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Charles Dickens David Copperfield

dal ritenere, ora, che facessi bene a non rivelarglieli, ma li nascondevo per il bene che volevo a mia moglie-bimba. Mi guardo in cuore, e ne affido i segreti senza alcuna riserva a questa carta. So che sentivo la mancanza di qualche cosa, ma non così da amareggiarmi la vita.

Quando passeggiavo solo nei giorni di bel tempo, e pensavo ai giorni d’estate in cui l’aria sembrava piena del mio giovine amore, avvertivo la mancanza di qualche cosa nell’incarnazione dei miei sogni; ma pensavo che altro non fosse che un’ombra attenuata della radiosa gloria del passato che nulla avrebbe potuto riversare sul presente. Talvolta sentivo, per un poco, che mi sarebbe piaciuto avere in mia moglie un consiglio più sicuro, una maggiore ragionevolezza e maggiore fermezza di carattere, per esserne sostenuto e aiutato; che ella fosse dotata del potere di colmare le lacune che in qualche parte sentivo in me; ma comprendevo che una tale felicità non esiste in terra, che non doveva e non poteva esistere.

Ero un marito quasi ragazzo . Non avevo avuto nella vita altre lezioni che gli affanni e i dolori registrati in questi fogli. Se facevo male, e forse mi accadeva spesso, era per un malinteso e per mancanza d’esperienza. Scrivo la pura verità. Non mi gioverebbe cercar d’attenuar-la.

Così fu che m’addossai io le cure e gli affanni della nostra vita, senz’altri che li dividesse. Vivevamo presso a 1152

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poco come prima, nello stesso scompiglio domestico; ma io mi c’ero abituato, ed ero contento di veder Dora quasi sempre serena. Era lieta e gioiosa nei suoi vezzi infantili, mi voleva molto bene e si divertiva come una bambina.

Quando le discussioni alla Camera erano pesanti – parlo della lunghezza, non della qualità, ché sotto questo rapporto non erano mai diverse – e rientravo a casa tardi, Dora non si frenava più, sentendo i miei passi, ma si precipitava per gli scalini per venirmi incontro. Quando la professione conquistata con tanta fatica mi lasciava la sera libera, e potevo scrivere in casa, ella veniva a sedersi cheta accanto a me, anche se era molto tardi, e se ne stava così silenziosa, che spesso la credevo addormentata. Ma generalmente, quando levavo la testa, vedevo i suoi occhi azzurri fissarmi con l’attenzione tranquilla di cui ho già parlato.

– Oh, come devi essere stanco! – disse Dora una sera, nel momento che chiudevo lo scrittoio.

– E come devi essere stanca tu! – dissi io. – Questo è più esatto. Un’altra volta devi andare a letto, mia cara. È

troppo tardi per te.

– No, non mi mandare a letto! – supplicò Dora, metten-domisi a fianco. – Te ne prego, non lo fare.

– Dora!

Con mio stupore mi singhiozzava sul collo.

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– Non ti senti bene, mia cara? Che cosa hai?

– Non ho nulla, mi sento bene! – disse Dora. – Ma pro-mettimi che mi lascerai stare a guardarti scrivere.

– Ma a mezzanotte non è un bello spettacolo per i tuoi occhi lucenti! – risposi.

– Sono lucenti dunque? – rispose Dora, ridendo. – Sono così contenta che siano lucenti.

– Piccola vanitosa! – esclamai.

Ma non era vanità; era soltanto innocente gioia della mia ammirazione. E lo sapevo bene, prima ch’ella me lo dicesse.

– Se tu li credi belli, dimmi che potrò sempre rimanere a guardarti scrivere! – disse Dora. – Ti sembrano belli?

– Bellissimi.

– Allora lasciami sempre fermare a vederti scrivere.

– Ho paura che la loro lucentezza ne soffrirà, Dora.

– Sì, certo. Perché, tu allora, mio caro sapientone, non mi dimenticherai quando sei pieno di fantasie silenziose.

Ti dispiacerà, se ti dico qualche cosa molto, ma molto sciocca... più sciocca del solito? – chiese Dora, guardandomi negli occhi, standomi sulla spalla.

– Che meraviglia sarà mai? – dissi.

– Lasciami tener le penne – disse Dora. – Voglio aver 1154

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qualche cosa da fare in tutte quelle ore che tu sei così occupato. Posso tenerti le penne?

Il ricordo della sua ingenua gioia quando dissi di sì mi inumidisce gli occhi. La volta appresso che mi misi a scrivere, e regolarmente dopo, ella sedette al suo posto tenendosi accanto un piccolo fascio di penne. Il piacere che le derivava dal partecipare così al mio lavoro, e il suo incanto nel momento che mi occorreva una penna nuova – ne fingevo spesso il bisogno – mi suggerirono un modo di dare una soddisfazione maggiore a mia moglie-bimba. Di tanto in tanto le dicevo che bisognava ri-copiare un paio di pagine del mio manoscritto. Dora allora era raggiante. I preparativi che faceva per quel gran lavoro, i grembiuli che indossava, i bavaglini che andava a prendere in cucina, per difendersi dall’inchiostro, il tempo che vi impiegava, le innumerevoli soste per farsi una risatina con Jip, come se questo capisse il manoscritto, la sua convinzione che il lavoro rimanesse incompleto, se non vi apponeva la propria firma in fondo, e il modo come me lo consegnava, quasi fosse il compito d’uno scolaro, e poi, se lo lodavo, l’abbraccio che ella mi dava, sono per me, anche se agli altri possano apparire ingenui, commoventi ricordi.

Poco tempo dopo s’impossessò delle chiavi, e girava tintinnando per casa con tutto il mazzo in un panierino legato alla cintura. Di rado m’avveniva di vedere che i mobili a cui appartenevano fossero chiusi, o che servis-1155

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sero ad altro che al passatempo di Jip – ma Dora era contenta, e questo mi bastava. Ella era convinta che molti buoni effetti risultassero da quel suo modo di governar la casa, ed era lieta come una bambina che giuoca con la casetta della bambola.

E così si andò innanzi. Dora voleva bene a mia zia quasi come a me, e spesso le narrava del tempo in cui temeva che fosse una vecchia brontolona. Non avevo vista mia zia addolcirsi mai tanto per nessuno. Ella faceva la corte a Jip, benché Jip non le corrispondesse; sentiva tutti i giorni Dora sonar la chitarra, benché non avesse gran gusto per la musica, credo; non parlava mai male delle Incapaci, per quanto forte potesse esserne la tentazione; percorreva prodigiose distanze a piedi per comprare, come sorpresa, delle bazzecole che sapeva desiderate da Dora; e non veniva mai dalla parte del giardino, senza gridare a piè della scala, vedendo che Dora non c’era, con una voce che, si spandeva allegramente per tutta la casa:

– Dov’è Fiorellino?

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XLV.

IL SIGNOR DICK GIUSTIFICA LE PREDIZIONI DI MIA ZIA

Da qualche tempo avevo lasciato il dottore. Abitando nel vicinato, lo vedevo spesso; e due o tre volte eravamo stati da lui a desinare o a prendere il tè. Il Vecchio Soldato era acquartierato in permanenza sotto il tetto del dottore. Ella era esattamente la stessa d’una volta, e le stesse immortali farfalle svolazzavano sul suo cappellino.

Come altre madri da me conosciute, la signora Markleham aveva più di sua figlia la smania dei divertimenti.

Aveva un gran bisogno di divertirsi, e, da quell’astuto soldataccio ch’ell’era, si dava l’aria, seguendo le proprie inclinazioni, di consacrarsi interamente a sua figlia. Il desiderio del dottore, che Annie si divertisse, era perciò specialmente gradito a quell’eccellente madre, che faceva le più ampie lodi della sagacia del genero.

E non dubito ch’ella riaprisse, senza saperlo, la ferita del dottore. Per quella certa sua frivolezza, per quel suo certo egoismo della maturità, che non è sempre inseparabile dagli anni della vecchiezza, ella non faceva, feli-1157

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citandolo di cercar d’attenuar il rigore della vita di Annie, che confermarlo nel pensiero ch’egli fosse un ostacolo agl’istinti della giovane moglie, e non vi fosse rispondenza di sentimenti fra loro.

– Anima mia – ella gli disse un giorno in mia presenza,

– tu sai bene, senza dubbio, che sarebbe un po’ triste per Annie rimanersene sempre tappata in casa.

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