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Charles Dickens

David Copperfield

XXXIII.

BEATO

Avevo continuato, nel frattempo, ad amar Dora, più ardentemente che mai. Il pensiero di lei, che m’era di refrigerio nelle mie delusioni e nei miei affanni, mi consolava in qualche modo anche della perdita dell’amico.

Più compiangevo me stesso o compiangevo gli altri, più cercavo consolazione nell’immagine di Dora. Maggiore era il cumulo di inganni e di tristizie che incontravo nel mondo, più splendida e più pura sul mondo splendeva la stella di Dora. Non credo che avessi una idea abbastanza definita della provenienza di Dora o del suo grado di parentela con un ordine più alto di esseri; ma sono assolutamente certo che avrei sdegnosamente respinto l’affermazione ch’ella fosse semplicemente umana, come qualunque altra fanciulla.

Io m’ero completamente immerso in Dora, se m’è lecito dir così. Di lei non soltanto ero innamorato cotto fino ai capelli, ma perfettamente saturo in ogni fibra. Metafori-camente parlando, si sarebbe potuto spremere da me abbastanza amore da annegarvi qualcuno; e pure me ne sarebbe rimasto ancora tanto intorno e di dentro da com-penetrarmi tutta l’esistenza.

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Primo effetto d’un mio spontaneo impulso, al ritorno, fu di andare a fare una passeggiata notturna a Norwood, e di girare, secondo un venerabile indovinello del tempo della mia fanciullezza «intorno intorno alla casa senza mai toccar la casa», pensando a Dora. Credo che quell’indovinello, per me incomprensibile, si riferisse alla luna. Comunque si fosse, io, schiavo lunatico di Dora, girai due ore intorno alla casa e al giardino, guardando a traverso gli spiragli del giardino, arrivando con una serie di violenti sforzi a sporgere il mento sui ferri rugginosi della cancellata, inviando baci ai lumi nelle finestre, e romanticamente, di tanto in tanto, invocando la notte perché difendesse la mia Dora – non so esattamente da che, forse dal fuoco, forse dai topi, dei quali ella aveva una paura indicibile.

Ero così pieno dell’amor mio, ed era così naturale che io mi confidassi con Peggotty, quando la sera me la trovai di nuovo accanto, occupata, con tutti i suoi vecchi strumenti di lavoro, a passare in rassegna il mio guardaroba, che la misi a parte, con molte perifrasi, del mio gran segreto. Peggotty prese vivamente a cuore la cosa, ma assolutamente non mi riuscì di fargliela guardare dal lato da cui la vedevo io. Essa si mostrò audacemente preve-nuta in mio favore, e per nulla affatto in grado di comprendere perché io fossi preda di ansie, di timori e di scoramenti. «La ragazza deve ritenersi fortunatissima d’avere un simile innamorato», ella osservava. «E quanto a suo padre», aggiungeva, «per amor di Dio, che cosa 841

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pretenderebbe di più?».

Notai però, che la toga di procuratore del signor Spenlow e la cravatta inamidata confusero un po’ Peggotty e le ispirarono maggior rispetto per l’uomo che diventava gradatamente, giorno per giorno, sempre più etereo agli occhi miei, e dal quale mi sembrava, vedendolo seduto impettito in Corte fra i suoi incartamenti, raggiasse un riflesso luminoso, come da un piccolo faro in un mare di carte. E inoltre, soleva farmi un effetto veramente strano, sedendo anch’io in Corte, ricordo, considerare che quei giudici e dottori vecchi e tristi non si sarebbero curati di Dora, se l’avessero conosciuta; che non avrebbero delirato di gioia, se fosse stato loro proposto il matrimonio con Dora; che Dora avrebbe potuto, cantando, e sonando su quella sua magica chitarra, trarmi fino all’orlo della follia, senza che neppur uno di quei tardigradi si sentisse tentato di deviar d’un pollice dalla sua carreggiata.

Li avvolsi tutti nel mio disprezzo, a uno a uno. Mi parve che quei vecchi ghiacciati giardinieri delle aiuole del cuore mi facessero tutti un oltraggio personale. Il tribunale non mi parve che un pantano di scerpelloni, e pensai che l’alta Corte contenesse meno poesia e sentimento di una sala da caffè.

Assuntami, con un certo orgoglio, la cura di dare assetto alle faccende di Peggotty, feci registrare il testamento, pagai la tassa di successione, accompagnai lei 842

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alla Banca, e in breve; tutto fu regolato. Ci divertimmo a dare qualche varietà alle nostre occupazioni legali con l’andare a vedere in Fleet Street certo museo di figure di cera, tutte trasudanti (a quest’ora, dopo vent’anni dovrei crederle completamente fuse), e col visitare l’esposizione della signorina Linwood, che rimane nel mio ricordo come un mausoleo di lavori all’uncinetto propizio agli esami di coscienza e al pentimento; e col dare un’occhiata alla Torre di Londra, e col salire sulla chiesa di San Paolo. Tutte quelle meraviglie diedero a Peggotty, in condizioni melanconiche di spirito, tutto il piacere che potevano darle: tranne, forse, San Paolo, il quale da lei, per la lunga consuetudine che la legava alla sua cassetta da lavoro, fu considerato come il rivale di quello dipinto sul coperchio, e, in alcuni particolari, lasciato indietro, ella pensava, dal capolavoro artistico di sua proprietà.

Regolati gli affari di Peggotty, che erano ciò che in Corte si usava chiamare « affari ordinari» (e gli «affari ordinari» erano molto facili e molto lucrosi), una mattina la condussi allo studio a pagare il conto. Il signor Tiffey mi annunziò che il signor Spenlow era uscito per andare a far giurare un cliente che domandava una licenza di matrimonio; ma siccome sapevo che sarebbe tornato subito, perché il nostro studio era vicinissimo all’ufficio del Vicario generale, dissi a Peggotty d’aspettare.

Eravamo, al Doctor’s Commons, in fatto di verifiche te-843

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stamentarie, un po’ come gl’imprenditori di pompe funebri; e avevamo in generale l’abitudine di comporci un’aria più o meno afflitta verso i clienti vestiti a lutto.

Per un simil sentimento di delicata interpretazione, eravamo lieti ed espansivi coi clienti che si presentavano per avere una licenza di matrimonio. Perciò avvertii Peggotty che essa avrebbe visto il signor Spenlow completamente rimesso dall’impressione prodottagli dalla morte di Barkis; e infatti egli arrivò radioso come un fidanzato.

Ma né Peggotty né io avemmo più occhi per lui, quando vedemmo, insieme con lui, entrare il signor Murdstone.

Questi non era cambiato gran che: aveva i capelli folti e neri come una volta; e negli occhi lo stesso falso sguardo di prima.

– Ah, Copperfield? – disse il signor Spenlow. – Voi conosceste questo signore, credo?

Feci a quel signore un freddo saluto, e Peggotty ebbe l’aria di riconoscerlo. Egli, a tutta prima, parve alquanto sconcertato di trovarci insieme; ma, ad un tratto decise come condursi, e mi s’avvicinò:

– Spero – egli disse – che voi stiate bene?

– Credo che non ve ne prema molto – dissi. – Sì, se desiderate saperlo.

Ci scambiammo un’occhiata, e poi egli si volse a Peggotty:

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– E voi? – disse. – Mi dispiace di vedere che avete perduto vostro marito.

– Non è la prima perdita che ho sofferto, signor Murdstone – rispose Peggotty tremando dalla testa ai piedi. – Sono contenta di sapere che di questa nessuno abbia colpa e nessuno debba risponderne.

– Ah! – egli esclamò. – Una consolante riflessione.

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