Charles Dickens
David Copperfield
parte, mellifluamente:
– So benissimo, signorino Copperfield, che la signora Trotwood, con tutte le sue bellissime qualità, ha un carattere impulsivo. Ho il piacere di conoscerla da quando ero un modesto scrivano, prima che la conosceste voi, signor Copperfield, e mi spiego benissimo come si mostri più impulsiva ancora nelle circostanze attuali. Mi meraviglio anzi che non sia peggio. Son venuto soltanto per dirvi che se v’è qualche cosa che noi possiamo fare, nella circostanza attuale, la mamma e io, o Wickfield e Heep, noi faremo tutto quanto ci sarà possibile. Forse mi spingo troppo? – disse Heep con un orribile sorriso al suo socio.
– Uriah Heep – disse il signor Wickfield, con sforzo e con monotonia – è molto attivo negli affari, Trotwood.
Io approvo tutto ciò che dice. Sapete che vi voglio bene da tanto tempo: ma, a parte questo, approvo pienamente ciò che dice Uriah.
– Per me è una grande soddisfazione – disse Uriah, contraendo una gamba, a rischio d’attirarsi un altro rabbuffo da mia zia – tanta fiducia. Ma mi lusingo d’essere in grado di far qualche cosa per alleviarlo dalle fatiche degli affari, signorino Copperfield.
– Uriah Heep m’è di grande aiuto – disse il signor Wickfield, nello stesso tono di voce. – È un peso di meno per me, Trotwood, avere un socio come lui.
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Era quel volpone rossigno che gli faceva dir così, per mostrarmisi nell’aspetto che s’era assunto in casa mia, quella notte ch’era venuto a turbare il mio riposo. Gli vidi in faccia lo stesso sinistro sorriso, mentre non mi perdeva d’occhio.
– Voi non ci lascerete, papà – disse Agnese, con ansia. –
Poi ce ne andremo a piedi, accompagnati da Trotwood.
Egli avrebbe consultato con lo sguardo Uriah, immagino, prima di rispondere, se quella degna persona non lo avesse prevenuto.
– Io ho un appuntamento per affari – disse Uriah – altrimenti sarei stato felice di rimaner qui con i miei amici.
Ma lascio il mio socio a rappresentare lo studio Wickfield e Heep. Signorina Agnese, sempre vostro. Vi auguro il buongiorno, signorino Copperfield, e vi lascio i miei ossequi per la signora Betsey Trotwood.
E se ne uscì dicendo questo, e baciandosi la mano, con un sorriso da maschera.
Noi rimanemmo a parlare un’ora o due dell’antico beato tempo di Canterbury. Il signor Wickfield, solo con Agnese, tosto riprese l’aria d’una volta, benché in lui vi fosse certo abbattimento dal quale non si riscoteva mai.
Nonostante questo, però, egli si fece radioso, e ascoltò piacevolmente commosso i piccoli episodi della nostra vita che, in gran parte, ricordava benissimo. Disse che gli sarebbe piaciuto riviverli di nuovo in compagnia mia 920
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e di Agnese; e avrebbe desiderato che quel tempo felice non fosse così rapidamente trascorso. Dal sereno viso di Agnese e dallo stesso contatto del braccio di lei sul suo, gli derivava un benessere meraviglioso.
Mia zia (che nel frattempo era stata affaccendata con Peggotty nella stanza attigua) non volle accompagnarci al loro alloggio, ma insisté perché ci andassi io; ed io ubbidii. Desinammo insieme. Dopo, Agnese si sedette accanto a suo padre, come una volta, e gli versò il vino.
Egli prese ciò che ella gli dava, non più – come un bambino – e tutti e tre ci sedemmo accanto alla finestra, mentre nella stanza entrava la sera. Quando annottò, egli si stese su un divano, e Agnese gli mise un guanciale sotto il capo, e stette un po’ china su di lui. Tornata alla finestra, potei scorgerle, all’ultimo chiarore del crepuscolo, gli occhi inumiditi di lagrime.
Domando al Cielo di non farmi dimenticar mai la cara fanciulla nel suo amore e nella sua fedeltà, in quel periodo della mia vita; perché se la dimenticassi, sarebbe il segno della mia fine, e allora desidererei di ricordarla meglio. Ella mi colmò il cuore di tanti buoni propositi, mi rafforzò tanto, scacciando da me ogni debolezza, e con l’esempio seppe dirigere così bene – non so come, perché era troppo modesta e gentile per consigliarmi con molte parole – l’ardore errante e le malferme risoluzioni che s’agitavano in me, che solennemente riconosco che debbo a lei tutto il bene che ho fatto e l’incolu-921
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mità da ogni male che son riuscito ad evitare.
E come mi parlò di Dora, sedendo accanto alla finestra al buio, ascoltando benevolmente le lodi che intessevo di lei, aggiungendo alle mie lodi, e vergando su quella personcina di fata qualche raggio della propria luce, che me la fece più preziosa e innocente! Oh, Agnese, sorella della mia infanzia, se avessi saputo allora, ciò che dovevo saper dopo!...
Trovai un mendicante nella via all’uscita. Nel momento che volgevo gli occhi alla finestra, pensando ai calmi, serafici occhi di Agnese, quegli mi fece sussultare, mormorando, come un’eco delle parole di mia zia:
– Cieco! Cieco! Cieco!
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XXXVI.
ENTUSIASMO
Cominciai la mattina seguente con un’altra immersione nel bagno romano; e poi partii per Highgate. Non mi sentivo per nulla scoraggiato. Non temevo più gli abiti frusti, non pensavo più ai bei corsieri. Il mio modo di considerare il nostro disastro era mutato. Era mio dovere di mostrare a mia zia che non ero un egoista e un ingrato, indegno della sua bontà e della sua generosità.
Era mio dovere d’andare al lavoro, facendo tesoro della penosa disciplina dei miei primi giorni, con cuore fermo e risoluto. Era mio dovere di brandire la scure del bo-scaiuolo e di aprirmi la via a traverso la foresta delle difficoltà, atterrando gli alberi finché non fossi giunto a Dora. E andai innanzi a passo di corsa, come se potessi far tutto semplicemente correndo.
Quando mi trovai sulla strada, a me familiare, di Highgate, con uno scopo diverso da quello con cui l’avevo percorsa altre volte, che era stato di piacere e col quale in mente l’avevo sempre associata, mi parve che tutta la mia vita fosse completamente mutata. Ma questo non mi scoraggiò. Vita nuova, propositi nuovi. Grande sarebbe stata la fatica; impareggiabile la ricompensa. Dora era la 923