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– Annie, nobile cuore! – disse il dottore. – Mia cara figlia!

Una parola, un’altra parola! Io mi dicevo spesso che vi erano tante che tu avresti potuto sposare, che non ti avrebbero dato tanti pensieri e tanti affanni, e che avrebbero fatto di casa tua una dimora più degna. Mi dicevo che sarebbe stato meglio che io fossi rimasta la tua di-scepola e quasi la tua figliuola; mi dicevo che non ero fatta per la tua saggezza e la tua istruzione. Se tutto questo mi fece tacere, fu perché ti onoravo con tutta l’anima, e speravo che tu un giorno m’avresti similmente onorata.

– Quel giorno splende da tanto tempo, Annie – disse il dottore – e non finirà mai.

Un’altra parola! Io dopo volli... fortemente volli e mi proposi... di sopportar io sola tutto il peso dell’indegnità di uno verso il quale tu ti eri mostrato così buono. E ora una ultima parola, o il migliore degli amici. Le ragioni dell’ultimo tuo mutamento, osservato da me con tanto dolore, e che io attribuivo ai miei vecchi timori e a volte a supposizioni vicine alla verità, m’è stata palesata stasera; e per caso, ho potuto conoscere stasera in tutta la 1181

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sua pienezza la tua fiducia in me, anche quando tu eri in errore sul conto mio. Non credo che tutto il mio amore e tutto il mio rispetto possano mai rendermi degna di simile impareggiabile fiducia; ma io posso almeno levar gli occhi sul nobile viso di colui che ho rispettato come padre, amato come marito, venerato nella mia infanzia come maestro, e dichiarare solennemente che nei miei più reconditi e fuggevoli pensieri non gli ho mai fatto torto, non ho mai vacillato nell’amore e nella fedeltà che gli debbo.

Ella aveva le braccia intorno al collo del dottore, ed egli poggiò la testa su quella di lei, mischiando i suoi capelli grigi alle brune trecce di lei.

– Oh, tienimi sul tuo petto, marito mio! Non mi respingere. Non pensare e non parlare di disparità fra noi, perché non v’è altra disparità che la mia imperfezione.

Ogni anno ho potuto conoscerti meglio e stimarti sempre di più. Oh, accoglimi sul tuo cuore, marito mio, perché il mio amore ha le sue basi su una roccia, e non può crollare!

Nel silenzio che seguì, mia zia si diresse solennemente e lentamente al signor Dick, e gli diede un abbraccio e un sonoro bacio. E fu una fortuna per lui e per la sua dignità, perché in quel momento m’era parso di vederlo nell’atto di prepararsi a tenersi ritto su una gamba come per darsi a una opportuna espressione di gioia.

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– Tu sei una persona di molto merito, Dick! – disse mia zia, in tono della più ampia approvazione. – E non far le viste di non esserlo, perché lo so io.

Così dicendo, mia zia lo tirò per la manica, e mi fece un cenno; e uscimmo tutti chetamente dalla stanza, andan-docene.

– Questo, a ogni modo, metterà a posto il nostro amico il militare – disse mia zia, per strada. – Dormirei più soddisfatta stasera, se non avessi altre ragioni d’essere contenta.

– Era completamente abbattuta, temo – disse il signor Dick, con grande commiserazione.

– Che! Hai mai visto un coccodrillo umiliato? – chiese mia zia.

– Credo di non aver mai visto un coccodrillo in vita mia

– rispose molto dolcemente il signor Dick.

– Non sarebbe successo mai nulla, senza quella vecchia oca! – disse mia zia con grande energia. – È necessario augurarsi che certe madri lascino in pace le loro figliuole, dopo il matrimonio, e non si mostrino così violentemente affezionate. Par che credano che il solo compenso che loro possa esser dato per aver messo al mondo una disgraziata bambina, come se qualcuna mai avesse chiesto di nascere, sia la piena libertà di tormentarla tanto da farnela ripartire al più presto. A che pensi, Trot?

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Pensavo a tutto ciò che era stato detto, rimuginando ancora alcune frasi. «Non v’è peggiore disparità nel matrimonio del disaccordo in fatto di carattere e di idee». «Il mio amore ha le sue basi su una roccia». Ma eravamo giunti a casa; e camminavamo sulle foglie secche, e soffiava il vento autunnale.

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XLVI.

NOTIZIE

Ero ammogliato da circa un anno, se la mia memoria, poco felice per le date, non erra, quando una sera, di ritorno da una passeggiata solitaria, pensando al libro che allora scrivevo – perché il mio successo era andato, con la mia costante applicazione, gradatamente aumentando, ed ero occupato allora al mio primo romanzo – passai innanzi alla casa della signora Steerforth. C’ero passato altre volte, durante la mia dimora in quelle vicinanze, ma non mai quando avevo potuto prendere un’altra strada. A ogni modo spesso non era facile pigliarne un’altra, senza fare un tortuoso giro; e così, dopo tutto, finivo col passar di lì con qualche frequenza.

Arrivando dinanzi a quella casa, non le volgevo mai più di un’occhiata, e filavo rapidamente via. La vedevo oscura e triste. Le più belle stanze non davano sulla strada, e le finestre, vecchie e strette, pesantemente incorni-ciate, che non erano mai state allegre, sembravano quasi lugubri, così accuratamente chiuse e difese dalle tendine. V’era un passaggio coperto a traverso un cortile lastricato, che conduceva a un ingresso caduto in disuso; e v’era un finestrino tondo che dava sulla scala, in disac-1185

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cordo con le altre finestre, perché era il solo che non avesse le tendine, sebbene mostrasse l’identico triste e vuoto sguardo delle altre. Non ricordo di aver visto mai un lume sulla facciata. Se io fossi stato un passante come tanti altri, avrei probabilmente supposto che là dentro vi giacesse morta una persona senza figli. Se avessi avuto la fortuna di ignorare ogni circostanza relativa a quel luogo, e l’avessi veduto spesso in quello stato d’immutabile tristezza, avrei forse lasciato sbizzarrire la mia fantasia in molte ingegnose immaginazioni.

Intanto, cercavo di pensarci il meno possibile. Ma il mio spirito non poteva passare innanzi a quella casa e lasciarla, come facevan le gambe; di solito doveva seguire una lunga serie di meditazioni. Quella sera specialmente, continuando la mia strada, evocavo senza volerlo le ombre dei miei ricordi infantili, i sogni più recenti, le speranze vaghe, gli affanni troppo reali e troppo profondi: v’era nell’anima mia un misto di realtà e d’immaginazione, che confondendosi col disegno del soggetto che avevo per le mani, dava alle mie idee una tendenza stranamente romanzesca. Ero immerso, camminando, in una meditazione melanconica, quando una voce al mio fianco mi fece sussultare.

Era una voce di donna, anche. Non mi ci volle molto per riconoscere la piccola cameriera della signora Steerforth, quella che avevo vista una volta in una cuffietta dai nastri azzurri. Non aveva più i nastri azzurri, ora, forse 1186

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per accordarsi meglio con l’aspetto modificato della casa: non aveva più che un paio di nodi desolati di modesto bruno.

– Per piacere, signore, volete avere la bontà di entrare?

La signorina Dartle ha bisogno di parlarvi.

– Vi ha mandato la signorina Dartle? – chiesi.

– Non stasera, signore, ma è lo stesso. La signorina Dartle vi vide passare un paio di sere fa; e mi disse di stare a lavorare sulla scala, e di pregarvi, vedendovi passare un’altra volta, d’entrare, perché vi deve parlare.

La seguii, e le domandai, cammin facendo, come stesse la signora Steerforth. Mi disse che la signora stava poco bene, e quasi non usciva mai di camera.

Quando arrivammo in casa, fui mandato nel giardino, dov’era la signorina Dartle, alla quale dovevo annun-ciarmi da me. Ella era seduta su una panca, all’estremità d’una specie di terrazza, dove si dominava la grande città. Era una triste sera, con una luce rossastra in cielo; e la grande città che si scorgeva in lontananza, coi più grandi edifici rischiarati qua e là da quel chiarore funereo, mi parve una compagnia adatta allo spirito di quella selvaggia donna.

Ella mi vide, e si levò un istante per ricevermi.

M’apparve ancora più pallida e smilza dell’ultima volta che l’avevo vista, con gli occhi lampeggianti più vivi e la cicatrice più visibile.

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Il nostro incontro non fu cordiale. L’ultima volta ci eravamo lasciati in collera; ed eccola ora con un’aria di sdegno in tutta la persona, aria ch’ella non si curava di nascondere.

– M’è stato detto che volete parlarmi, signorina Dartle – dissi, come le fui da presso, e poggiai la mano sullo schienale della panca, rifiutando di sedermi al suo gesto d’invito.

– Se non vi dispiace – ella disse – vi prego di dirmi se quella ragazza è stata rintracciata.

– No.

– E pure è fuggita!

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