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Ma io ho uno scopo, come soleva dire il mio socio, e per raggiungerlo raccolgo tutte le mie forze. Non voglio che, perché sono umile, mi si traversi la strada. Che nessuno m’impedisca d’andare innanzi. Veramente, biso-gnerà che io li metta a posto, signorino Copperfield.

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– Io non vi capisco – dissi.

– Forse – rispose con uno dei suoi sussulti. – Mi meraviglio, signorino Copperfield, voi di solito così intelligente! Uh! Un’altra volta cercherò d’essere più chiaro...

Non è il signor Maldon quello a cavallo che suona alla porta?

– Sembra lui – risposi, con la maggiore indifferenza possibile.

Uriah a un tratto s’interruppe, si mise le mani fra le ginocchia, e sì piegò in due a furia di ridere: un riso perfettamente silenzioso, senza uno scarto. Ero così indignato per il suo ignobile contegno, specialmente per quell’atto finale, che gli voltai le spalle senza cerimonie; e lo lasciai curvo in mezzo al giardino come uno spauracchio senza sostegno.

Non fu quella sera; ma, se ben ricordo, due giorni dopo, di sabato, che condussi Agnese a far la conoscenza di Dora. Avevo già predisposto la visita con la signorina Lavinia; ed Agnese era attesa per l’ora del tè.

Io ero invaso da un’onda d’orgoglio e d’ansia: l’orgoglio della mia cara piccola fidanzata; e l’ansia che Agnese non dovesse piacerle. Per tutta la strada, mentre Agnese stava nell’omnibus e io fuori, non feci che rappresentarmi Dora in ciascuno dei leggiadri aspetti che le conoscevo così bene; ora pensando che mi sarebbe piaciuto vederla come quella volta, e poi dubitando se non 1085

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avrei preferito invece vederla come quell’altra volta, tanto da aver quasi la febbre in simili alternative.

Ad ogni modo, non avevo alcun dubbio sulla sua leggiadria, ma mi toccò di rilevare che non l’avevo mai vista così bella. Non era nel salotto quando presentai Agnese alle sue piccole zie; per timidezza si teneva nascosta.

Sapevo dove andare a cercarla; e la trovai, come immaginavo di certo, dietro la porta, nell’angolo, nell’atto di tapparsi un’altra volta le orecchie.

In principio non voleva venire; e poi mi pregò di aspettare cinque minuti, calcolati al mio orologio. Quando finalmente m’infilò il braccio, per accompagnarmi nel salotto, il suo leggiadro viso era di fiamma, e non m’era sembrato mai così bello. Ma quando entrammo nella stanza, e diventò pallido, era diecimila volte più bella ancora.

Dora aveva paura di Agnese. Mi aveva detto di sapere che Agnese era «troppo saggia». Ma quando la vide così lieta e calma insieme, e così pensosa e così buona, cacciò un piccolo grido di sorpresa e di compiacenza, e le gettò affettuosamente le braccia al collo, baciandola.

Non ero stato mai così felice; non ero stato mai così soddisfatto come nel vederle tutte e due sedute, l’una accanto all’altra. Come pure quando vidi la mia diletta guardare con tanta semplicità quegli occhi cordiali.

Come pure quando vidi la simpatia e la tenerezza delle 1086

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quali Agnese la circondava.

La signorina Lavinia e la signorina Clarissa parteciparo-no, a loro modo, alla mia gioia. Fu il più piacevole tè al quale avessi mai assistito. La signorina Clarissa presiedeva. Io tagliai e distribuii la torta dolce con l’uva passa

– le piccole sorelle, come due uccelli, avevano la passione di beccare gli acini d’uva e lo zucchero; la signorina Lavinia ci guardava con aria di benevolo patrocinio, come se il nostro felice amore, fosse tutto opera sua; ed eravamo tutti perfettamente soddisfatti di noi stessi e di ciascuno in particolare.

La dolce gioia di Agnese trovò la via di tutti i cuori.

Il suo calmo interesse in quello che interessava Dora; la sua maniera di far la conoscenza di Jip (che le corrispo-se immediatamente); il suo modo di scherzar con Dora, che si vergognava di sedere, come altre volte, accanto a me; la modesta grazia e la semplicità con cui sapeva farsi confidare da Dora i suoi piccoli segreti, pur tra indubbi segni di rossore, tutto questo sembrava che chiudesse in maniera perfetta il nostro circolo.

– Io son così contenta – disse Dora, dopo il tè – che voi mi vogliate bene. Non me lo sarei aspettato. E io desidero che mi si voglia bene più che mai ora che se ne è andata Giulia Mills.

A proposito, mi son dimenticato di dirlo. La signorina Mills s’era imbarcata, e Dora e io eravamo andati a 1087

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bordo d’un gran bastimento a salutarla; e c’era stato offerto un rinfresco di birra gassosa, guava e altre leccor-nie della stessa specie; e poi avevamo lasciato la signorina Mills a piangere a bordo, su un seggiolino pieghe-vole, con un gran diario nuovo sotto il braccio, entro il quale ella si proponeva di registrare e tener sotto chiave le originali riflessioni che le avrebbe ispirato lo spettacolo dell’Oceano.

Agnese disse che ella temeva che io avessi fatto di lei un ritratto poco lusinghiero; ma Dora la corresse subito.

– Oh, no! – ella disse, scotendo i riccioli. – Lui non fa che lodarvi. Fa tanto conto della vostra opinione, che io la temevo per me.

– La mia buona opinione non può rafforzare il suo affetto per certe persone ch’egli conosce – disse Agnese con un sorriso – ed egli non ha che farsene della mia opinione.

– Ma ditemela lo stesso – disse Dora, carezzevole –

se non vi dispiace.

Noi ridemmo tanto di Dora, che ci teneva molto a farsi voler bene, e Dora disse che io ero un’oca, e che non mi voleva bene affatto affatto, e la breve serata trascorse con ali veloci. Era l’ora di riprender l’omnibus.

Io stavo solo innanzi al fuoco, quando Dora venne furtivamente, prima che me n’andassi, a darmi quel solito 1088

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suo prezioso bacetto.

– Non pensi che se da molto tempo avessi avuto un’amica simile, Doady – disse Dora, scintillando dagli occhi, e con la manina affaccendata con un bottone della mia giacca – sarei stata molto più saggia?

– Amor mio – dissi – che dici mai!

– Tu credi che io dica una sciocchezza? – rispose Dora, senza guardarmi. – Ne sei sicuro?

– Sì, che ne sono sicuro.

– Ho dimenticato – disse Dora, ancora facendo girare con le dita il bottone – il tuo grado di parentela con Agnese.

– Nessuna parentela – risposi; – ma siamo cresciuti insieme come fratello e sorella.

– E non capisco per che ragione mai tu ti sia innamorato di me – disse Dora, cominciando a far girare un altro bottone della giacca.

– Forse perché non potevo vederti, e non volerti bene, Dora!

– Figurati che tu non mi avessi mai veduta! – disse Dora mettendo la mano su un altro bottone.

– Figurati che tu non fossi nata mai! – dissi ridendo.

Mi domandavo a che cosa ella stesse pensando, mentre guardavo con tacita ammirazione la morbida manina 1089

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che viaggiava lungo la fila dei bottoni della mia giacca, e la folta chioma che mi pendeva contro il petto, e le ciglia abbassate, che si levavano leggermente seguendo le dita che giocherellavano. Finalmente i suoi occhi guardarono nei miei, ed essa si levò in punta di piedi per darmi, più pensosa che mai, quel prezioso bacetto... una volta, due volte, tre... ed uscì dalla stanza.

Are sens