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Cinque minuti dopo ritornarono tutte insieme, e l’insolita inquietudine di Dora s’era bell’e dileguata. Ella aveva allegramente determinato, prima che ce ne andassimo, di farci assistere a tutti i giuochi di Jip. Ci volle qualche tempo (non tanto in ragione della loro varietà, quanto per la riluttanza dell’esecutore), e non erano ancora finiti all’ora della partenza. Vi fu una frettolosa ma affettuosa separazione fra Agnese e Dora: Dora avrebbe scritto ad Agnese (la quale non doveva badare alla forma delle lettere, diceva Dora), e Agnese doveva scrivere a Dora e ci fu poi un altro addio allo sportello della vettura, e un terzo allorché Dora, nonostante le rimostranze della signorina Lavinia, corse di bel nuovo verso lo sportello a rammentare ad Agnese di scriverle, e a scuotere i suoi riccioli verso di me già annidato accanto al cocchiere.

L’omnibus ci doveva deporre vicino a Covent Garden, dove si doveva prenderne un altro per Highgate. Ero impaziente di sentire in quel breve tratto Agnese lodare Dora. Ah, quali parole! Con quanto fervore e amorevolezza ella levò a cielo la bella creatura conquistata, con 1090

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tutte le sue innocenti grazie, alle mie più soavi cure.

Con quanto tatto mi parlò, senza averne l’aria, della responsabilità che m’ero assunto per quella cara orfana.

Non avevo mai, mai, voluto tanto bene a Dora come quella sera. Quando scendemmo dalla vettura, e ci avviammo alla luce delle stelle verso la casa del dottore, dissi ad Agnese che dovevo a lei quella felicità.

– Quando eravate seduta accanto a lei – le dissi – mi siete apparsa non soltanto come il mio, ma anche come il suo angelo tutelare; e così m’apparite ancora, Agnese.

– Un povero angelo – rispose – ma fedele. Il chiaro tono della sua voce, che mi andò dritto al cuore, mi spinse naturalmente a dire:

– La serenità che è una vostra dote particolare, e soltanto vostra, Agnese, m’è parsa oggi l’abbiate riacquistata tutta, e perciò ho cominciato a sperare che in famiglia siate più felice.

– Son più felice in me – ella disse: – ho il cuore calmo e leggero.

Diedi uno sguardo al viso sereno che fissava il cielo, e pensai che fossero le stelle a farlo apparir così nobile.

– A casa non vi è stato alcun cambiamento – disse Agnese, dopo pochi momenti.

– Nessun’altra allusione – dissi – a... Non vorrei rattri-starvi, Agnese, ma non posso fare a meno dal doman-1091

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darvelo... alla faccenda di cui parlammo, quando ci separammo l’ultima volta?

– No, nessuna – ella rispose.

– Ci ho pensato tanto da allora.

– Dovevate pensarci meno. Ricordate che io confido nell’affetto semplice e fedele. Non abbiate alcun timore per me, Trotwood – ella aggiunse, dopo un istante: – il passo che voi temete che io faccia, non lo farò mai.

Benché io creda che non l’avessi mai realmente temuto, tutte le volte che ci avevo meditato con fredda calma, l’assicurazione delle sue stesse labbra sincere fu un ineffabile sollievo per me. E glielo dissi candidamente.

– E quando questa visita sarà finita – dissi – ... giacché non potremo essere soli un’altra volta... quanto tempo passerà ancora, mia cara Agnese, per rivedervi di nuovo a Londra?

– Probabilmente non troppo presto – ella rispose; – penso che sarà meglio... per l’amore di papà... rimanere a casa. Non sarà probabile che per un po’ di tempo noi c’incontriamo spesso; ma io scriverò spesso a Dora, e così avrò spesso notizie di voi.

Eravamo già nel cortiletto del villino del dottore.

S’era fatto tardi. Alla finestra della camera della signora Strong ardeva un lume, e Agnese, indicandomelo, mi diede la buona notte.

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– Non vi turbate – ella disse, dandomi la mano – delle nostre sventure e delle nostre angosce. Oramai non posso esser più felice d’altro che della vostra felicità. Se mai potrete aiutarmi, state pur certo che ricorrerò a voi.

E che Iddio vi benedica!

Nel suo radioso sorriso, e in queste ultime note della sua chiara voce, mi sembrò di nuovo di vedere e udire con lei la mia piccola Dora. Rimasi un po’ a guardare le stelle a traverso il portico, con un cuore pieno d’amore e di gratitudine, e poi andai innanzi. Avevo fissato una camera in un decoroso alberghetto vicino, e stavo per varcarne l’ingresso, quando, voltando la testa, vidi lo studio del dottore illuminato. Sentii un mezzo rimorso d’averlo lasciato a lavorar solo al dizionario. Con lo scopo di sincerarmene, e, in ogni modo, di dargli la buona notte, se egli era ancora affaccendato fra i libri, tornai indietro, e traversato pianamente il vestibolo, e aprendo cautamente la porta, feci capolino nello studio.

La prima persona che vidi, con mia gran sorpresa, alla tenue luce della lampada velata, fu Uriah. Era seduto accanto alla lampada, con una delle mani scheletriche alla bocca, e l’altra stesa sul tavolo del dottore. Il dottore era seduto nella poltrona e si copriva la faccia con le mani.

Il signor Wickfield, profondamente turbato e angosciato, si sporgeva innanzi col corpo e toccava irresoluto il braccio del dottore.

Per un istante, supposi che questi si sentisse male.

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Con quell’idea, diedi recisamente un passo innanzi, allorché incontrai lo sguardo d’Uriah, e compresi di che si trattava. Feci per ritirarmi, ma il dottore m’accennò di rimanere.

– Ad ogni modo – osservò Uriah, con una contorsione –

noi possiamo tener la porta chiusa. Non è necessario di-vulgarlo a tutta la città.

Così dicendo, andò in punta di piedi alla porta, che avevo lasciata aperta, e attentamente la chiuse. Ritornò, e assunse il suo primo atteggiamento. Nella sua voce e nelle sue maniere v’era un’insopportabile affettazione di zelo pietoso, più odiosa – almeno ai miei occhi – della più sfrontata impudenza.

– Ho sentito l’imperioso dovere, signorino Copperfield

– disse Uriah – di partecipare al dottore quello di cui io e voi ci siamo già intrattenuti. Ma voi non mi avete capito interamente.

Gli scoccai un’occhiata, ma non gli risposi una parola; e avvicinandomi al mio vecchio e buon maestro, dissi poche frasi che volevano essere di conforto e d’incoraggiamento. Egli mi mise la mano sulla spalla, come era solito fare con me ragazzo, ma senza levar la testa quasi ca-nuta.

– Siccome voi non m’avete capito, signorino Copperfield – ripigliò Uriah nello stesso tono zelante – io posso prendermi la libertà di ricordare umilmente, trovandomi 1094

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fra amici, che ho richiamato l’attenzione del dottore sulla condotta di sua moglie. È proprio mal volentieri, Copperfield, vi assicuro, che io mi trovo mischiato in una faccenda così spiacevole; ma il fatto sta che tutti ci troviamo mischiati in ciò che non vorremmo. È questo che vi volevo dire, quando non m’avete capito.

Mi domando ora, ricordando quel suo sguardo bieco, perché non lo afferrassi per il collo e non gli facessi esa-lar l’ultimo respiro.

– Forse non mi son spiegato bene – egli continuò – o forse non vi siete spiegato voi. Naturalmente, non si voleva, né l’uno, né l’altro, approfondire la cosa. Ma finalmente ho deciso di parlar chiaro; e ho detto al dottor Strong che... Che cosa dite, signore?

S’era rivolto al dottore, che aveva cacciato un lamento; un lamento che avrebbe commosso qualunque cuore, credo, ma che non ebbe effetto su quello di Uriah.

– ... ho detto al dottor Strong – egli continuò – che chiunque può vedere che il signor Maldon, e la cara e bella signora che è la moglie del dottore son troppo teneri l’uno per l’altro. Realmente è giunto il tempo (ora che tutti ci mischiamo in ciò che non ci appartiene) di dire al dottor Strong, che la cosa era chiara a tutti come il sole, prima che il signor Maldon se n’andasse in India; che per nessun altro scopo il signor Maldon trovò dei pretesti per ritornare in patria; e che egli è sempre 1095

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qui per la stessa ragione. Quando voi siete entrato, signore, stavo appunto pregando il mio socio – e si volse al signor Wickfield – di dire al dottor Strong, sulla sua parola d’onore, se anche lui da lungo tempo non sia della mia stessa opinione. Su, parlate, signor Wickfield.

Siate così buono da dircelo. Sì o no, signore? Su, caro il mio socio!

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