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– Betsey Trotwood – disse mia zia, che non aveva mai parlato con nessuno del suo denaro – ... non intendo parlare di tua sorella, Trot, ma di me... aveva una certa fortuna. Non importa dire a quanto ammontasse; una somma da viverci: un po’ più, anche; perché aveva risparmiato qualche cosa, ed era riuscita ad aumentarla. Per qualche tempo Betsey aveva amministrato la sua fortuna, e, poi, consigliata dal suo uomo d’affari, l’aveva impiegata in ipoteche. La cosa andò benissimo, e fruttò del buon interesse, ma poi le ipoteche furono rimborsate. Io parlo di Betsey come se fosse una nave da guerra. Bene!

Allora Betsey dové cercare un nuovo impiego del suo 909

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denaro. Ella pensò, allora, d’esser più saggia del suo uomo d’affari, che non era più come una volta un buon uomo d’affari... alludo a tuo padre, Agnese, ... e si mise in testa d’amministrar da sola sua fortuna. Prese i suoi porcellini, come si dice, e li portò – disse mia zia – in un mercato straniero, e fu un disastro. Prima, fece delle perdite in certe imprese minerarie; poi subì delle perdite in certe pesche curiose... pesche di tesori e altre simili follie – spiegò mia zia, stropicciandosi il naso – e poi di nuovo subì delle perdite in altre miniere, e poi, alla fine, per coronar l’opera, subì delle perdite in una Banca.

Non so quanto valessero le azioni di quella Banca per un certo tempo – disse mia zia – il doppio del prezzo di emissione, credo; ma la Banca era all’altro capo del mondo, ed è crollata nello spazio, a quanto ne so: in ogni caso, s’è frantumata e non pagherà, né potrà pagare mai un soldo; e quel poco che Betsey possedeva era depositato in quella Banca ed è tutto sparito. Non c’è da far altro che non parlarne più.

Mia zia concluse questo filosofico sommario, fissando con una cert’aria di trionfo Agnese, che riacquistava a poco a poco il colore perduto.

– Cara signora Trotwood, è tutto qui il fatto? – disse Agnese.

– Spero che basti, figlia mia – disse mia zia. – Se ci fosse stato dell’altro denaro da perdere, forse non sarebbe finito così, credo. Betsey avrebbe fatto di tutto per man-910

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darlo a raggiungere il resto, e senza dubbio, ci sarebbe stato un altro capitolo da raccontare. Ma denaro non ce n’era più, e la storia finisce così.

In principio Agnese l’aveva ascoltata trattenendo il fiato. Ancora diventava a volta a volta pallida e rossa, ma respirava più liberamente. Credevo d’indovinarne il perché. Ella certo aveva temuto qualche istante che il suo disgraziato padre potesse essere stato in qualche modo responsabile di ciò che era accaduto. Mia zia le prese una mano nella sua, e si mise a ridere.

– Se è tutta qui la storia? – ripeté mia zia. – Sì, tutta, tranne che manca: «E dopo visse sempre felice». Forse un giorno si potrà aggiungere anche questo. Ora, Agnese, tu hai la testa a posto. Anche tu, Trot, in certe cose, se non in tutte, mi dispiace di dirlo; – e qui mia zia mi fece dei cenni di testa con l’energia che le era propria. –

Che c’è da fare? Il villino potrà rendere in media una settantina di sterline all’anno. Credo che si possa sicuramente contare su tanto. Bene. È tutto quello che ci rimane – disse mia zia; la quale aveva il difetto di certi cavalli, che si fermano improvvisamente nel momento che sembra siano disposti a trottare per un bel pezzo.

– Inoltre – disse mia zia, dopo qualche istante di silenzio – c’è Dick. Egli ha un centinaio di sterline all’an-no, che naturalmente sono destinate alle sue spese personali. Io lo manderei via, benché sappia d’essere io la sola persona che gli voglia bene, piuttosto che tenerlo e 911

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non spendere tutto il suo denaro per lui. Come faremo Trot e io per campare con quel pochissimo che ci rimane, Agnese?

Io dico, zia – interruppi – che debbo fare qualche cosa.

– Farti soldato, forse? – rispose mia zia, impensierita. –

O marinaio? Non voglio sentir nulla di simile. Tu devi essere procuratore. Se non ti dispiace, non voglio in casa mia delle teste rotte, caro.

Mi accingevo a spiegarle che non desideravo d’in-trodurre in famiglia quella maniera di campare di rendita, allorché Agnese mi domandò quando scadeva la pigione del mio appartamentino.

– Dell’appartamentino – rispose per me mia zia – non ci potremo liberare che fra altri sei mesi. Io ho un po’ di denaro contante; e credo che il meglio, ad onta di quella donna in cotone giallo, sia di rimaner qui fino alla scadenza, e di prendere nel vicinato una camera per Dick.

Credetti mio dovere accennare al disagio che mia zia avrebbe sostenuto col vivere in un continuo stato di guerriglia con la signora Crupp; ma ella rispose alla mia obbiezione sommariamente, dichiarando che, al primo accenno di ostilità, era preparata a intontire la signora Crupp per tutto il resto dei suoi giorni.

– Sono stata a pensare, Trotwood – disse Agnese con una certa esitazione – che se voi aveste tempo...

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– Io ho molto tempo, Agnese. Son sempre libero dopo le quattro o le cinque, e ho abbastanza tempo la mattina. In un modo o nell’altro – dissi, accorgendomi d’arrossire un poco al pensiero delle ore e ore sciupate andando a zonzo in città o andando e tornando sulla strada di Norwood – ho tempo a iosa.

– Forse non vi piacerebbe – disse Agnese, avvici-nandomisi e parlandomi sottovoce, con un tono così dolce e pieno di considerazione, che lo sento anche ora

– l’impiego di segretario?

– Perché non mi dovrebbe piacere. Agnese?

– Perché – continuò Agnese – il dottor Strong ha finalmente messo a effetto il suo proposito di ritirarsi dall’insegnamento, ed è venuto a stabilirsi a Londra. So ch’egli ha chiesto a papà se non avesse un segretario da raccomandargli. Non credete ch’egli sarebbe più contento d’avere il suo antico e diletto scolaro, che altri?

– Cara Agnese! – dissi. – Che farei senza di voi? Voi siete sempre il mio buon angelo. Ve lo dissi una volta, e non ho pensato mai a voi che come al mio angelo custode.

Agnese rispose col suo caro sorriso che bastava (alludendo a Dora) un angelo custode solo; e continuò ricordando che il dottore era solito d’occuparsi dei suoi studi la mattina presto e la sera e che probabilmente le mie ore di libertà avrebbero coinciso perfettamente coi suoi 913

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desideri. Se io ero lieto della speranza di poter guada-gnarmi da me il pane quotidiano, lo ero ancor più di poterlo guadagnare col mio antico maestro; e, seguendo subito il consiglio d’Agnese, mi misi a scrivere una lettera al dottore, nella quale esponevo il mio desiderio e il proposito di fargli una visita la mattina dopo alle dieci.

Indirizzai la lettera a Highgate – perché abitava in quel luogo, pieno di tanti miei ricordi – e andai a impostarla io stesso, senza perdere un minuto.

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