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– Ci hai pensato tu? – dissi io, in estasi.

– S... sì, Doady – disse Dora.

– Che bella idea! – esclamai, mettendo giù il trin-ciante e la forchetta. – Traddles va matto per le ostriche.

– S... sì, Doady – disse Dora – e ne ho comprate un bel bariletto, e l’uomo mi ha detto che erano ottime. Ma io... io temo che abbiano qualche cosa. Non mi sembrano buone. – Qui Dora scosse il capo, e dei diamanti le scintillarono negli occhi.

– Sono aperte soltanto a metà – dissi. – Togli il guscio di sopra, amor mio.

– Ma non si stacca – disse Dora, facendo forza, con l’aria più angosciata.

– Sai, Copperfield – disse Traddles, esaminando lietamente il piatto – io credo sia perché... le ostriche sono belle, ma credo sia perché... non sono mai state aperte.

Non erano mai state aperte; e non avevamo coltelli 1145

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adatti; e non avremmo saputo usarli, avendoli; così guardammo le ostriche e mangiammo il castrato. Per lo meno ne mangiammo la porzione che era cotta, accom-pagnandola coi capperi. Se glielo avessi permesso, son convinto che Traddles si sarebbe comportato alla guisa d’un selvaggio, mangiandosi tutto un piatto di carne cruda, per convincermi che il pasto era di sua perfetta soddisfazione; ma non volli che si immolasse sull’altare dell’amicizia; e ci gettammo invece su un pezzo di lardo: c’era, fortunatamente, un po’ di lardo nella credenza.

La mia povera mogliettina fu così desolata al pensiero che io fossi seccato, e così vibrante di gioia quando trovò il suo sospetto infondato, che il mio segreto disappunto svanì subito, e passammo una sera felice. Dora se ne stette accanto a me col braccio sulla mia sedia, cogliendo tutte le occasioni, mentre Traddles discuteva con me sulla qualità del vino, per bisbigliarmi all’orecchio che ero stato così buono da non borbottare... Dopo ella ci fece il tè; ed era bello vederla. Pareva che si af-faccendasse a fare il tè alla bambola; e io non feci il difficile sulla qualità della bevanda. Poi io e Traddles gio-cammo un paio di partite a carte, mentre Dora cantava accompagnandosi con la chitarra, e mi parve che il nostro fidanzamento e il nostro matrimonio fossero ancora un bel sogno, e come se la sera in cui la prima volta avevo ascoltato la voce di lei non fosse ancora finita.

Andato via Traddles, io, dopo averlo accompagnato 1146

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alla porta, tornai nel salotto. Mia moglie piantò la sua sedia accanto alla mia, e mi si sedette a fianco.

– Son tanto spiacente – disse. – Perché non cerchi d’insegnarmi, Doady?

– Debbo prima imparare io – dissi. – Io non ne so più di te, cara.

– Ah! Ma tu puoi imparare – ella rispose: – hai tanta intelligenza, tu!

– Non dire delle sciocchezze, tesoro.

– Io vorrei – ripigliò mia moglie, dopo un lungo silenzio – essere stata in campagna almeno un anno con Agnese.

Stava con le mani sulla mia spalla e col mento sulle mani, fissando con gli occhi azzurri tranquillamente i miei.

– Perché? – chiesi.

– Perché ella avrebbe potuto correggermi, e credo che da lei avrei imparato molto.

– Col tempo s’arriva a tutto, cara. Agnese per molti anni ha dovuto aver cura del padre, come sai. Anche quand’era bambina, era la stessa Agnese che noi conosciamo.

– Mi chiamerai con un nome che io ti dirò? – chiese Dora senza muoversi.

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– Quale? – dissi con un sorriso.

– È un nome sciocco – disse scotendo per un istante i riccioli. – Moglie-bimba.

Domandai ridendo a mia moglie-bimba perché voleva che io la chiamassi così. Ella rispose senza muoversi, benché cingendole col braccio la vita avessi avvicinato ancor più ai miei i suoi occhi azzurri:

– Io non intendo, sciocco che sei, che tu non mi debba chiamar più Dora. Voglio soltanto che quando pensi a me, pensi che sono tua moglie-bimba. Quando ti darò dei motivi d’inquietudine, tu dovrai pensare: «Non è che mia moglie-bimba». Quando non saprò accontentarti, tu dovrai dire: «Lo sapevo da tanto tempo che ella sarebbe stata una moglie-bimba». Quando non sarò per te tutto ciò che vorrei essere, e ciò che non sarò forse mai, dovrai dire: «E pure quella sciocca di mia moglie-bimba mi vuol bene!». Perché davvero ti voglio bene.

Non le avevo risposto seriamente, non avendo affatto sospettato, allora, ch’ella parlasse sul serio. Ma fu così felice di ciò che le risposi in tutta sincerità, che il viso le raggiò di gioia prima che le si asciugassero gli occhi.

Presto fu davvero mia moglie-bimba; e si sedette sul pavimento fuori della pagoda a sonare tutti i campanelli l’uno dopo l’altro per punire Jip della sua cattiva condotta in quella sera; ma Jip se ne stette sdraiato sulla soglia della sua nicchia, a guardar fuori con la coda del-1148

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l’occhio, risoluto per pigrizia a non sentirsene infastidito.

Quelle parole di Dora mi fecero una grande impressione. Io ora mi riporto a quel tempo; evoco l’innocente fanciulla alla quale volevo tanto bene, la supplico d’uscire ancora una volta dalle nebbie e dalle ombre del passato e di volgere su di me il suo bel viso; e posso ancora dichiarare che il suo discorsetto non mi uscì mai di mente. Forse non seppi trarne gran pro: ero giovane e inesperto ancora; ma non mi mostrai mai sordo alle sue care parole.

Poco tempo dopo, Dora mi disse che si proponeva d’essere una piccola massaia prodigiosa. E allora diede una ripulita al taccuino, temperò la matita, comprò un immenso libro di conti, con l’ago e il filo cucì accuratamente tutti i fogli del Libro di cucina staccati e lacerati da Jip, e fece un tentativo addirittura energico d’esser saggia, com’ella diceva. Ma le cifre avevano sempre l’identico vizio antico... non volevano addizionarsi. Quando aveva schierato due o tre laboriose colonne nel registro, Jip faceva una passeggiatina sulla pagina, agitando la coda, e scarabocchiava tutto. E poi il dito medio della sua manina destra s’inzuppava d’inchiostro fino all’os-so, per così dire: decisamente, credo, che fosse il solo risultato positivo visibile.

A volte, la sera, quand’ero in casa e al lavoro – giacché scrivevo molto allora, e cominciavo in certo qual modo 1149

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ad avere una certa nomea di scrittore – deponevo la penna e osservavo mia moglie-bimba che si provava ad esser saggia. Per prima cosa, pigliava il gigantesco Libro dei conti, e lo metteva sul tavolo con un profondo sospiro. Poi l’apriva al punto reso leggibile da Jip la sera innanzi, e chiamava Jip per fargli contemplare i suoi misfatti. Ne risultava un diversivo a vantaggio di Jip, e a suo svantaggio, un po’ di inchiostratura al muso, per pu-nizione, forse. Poi ordinava a Jip di coricarsi sul tavolo, all’istante, «come un leone» – che era uno dei suoi giuochi, benché non si possa dire che l’imitazione fosse molto felice – e se esso era in umore di ubbidire, ubbidiva.

Poi ella riprendeva la penna, e cominciava a scrivere, e vi trovava un capello. Poi prendeva un’altra penna, e cominciava a scrivere, e trovava che faceva degli sgorbi.

Poi prendeva un’altra penna, e cominciava a scrivere, e diceva sottovoce: «Oh, che scricchiolìo! Disturberà Doady!». E poi rinunziava a scrivere come a un’impresa impossibile, e metteva da parte il Libro dei conti, dopo aver fatto con esso l’atto di volere schiacciare il leone.

Oppure, se era in una condizione di spirito grave e posata, si metteva davanti il taccuino e un panierino di fattu-re e d’altri documenti, che avevano piuttosto l’aria di cartucce da arricciare i capelli che di liste e di conti, e si sforzava di trame qualche risultato. Dopo averli rigorosamente paragonati l’un con l’altro, avere scritto qualche riga sul taccuino, averla cancellata, aver contato e ricontato parecchie volte tutte le dita della sinistra da un 1150

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lato e dall’altro, si mostrava così infastidita e smarrita, aveva tanta tristezza in viso, che mi faceva pena vederlo oscurato da una nube – e per cagion mia! – e me le avvicinavo pianamente e le dicevo:

– Che hai, Dora? Dora levava gli occhi disperata e rispondeva:

– Non vogliono andar bene. Mi fanno tanto male alla testa. E non vogliono far nulla di ciò che desidero.

Allora dicevo:

– Proviamo insieme. Guarda, Dora.

E cominciavo una dimostrazione pratica, alla quale Dora prestava la più profonda attenzione, per la durata, forse, di cinque interi minuti; e poi cominciava a sentirsi orribilmente stanca, e alleggeriva l’argomento arric-ciandomi i capelli, o ripiegandomi il collo della camicia per vederne l’effetto sul mio viso. Se tacitamente frena-vo la sua giocondità continuando la mia dimostrazione, ella mi faceva una faccia così sgomenta e desolata, e gradatamente diventava così sconvolta, che il ricordo della sua gaiezza al tempo che i miei passi s’erano smarriti sulla sua via, e il sentimento ch’ella era mia moglie-bimba, avevano su di me il potere d’un rimprovero, e deponevo la penna dicendo a Dora di prendere la chitarra.

Io avevo molto da fare ed ero in preda a molti affanni, ma per la stessa ragione glieli tenevo celati. Son lungi 1151

Are sens