe indotto ad assaggiarla!), e si attribuì l’ufficio di cantiniere, e co-struì la cantina, per darsi l’aria d’un bruto ingegnoso, nella cavità, d’un tronco d’albero; e, poco dopo, lo vidi, con la maggior parte d’un’aragosta su un piatto, mangiare ai piedi di Dora.

Non ho un’idea chiara di ciò che accadesse per qualche tempo, dopo che quel tristo spettacolo s’era offerto al mio sguardo. So che mi mostravo molto allegro; ma d’una allegria fittizia. Allora m’aggrappai a una giovinetta vestita di rosa, dagli occhi piccoli, e civettai con lei disperatamente. Ella accolse favorevolmente le mie attenzioni; ma non so dire se soltanto per sé, o se per qualche mira che avesse su Fedinerosse. Si bevve alla salute di Dora. E feci le viste d’interrompere a bello studio la mia animata conversazione, per brindare anch’io, e di ripigliarla immediatamente dopo. Incontrai gli occhi di Dora in quell’atto, e mi parvero pieni d’uno sguardo supplichevole. Ma quello sguardo mi giungeva di sul 858

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capo di Fedinerosse, e fui più duro d’un diamante.

La giovinetta vestita di rosa aveva la madre vestita di verde, che ci separò, credo, con uno scopo politico. Comunque, vi fu uno sparpagliamento generale, mentre si raccoglievano gli avanzi del desinare; e me n’andai soletto fra gli alberi, colmo di dispetto e di rimorso. Stavo dibattendo fra me e me se dovessi fingere di sentirmi male e fuggire – non so dove – sul mio grigio corsiero, quando fui raggiunto da Dora e dalla signorina Mills.

– Signor Copperfield – disse la signorina Mills, –

voi siete triste.

– Io? Ma per nulla affatto – risposi.

– E tu, Dora – disse la signorina Mills, – anche tu sei triste!

– Oh, mia cara, no, neppur per sogno.

– Signor Copperfield, e tu, Dora – disse la signorina Mills, con un’aria quasi venerabile, – finitela. Non permettete a un futile malinteso di appassire i fiori della primavera, che, una volta appassiti, non rifioriscono più. Io parlo – disse la signorina Mills – con l’esperienza del passato... il remoto e irrevocabile passato. Le fontane zampillanti che scintillano al sole non debbono inaridirsi per un semplice capriccio; l’oasi del deserto di Sahara non dev’essere scioccamente distrutta.

Sapevo appena quel che mi facessi, perché avevo la 859

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testa tutta in fuoco; ma presi la manina di Dora, e la baciai – ed ella mi lasciò fare. Baciai la mano alla signorina Mills, e mi parve che tutti e tre salissimo di filato al settimo cielo.

E non ne discendemmo. Ci trattenemmo lassù tutta la sera, errando prima qua e là fra gli alberi, io col timido braccio di Dora nel mio: e che felicità sarebbe stata, benché sembrasse una pazzia, diventare immortali con quegli sciocchi sentimenti in cuore, ed errar sotto quegli alberi in eterno!

Troppo presto, ahimè, sentimmo gli altri ridere e parlare, e gridare: «Dov’è Dora?». Tornammo quindi dov’eran gli altri, e si chiese che Dora cantasse. Fedinerosse avrebbe voluto slanciarsi a prendere la chitarra nella carrozza, ma Dora gli disse che soltanto io sapevo dove fosse. Così Fedinerosse in un istante fu spacciato, e andai io a pigliarla, e io apersi la custodia, e io ne trassi la chitarra, e io mi sedetti accanto a lei, e io le tenni il fazzoletto e i guanti, e io bevvi ogni nota della sua cara voce, che cantava di me che l’amavo. Gli altri potevano applaudire come loro piaceva e pareva, ma con la ro-manza non avevan nulla a che fare.

Ero colmo di gioia. Temevo che quella gioia fosse soverchia, e fosse un sogno, e che in quel momento mi dovessi svegliare in Buckingham Street e sentir l’acciotto-lìo della signora Crupp nell’atto di prepararmi la colazione. Ma Dora cantava, e altri cantavano, e la signorina 860

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Mills cantò – di echi dormienti nelle caverne della memoria, come se fosse stata vecchia di cento anni – e giunse la sera, e fu fatto il tè, con la teiera che bolliva alla foggia degli zingari, ed io ero più che mai felice.

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